A man in music
Saremmo qui a parlarne se non ci fosse stato il successo della serie "American"?
Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se lo stesso Cash non fosse morto nel periodo in cui veniva assunto a simbolo della musica americana?
Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se non ci fosse stato il film di James Mangold? Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se non fossero stati pubblicati proprio in questi giorni "Personal file" e "American V"?
Probabilmente sì. Saremmo qui a parlarne ugualmente, perchè Johnny Cash è stato molto di più dell'uomo, dell'artista e del mito che è tornato alla ribalta in questi ultimi anni.
Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se lo stesso Cash non fosse morto nel periodo in cui veniva assunto a simbolo della musica americana?
Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se non ci fosse stato il film di James Mangold? Probabilmente sì.
Saremmo qui a parlarne se non fossero stati pubblicati proprio in questi giorni "Personal file" e "American V"?
Probabilmente sì. Saremmo qui a parlarne ugualmente, perchè Johnny Cash è stato molto di più dell'uomo, dell'artista e del mito che è tornato alla ribalta in questi ultimi anni.
1. Inside Johnny Cash
Quella che oggi è una delle più grandi icone della musica americana è stata un “everyman”, un uomo comune. |
Come vuole il mito americano, ma come volle soprattutto la sua vita, che a vederla col senno di poi sembra intrisa di segni premonitori, John R. Cash nacque il 26 febbraio 1932 da una famiglia di contadini a Kingsland, sperduta cittadina dell’Arkansas. |
Il passato che Johnny Cash si è portato dentro ha trovato nella musica una forma di espressione riconosciuta definitivamente dal sistema quando venne ammesso nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1992 e quando venne premiato con i Grammy Awards per “American recordings” nel 1997, per “Unchained” nel 1998 e per “The man comes around” nel 2003. |
Una
voce giovane ma profonda, intensamente baritonale, un ritmo che si
muoveva variando l’andamento del rock’n’roll con un incedere country (il
cosiddetto “boom-chicka-boom”) e i continui riferimenti ai treni fecero
sì che la sua musica diventasse subito portatrice di un carico non
indifferente.
Certo, bisogna risalire all’infanzia e ancora più indietro per capire da dove più o meno consciamente il giovane Cash attingeva: i primi responsabili della formazione del giovane John furono la madre e la radio. È da qui, si sa, che venne a contatto con la tradizione country, folk e gospel, attraverso le voci di The Louvin Brothers, The Carter Family, Jimmie Rodgers, Sister Rosetta Tharpe, The Georgia Crackers, Jimmie Davis e tanti altri, compresa la “race music” trasmessa dalle black stations. |
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Era una musica fortemente legata alla terra: non solo parlava della terra, ma veniva cantata e quindi diffusa mentre si lavorava la terra. E la famiglia Cash, John compreso, aveva nella terra l’unico mezzo di sostentamento avendo ottenuto dal New Deal del governo Roosevelt venti acri di un campo di cotone a Dyess, nel Nordest dell’Arkansas, vicino alla linea di confine tracciata dal Mississippi.
La
terra e il territorio furono il patrimonio in cui il giovane Cash si
trovò immerso: un patrimonio povero, spesso piatto e duro da far
fruttare, ma che intrise di storie e di riferimenti specifici le sue
canzoni. John tradusse il suo mondo in simboli e luoghi fisicamente
riconoscibili (treni, fiumi, nomi di paesi, campi, prigioni, personaggi e
fatti più o meno reali) e in concetti vissuti concretamente (il lavoro,
la povertà, l’ingiustizia, la morte, la fede, la salvezza).
Dalle
prime incisioni per la Sun fino alle ultime prima della morte, la sua
musica ha sempre messo l’ascoltatore di fronte ai temi antichi ed
essenziali della vita dell’uomo: la sopravvivenza, la dignità, l’amore,
la mortalità, la religiosità.
E
sin dalla gioventù le sue scelte umane ed artistiche furono votate a
risolvere queste questioni. Nel bene e nel male Cash ha sempre tentato
di raggiungere una condizione superiore trovandola incarnata nel
successo, nella famiglia, nella conversione religiosa, ma anche negli
eccessi, nelle donne, nell’alcol e nella droga.
Anche
gli spostamenti da Kingsland a Dyess, da Memphis a Nashville, miravano
ad un’emancipazione senza però rompere il legame con le proprie origini.
