Principi non negoziabili,
sostenerli è un dovere
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sostenerli è un dovere
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di Piero Gheddo
04-11-2011
In riferimento al discorso del card. Angelo Bagnasco al Forum dei cattolici in politica a Todi (Perugia) il 17 ottobre scorso, un amico mi telefona per chiedermi di spiegare quali sono e perché la Chiesa insiste nel proclamare i suoi “valori irrinunziabili”. Ecco in breve.
Per la Chiesa, i “valori irrinunziabili” (o “non negoziabili”) sono tre:
- la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, quindi contro l’aborto, l’eutanasia e la manipolazione del gene umano;
- la difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna, cioè la condanna del riconoscimento giuridico dell’unione tra omosessuali e delle coppie di conviventi; la difesa della famiglia comporta il terzo valore irrinunziabile:
- la difesa della libertà di educazione, cioè il diritto della famiglia di scegliere come educare i propri figli, quindi la parità tra scuola pubblica e scuola privata paritaria, perché il compito di educare i figli spetta anzitutto ai genitori, non allo stato.
Perché questi valori irrinunziabili? Una delle grandi novità della Caritas in Veritate di Benedetto XVI (2009) è questa: per la prima volta in un’enciclica sociale, viene presentato il diritto alla vita come valore prioritario dello sviluppo “plenario” (cioè