Quello che appare il percorso di un giovane ambizioso determinato a
lasciare la provincia per raggiungere i grossi centri nevralgici del
paese fu in realtà l’esperienza di un uomo che continuò a preferire la
terra alla città, la campagna alla metropoli, al punto che in età
adulta, quando si trovò nella condizione migliore per scegliersi una
casa, abbandonò Nashville, ovvero il luogo ideale per la sua carriera, e
optò per Hendersonville stabilendosi in quella che almeno inzialmente
appare simile alla “house in the woods” descritta da Henry David Thoreau
in “Walden”: per quanto l’abitazione del cantante si sviluppò e divenne
poi la famosa House of Cash, con tanto di studi di registrazione, di
uffici e di museo, entrambi gli alloggi erano collocati nelle vicinanze
di un lago, a stretto contatto con la natura.
Come
dire che la vita di Cash partì dalla terra per tornare alla terra:
partì da una terra piatta ed dura da lavorare per diventare parte di una
terra fertile, dai confini molto più ampi.
Cominciò
bambino a faticare con le sue mani e con la schiena piegata su pochi
acri ed arrivò anziano ad erigersi con fermezza su un vasto territorio
musicale ed umano da lui stesso coltivato e riconosciutogli come suo.
|
La prima caratteristica che ancora oggi è indiscutibilmente attribuita a Johnny Cash è la sua capacità di suonare “vero”.
Valgono le parole di Rick Rubin riportate nel booklet del box-set
“Unearthed” (2003): “He has a way of personalizing the music and
communicating the emotion of the lyrics that very few people have”,
ossia “ha un modo tutto suo di impossessarsi della musica e di
comunicare l’emozione della parola che in pochissimi hanno”.
Rubin,
che ricordiamolo era stato produttore di tutt’altra musica (Run-DMC,
Beastie Boys, Red Hot Chili Peppers e in seguito System of a Down, Rage
Against the Machine), ebbe l’intuizione e la fortuna di trovare un
songwriter “saggio”, che aveva affinato le sue capacità in cinquant’anni
di carriera e che era cosciente delle sue possibiltà, ma una delle
caratteristiche di Cash è sempre stata il cantare solo ciò che conosceva
o che sentiva estremamente vicino (anche quando Rubin lo invitò ad
interpretare pezzi di band come Soundgarden e Nine Inch Nails).
Lo stesso Cash racconta che la prima volta che si presentò agli studi della Sun a Memphis dichiarò di essere un cantante gospel, perché quella era la musica che sentiva più sua. Venne respinto, tornò e si presentò nuovamente a Sam Phillips unicamente con “Hello, I’m Johnny Cash”. |
Nel
motto “Hello, I’m Johnny Cash” è contenuta una vita intera e oltre:
quella frase, usata già prima dallo stesso Cash quando lavorava di porta
in porta come venditore per la Home Equipment Company, è diventata una
metafora di uno stile e di una carriera, alludendo per estensione anche a
ciò che l’artista aveva ereditato e avrebbe lasciato in eredità.
Johnny Cash è sempre rimasto Johnny Cash, con tutte le sue passioni e con tutte le sue contraddizioni. |
Allo stesso tempo però Cash era facile a sfoghi e posizioni estreme, in contraddizione con la sua indole sobria e religiosa: dalla celebre serata in cui si scagliò contro l’impianto luci del Grand Ole Opry alla famosa foto del dito medio alzato, scattata ad un concerto nel carcere di San Quentin e poi pubblicata in segno di “ringraziamento” all’establishment di Nashville per il conseguimento del Grammy, le sue posizioni furono sempre nette, discusse e discutibili, ma ferme. Colui che suonava e si mostrava a fianco di disadattati e carcerati, nel 1970 cantò alla Casa Bianca per Richard Nixon e si fece autografare una foto di Ronald Reagan da appendere in casa. |
Ci sarebbe da interrogarsi anche su alcune suoi dischi non certo indimenticabili, come qualche “concept album” votato alla causa dei Nativi Americani, ai problemi del suolo americano o al concetto stesso di patria, lavori che oggi suonano datati, ma da cui traspare un’assoluta dedizione ad un’idea di giustizia e di purezza da diffondere attraverso le canzoni. |
Anche le sue apparizioni cinematografiche
più che da una scelta artistica furono dettate da una schietta
preferenza umana: nel 1971 interpretò un western con Kirk Douglas, poi
partecipò a “The gospel road” e comparve in un episodio della serie
“Colombo” di Peter Falk. Più che una qualità da attore, Johnny Cash
confermò la sua natura popolare e cercò sul set personaggi e storie in
cui riconoscersi, identificandosi con figure a lui non certo estranee
come cowboy, fuorilegge e sbandati alla ricerca di una via.
Con lo stesso spirito condusse “The Johnny Cash Show”, un programma televisivo in onda sull’ABC dal giugno 1969 al marzo 1971, durante il quale ospitò musicisti prevalentemente folk (Bob Dylan, Neil Young, June Carter, The Carter Family, Buffy Saint-Marie, Merle Haggard, James Taylor, Neil Diamond, Ray Charles, Kris Kristofferson, Jackie DeShannon, Arlo Guthrie ecc.). E più avanti negli anni, nel 1985, partecipò al progetto Highwaymen, una sorta di cowboy band, che lo vide andare in tour e in studio con Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson. |
Grazie
alla sua coscienza e al suo istinto, Johnny Cash ha sempre saputo ciò
che faceva, ma soprattutto ciò che cantava e come lo cantava: dotato di
una scrittura asciutta e povera, come la sua terra, ha prodotto una
musica sobria, cantata in modo profondo, anche quando pervasa dal
rock’n’roll. Oltre che dal country, dal gospel e dal rock’n’roll, le sue canzoni si nutrivano di una linfa blues: non poteva essere altrimenti visto il luogo e le condizioni in cui da giovane era cresciuto, nelle vicinanze del Mississippi. Il blues infatti viene nominato come condizione da cui liberarsi in molti suoi pezzi, tra cui i celeberrimi “Folsom Prison blues”, “Cocaine blues” e “Get rhythm”. |
Cash conosceva bene i propri demoni, essendoseli trovati in casa sin da bambino: lo spettro della povertà, la violenza rabbiosa del padre e soprattutto la scomparsa del fratello maggiore, Jack, deceduto in seguito ad un incidente con una sega elettrica. |
Così succede che il protagonista di parecchie canzoni vede uomini morti o in punto di morte:
“I shot a man in Reno / just to watch him die” (“Ho fatto secco uno a
Reno / solo per guardarlo morire”, da “Folsom Prison blues”) e ancora “I
found him by the railroad track this morning / I could see that he was
nearly dead / I knelt down beside him and I listened / Just to hear the
words the dying fellow said” (“Ho trovato uno vicino ai binari
stamattina / ho visto che era quasi andato / così mi sono inginocchiato
accanto a lui per ascoltare / le parole che dice un uomo quando sta per
crepare”, da “Give my love to Rose”).
Crescendo
Cash si trovò più volte la morte davanti agli occhi: la propria,
mettendo ripetutamente a rischio la sua carriera, la sua famiglia e la
sua stessa salute; quella di Luther Perkins, suo storico chitarrista
deceduto nel 1968; quella di parecchi amici, tra cui Carl Perkins
(gennaio 1998) e Waylon Jennnings (febbraio 2002), e quella della
seconda moglie June Carter, che lo anticipò di pochi mesi (lei spirò il
15 maggio e lui il 12 settembre 2003).
Invecchiando
la morte fu sempre più presente nella vita e nella scrittura, al punto
che anche nelle canzoni interpretate per la serie “American” Cash e
Rubin andarono a ripescare molti brani sulla morte e sul giudizio
ultimo.
Dovendo
noi ora concludere questo breve viaggio dentro Johnny Cash con un
giudizio riassuntivo di una storia tanto intensa, si può sicuramente
dire che la sua musica contiene tutti i valori e le traversie della
popular music americana.
E se oggi siamo ancora qui a parlarne, è perché sicuramente merita di essere conosciuta e approfondita.
2. Johnny come lately: il recupero di Johnny Cash
È purtroppo un dato di fatto che in Italia Johnny Cash non è stato conosciuto e considerato come la sua musica meriterebbe. Nonostante il solito periodo di curiosità seguito alla morte, ancora oggi l’interesse è poco e ne è prova la mancanza di testi in italiano sulla sua vita e sulla sua storia: non è ancora stato scritto né tradotto nella nostra lingua alcun saggio o biografia su Johnny Cash. |
Ostinatamente invece Cash ha sempre ritrovato sé stesso, anzi la sua carriera è stata un continuo recupero,
al punto che possiamo tranquillamente dire che ha condotto in prima
persona un processo di recupero della propria identità e della propria
musica, avviato ben prima della morte e del ritorno di popolarità
ottenuto con la serie “American”.
Quei
discografici che vedevano in lui un artista legato al passato vedevano
bene, ma vedevano solo una parte del tutto. Cash è sempre stato più
conservatore che innovatore, ma ha guardato al passato per piantare le
sue radici profondamente e per far crescere la sua musica nel modo più
duraturo possibile: i posteri già confermano.
E una conferma viene anche dalla pubblicazione di “Personal file”,
una raccolta di canzoni voce e chitarra registrate nel 1973, in cui
Cash interpreta pezzi propri e di altri autori recuperati dal periodo
della gioventù, se non dell’infanzia: tra una traccia e l’altra è qua
possibile sentirlo raccontare aneddoti del proprio passato personale ed
artistico.
Nell’arco
poi di cinquant’anni di carriera, ha dato nuova vita a canzoni di
moltissimi songwriters che lo hanno preceduto e accompagnato, diventando
per più di una generazione un testimone, un padre della
musica country, folk ed oltre. Anche la scelta di sposare June Carter,
figlia della Carter Family, una delle formazioni più votate al recupero
dell’american music, può essere interpretata come un ulteriore passo
diretto verso la tradizione.
È stato però con la serie “American” che è diventato chiaro a tutti quanto Cash fosse un raccoglitore di canzoni, capace di portare su di sé musiche passate come fossero nuove e musiche nuove come fossero passate. |
È prossima ormai anche l’uscita di “American V: A hundred highways”, il volume conclusivo del lavoro condotto con Rubin, che si va ad aggiungere al box-set postumo “Unearthed”, ma rimane il dubbio di quanto materiale con e senza Rubin sia stato inciso da Cash e giaccia ancora inedito. Come un tesoro nascosto. |
Un processo di recupero è anche quello svolto nel film “Walk the line”. Non è un caso, anzi è una scelta precisa, che James Mangold
dia inizio alla pellicola con un flash-back: dopo una scena
introduttiva al celebre concerto nella prigione di Folsom, la storia
riparte dal ricordo dell’infanzia secondo un copione approvato ed
elaborato con gli stessi coniugi Cash.
Questa
partenza-ripartenza permette di andare a toccare quelli che sono stati i
temi fondanti dell’identità di Cash. Sin dall’inizio le immagini si
muovono seguendo un percorso che dall’esterno porta all’interno del
carcere, oltrepassando le mura, varcando l’entrata, i cancelli della
sezione e infine le sbarre delle celle: è un cammino intestino, diretto
verso il fondo, verso quella che è considerata la feccia dell’uomo, ma
proprio lì si comincia a risorgere, a trovare forza, perché lì Johnny
Cash si sta esibendo con la sua band.
Forse viene messa troppo in primo piano la relazione con June Carter, scendendo a patti con le esigenze hollywoodiane, ma, non si perde di vista quello che è stato il bisogno costante nella vita di Johnny Cash, ovvero quell’andare a ritroso per scavare ed andare ad afferrare la parte più vera di sé stesso.
Con
questo processo retrospettivo Mangold è riuscito a rimettere
parzialmente in scena la vita e la musica di Johnny Cash, grazie da un
cast di attori e di musicisti che hanno cantato e suonato sotto la
supervisione di T-Bone Burnett.
Il
film ha permesso di riaccendere i riflettori su un uomo e su un artista
che non si possono imbalsamare nè chiudere in una categoria o in una
sala da museo.
|
Ma il recupero più completo che si possa tentare è ovviamente quello condotto dallo stesso Cash attraverso le tante canzoni e i tanti dischi che ci ha lasciato: “Nobody here will ever find me / But i will always be around / Just like the songs / I leave behind me / I'm gonna live forever now” (“Nessuno mi troverà mai / Ma io sarò sempre qui in giro / come le canzoni / che mi lascio alle spalle / vivrò per sempre”, da “Live forever”). |
3. Where The Soul of Man Never Dies: da dove ripartire
“At Folsom prison” (Columbia, 1968)
|
“Unearthed” (Lost Highway, 2004)
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“Legend” (Columbia / Legacy, 2005)
|
“Live from Austin TX” - dvd (New West, 2005)
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da:http://www.mescalina.it/intervista_02-07-2006/johnny-cash
Postato da: giacabi a 22:10 |
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cash jonny
Il Paolo di Johnny Cash
***
di Max Granieri - pubblicato il 15 settembre 2009
“Quasi un quarto delle canzoni scritte da Cash – ha notato uno dei suoi biografi, Steve Turner – parlano in qualche modo della sua fede e della Bibbia. Molte altre, anche se non trattano specificamente questo argomento, sono influenzate dalla sua visione del mondo cristiano. “I walk the line”, con la sua dichiarazione di fedeltà coniugale, conteneva un inconscio impulso cristiano, così come molte sue canzoni sulla giustizia e la povertà. Quando scriveva di lavoro lo faceva da un’ottica biblica”.
Questa dinamica tra caduta e redenzione, tra cecità e nuova vista, Cash la rintracciò – in tutta la sua radicalità – in san Paolo. Con l’apostolo delle genti il cantante istaurò una sorta di rapporto “personale”, intimo, quasi un rispecchiamento. Un’affinità. Tanto da dedicare all’apostolo un libro: Man in white. Un romanzo – la riscrittura della vita di Paolo prima e dopo la conversione – che lo accompagnò e lo impegno per ben sette anni. E che fu un’ancora di salvezza che gli consentì di uscire dalla crisi umana e religiosa che lo paralizzava. Per tutti Cash era l’uomo in nero (“the man in black”): mi vesto di nero, ripeteva, per testimoniare la mia vicinanza agli affitti, agli ultimi, agli outlaw, ai rifiutati. Ma in quel nero c’era forse anche traccia del senso della caduta, della consapevolezza del peccato che lo tormentava. Dunque l’uomo in bianco” e quello “in nero”. Non due distanze inavvicinabili, ma due estremità dello stesso filo.
Nell’introduzione al romanzo Cash – che nella sua carriera cantò più volte all’interno delle prigioni, fino a farne uno dei momenti topici della sua carriera – scrive: “Anche Paolo cantò dietro le sbarre, un canto capace di rompere la prigionia (Jailbraking song). Non solo cantò, ma duettò con Sila”. Il “fuoco”, la figura attorno alla quale ruota tutto il romanzo di Cash, è la conversione di Paolo. E’ essa ad attrarre Cash, ed è in essa che il cantante ritrovava qualcosa della sue esistenza, del suo – tormentato – vissuto. “Cosa esattamente Paolo – si chiede Cash – vedeva e sentiva negli istanti in cui fu accecato sulla strada di Damasco? Credo che cercasse di vedere attraverso quel grande vuoto, di cogliere anche solo uno scintillio del fulgore che lo gettò a terra?”. Il persecutore che si fa perseguitato, che investe tutte le sue energie e risorse nella missione che assorbe interamente la sua vita: ecco la traccia che lo stesso Cash voleva seguire nella sua vita. “Paolo sorrideva ai suoi persecutori – scrive. Fu picchiato, insultato, imprigionato, odiato dalla sua stessa gente”. Nella sua vita Cash sentì irrompere, e con la stessa violenza, la forza della conversione. “Non sono stato mai così privilegiato da avere una esperienza come quella che sorprese Paolo sulla via di Damasco. Ma nella notte di Natale del 1985 fui visitato da una visione, come in un sogno: ho visto una luce che non era terrena. Ripresi a lavorare. Ritrovai la gioia dello scrivere. Conclusi il libro”.
San Paolo e Johnny Cash “hanno visto” il Signore. Di un incontro Paolo parla nella prima lettera ai Corinzi, per legittimare il suo ruolo di apostolo autorevole come gli altri missionari, in particolare i “dodici”. Il Cristo risuscitato appare all’apostolo, ultimo dei destinatari delle apparizioni pasquali. Si tratta di un’apparizione-incontro, in cui si manifesta l’amore gratuito di Dio che lo trasforma. Johnny Cash canta il rivelarsi di Dio a lui, un’esperienza che gli ha modificato la vita e le sue scelte. Lo testimonia nella canzone “Meet me in Heaven”: “Abbiamo visto il segreto le cose rivelate da Dio. E abbiamo sentito ciò che gli angeli avevano da dire…”. In diversi passi delle lettere, San Paolo parla della sua esperienza di cambiamento radicale avuto nell’incontro con Cristo. Per esprimere questa esperienza sconvolgente, egli fa ricorso al linguaggio biblico della rivelazione di Dio, lo stesso usato da Cash nei suoi brani per indicare l’origine del suo rinnovamento spirituale. San Paolo rievoca la conversione con una dichiarazione: “Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto” (Corinzi 15,11) . Cash, invece, riprende a compilare il suo libro, in un slancio di vita nuova.
L’iniziativa di Cristo stravolge le sua esistenza, come fu per Paolo sulla via di Damasco. “Man in White” non è un hobby per Johnny Cash o un’attività aggiunta al suo essere artista e cristiano, ma coincide con la sua nuova identità di credente, che ha fatto del Cristo e della relazione personale con Lui la ragione della sua vita e il criterio delle sue scelte. Cash comprova il cambiamento della sua etica, conseguente allo svelarsi di Dio, in “(Ghost) Riders in the Sky”: “Mentre i cavalieri passavano sopra di lui udì qualcuno chiamare il suo nome. Se vuoi salvare la tua anima dall’inferno di cavalcare per sempre, allora cowboy cambia il tuo atteggiamento oggi, o cavalcherai con noi. Tentando di catturare la mandria del diavolo per questi cieli infiniti”.
San Paolo apostolo scrive: “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me. Guai a me se non predicassi il vangelo” (1 Cor 9,16). L’annuncio del vangelo fa parte di quel dinamismo spirituale cominciato dall’incontro con Gesù Risorto, che in Paolo ha dato inizio all’attività missionaria itinerante, mentre in Johnny Cash ha provocato il cambiamento del centro gravitazionale della sua esistenza.
La vita e la morte, in San Paolo e Johnny Cash, s’intrecciano con il mistero cristico. Nella Seconda Lettera a Timoteo (4,6-7), Paolo si prepara ad affrontare il suo sacrificio: “Il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Con queste parole cariche di fede nel Risorto, l’apostolo indica il mistero della sua morte, utilizzando l’immagine della partenza: la nave pronta ad affrontare il mare della passione di Cristo, che lo bagnerà con il sangue del martirio. Cash, da par suo, in un’interpretazione magistrale di “Spiritual”, cover del gruppo Spain (inclusa nell’album The Blue Moods of Spain), si rivolge supplice al Signore in un atto di abbandono fiducioso e drammatico: “Gesù, non voglio morire da solo. Il mio amore non era autentico, ora tutto ciò che possiedo sei Tu. Se senti il mio ultimo respiro, non lasciarmi morire, non abbandonarmi”.
Al termine della buona battaglia della fede, entrambi allargano le braccia alla morte in maniera eroica, come il Cristo inchiodato sull’albero della vita. Li accomuna, dunque, la conversione sulla via di Damasco, il coraggio della testimonianza cristiana e la fede nella Resurrezione, scandita dall’attesa del giudizio misericordioso di Gesù Cristo.
Più di tutti, c’è un principio che associa l’esperienza riscattata di Johnny Cash a quella di San Paolo: l’universalità. Da essa deriva la scelta paolina dell’annuncio del vangelo ai pagani. Se il vangelo è la manifestazione dell’amore gratuito di Dio, esso è destinato a tutti senza distinzione e discriminazioni (Rm 15,16.20-21; 2 Cor 10, 15-16). La stessa origine che rende il gospel di Johnny Cash accessibile a chiunque voglia specchiarsi nelle canzoni di un vecchio e grande uomo, salvato dalla musica e dal suo Ispiratore.
Scritto da Max Granieri e Luca Miele per il magazine Paulus (settembre 2009) | Site PaulusWeb
Ferito
Oggi mi sono ferito da solo,
Per vedere se ero ancora in grado di sentire,
Mi sono concentrato sul dolore,
la sola cosa reale,
l'ago fa un buco
la vecchia familiare trafittura
(che) cerca di eliminare ogni cosa
ma io ricordo tutto,
(Chorus)
Cosa sono diventato?
mio dolce amico
tutti quelli conosco
sono andati via alla fine
e potresti avere tutto
il mio impero di sporcizia
Ti abbandonerò
Ti farò star male
Ho portato questa corona di spine
sulla sedia di coloro che mi mentono
pieno di pensieri interrotti
(che) non posso riparare
sotto le macchie del tempo
i sentimenti scompaiono
tu sei qualcun altro
Sono ancora qui
Cosa sono diventato?
il mio più caro amico
tutti quelli che conosco
sono andati via alla fine
e potresti averlo tutto
il mio impero di sporcizia
Ti porterò in basso
Ti farò male
Se potessi ricominciare
a un milione di miglia da qui,
mi controllerei,
troverei un modo
Postato da: giacabi a 21:45 |
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cash jonny
Johnny Cash, il rock
che cantava la fede
che cantava la fede
Personal Jesus
Personal Jesus - Depeche Mode
"Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who's there
Feeling unknown
And you're all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I'll make you a believer
Take second best
Put me to the test
Things on your chest
You need to confess
I will deliver
You know I'm a forgiver
Reach out and touch faith
Reach out and touch faith
Your own personal Jesus...
Feeling unknown
And you're all alone
Flesh and bone
By the telephone
Lift up the receiver
I'll make you a believer
I will deliver
You know I'm a forgiver
Reach out and touch faith
Your own personal Jesus
Reach out and touch faith"
Traduzione
Gesù personale
"Il tuo Gesù personale
Qualcuno che ascolti le tue preghiere
Qualcuno a cui importi di te
Il tuo Gesù personale
Qualcuno che ascolti le tue preghiere
Qualcuno che sia lì
Ti senti sconosciuto
E sei tutto solo
Carne e ossa
Vicino al telefono
Solleva la cornetta
Farò di te un credente
Prendi la seconda scelta
Mettimi alla prova
Cose nel tuo petto
Che hai bisogno di confessare
Io gliele porterò
Sai che io sono una che perdona
Allunga la mano e tocca la fede
Allunga la mano e tocca la fede
Il tuo Gesù personale…
Ti senti sconosciuto
E sei tutto solo
Carne e ossa
Vicino al telefono
Solleva la cornetta
Farò di te un credente
Io ti porterò
Sai che io sono una che perdona
Allunga la mano e tocca la fede
Il tuo Gesù personale
Allunga la mano e tocca la fede"
Ci
sono artisti che arrivano ad usare i valori come maschera: per ottenere
maggiore successo. E poi ci sono quelli come Johnny Cash. Non un santo,
certo. Uno che ha conosciuto la prigione ed ha rischiato la morte di
overdose: ma pure uno che, ad un certo punto della sua vita, ha colto di
essa un possibile Senso con la maiuscola, e delle sue canzoni sugli
ultimi ha iniziato a fare dolenti, commossi inni all’uomo. Innestati
nella propria fede in un Dio che all’uomo dà orizzonti e speranze.
Quando si parla di Johnny Cash, scomparso nel 2003 per complicazioni del diabete (ma fors’anche perché provato dalla morte della moglie June pochi mesi prima), si parla di un personaggio che va oltre gli stereotipi. Quelli del rock che sfiorava, quelli del blues che interpretava magistralmente, quelli che ne hanno fatto personaggio anche televisivo. Prima perché anticonformista anche in senso retrivo e poi «solo» perché scomodo; ma quasi mai indagando a fondo il perché di quel suo scomodo cantare l’uomo e Dio. Sono quindi importanti, le occasioni per esplorare uno come Johnny Cash, specie di questi tempi. Anche in «prodotti» come un dvd e un libro, che seguono di poco il suo album postumo Ain’t no grave, ulteriore e toccante testimonianza di arte intrisa di fede e umanità. Certo, poi bisognerà, dal dvd e dal libro, passare ad ascoltarlo, Cash: ma questi due «prodotti» spingono a farlo.
Il dvd, Singing at his best, presenta 17 rare apparizioni di Cash in tv. A cantare Cristo, i dolori della gente comune, l’amore in senso alto. Non a fare il «personaggio». E il libro, The man in black - Testi commentati, edito da Arcana, beh, è un ritratto fuori dagli schemi redatto facendo arguta selezione di ciò che conta di più, nella storia di Cash. Il giovane cantante country che viene educato al rispetto della terra ed a credere che c’è Qualcuno che la terra governa, e da cui bisogna saper accettare anche faccende come le alluvioni. Quello che torna nelle carceri a cantare e, pur potendone fare solo evento discografico, diviene portavoce dei reietti, interpretandone pentimenti e disagi.
Quello che canta l’America discostandosi dal «sogno» per sottolineare anche ingiustizie e tragedie. Quello che, sì, diviene «Man in black», «personaggio», ma «per i poveri» e «per quelli che non hanno mai letto le parole di Gesù». Quello che si confessa in pubblico gridando che nella fede ha trovato un senso. Quello che ritrova il successo con i dischi di American Recordings, azzerando ogni residuo rischio di predicare o speculare sulla sua storia di disastri e riscatto.
E per chi Cash non lo conoscesse, forse una spinta in più per riflettere sul suo mondo viene dagli autori del libro di cui si parla. Valter e Francesco Binaghi, un padre e un figlio. Un padre che ha conosciuto la droga, lo scrive, e rilancia: narrando Cash per testimoniare ai giovani che si possono vincere, i demoni della modernità. E un figlio pazzo dell’heavy metal che scopre Cash, e capisce che la musica può essere anche altro. Un padre e un figlio che chiudono il loro lavoro segnalando come l’eredità di Cash per l’uomo del Duemila sia «voce, chitarra e fede». «Bagaglio leggero», scrivono. E quanto scomodo, oggi. Eppure, senza la fede, la voce di Cash non sarebbe stata la stessa: ed avremmo un esempio in meno di quanto, volendo, anche una chitarra può aiutare a vivere.
da:www.avvenire.it 23.05.2010
Quando si parla di Johnny Cash, scomparso nel 2003 per complicazioni del diabete (ma fors’anche perché provato dalla morte della moglie June pochi mesi prima), si parla di un personaggio che va oltre gli stereotipi. Quelli del rock che sfiorava, quelli del blues che interpretava magistralmente, quelli che ne hanno fatto personaggio anche televisivo. Prima perché anticonformista anche in senso retrivo e poi «solo» perché scomodo; ma quasi mai indagando a fondo il perché di quel suo scomodo cantare l’uomo e Dio. Sono quindi importanti, le occasioni per esplorare uno come Johnny Cash, specie di questi tempi. Anche in «prodotti» come un dvd e un libro, che seguono di poco il suo album postumo Ain’t no grave, ulteriore e toccante testimonianza di arte intrisa di fede e umanità. Certo, poi bisognerà, dal dvd e dal libro, passare ad ascoltarlo, Cash: ma questi due «prodotti» spingono a farlo.
Il dvd, Singing at his best, presenta 17 rare apparizioni di Cash in tv. A cantare Cristo, i dolori della gente comune, l’amore in senso alto. Non a fare il «personaggio». E il libro, The man in black - Testi commentati, edito da Arcana, beh, è un ritratto fuori dagli schemi redatto facendo arguta selezione di ciò che conta di più, nella storia di Cash. Il giovane cantante country che viene educato al rispetto della terra ed a credere che c’è Qualcuno che la terra governa, e da cui bisogna saper accettare anche faccende come le alluvioni. Quello che torna nelle carceri a cantare e, pur potendone fare solo evento discografico, diviene portavoce dei reietti, interpretandone pentimenti e disagi.
Quello che canta l’America discostandosi dal «sogno» per sottolineare anche ingiustizie e tragedie. Quello che, sì, diviene «Man in black», «personaggio», ma «per i poveri» e «per quelli che non hanno mai letto le parole di Gesù». Quello che si confessa in pubblico gridando che nella fede ha trovato un senso. Quello che ritrova il successo con i dischi di American Recordings, azzerando ogni residuo rischio di predicare o speculare sulla sua storia di disastri e riscatto.
E per chi Cash non lo conoscesse, forse una spinta in più per riflettere sul suo mondo viene dagli autori del libro di cui si parla. Valter e Francesco Binaghi, un padre e un figlio. Un padre che ha conosciuto la droga, lo scrive, e rilancia: narrando Cash per testimoniare ai giovani che si possono vincere, i demoni della modernità. E un figlio pazzo dell’heavy metal che scopre Cash, e capisce che la musica può essere anche altro. Un padre e un figlio che chiudono il loro lavoro segnalando come l’eredità di Cash per l’uomo del Duemila sia «voce, chitarra e fede». «Bagaglio leggero», scrivono. E quanto scomodo, oggi. Eppure, senza la fede, la voce di Cash non sarebbe stata la stessa: ed avremmo un esempio in meno di quanto, volendo, anche una chitarra può aiutare a vivere.
da:www.avvenire.it 23.05.2010
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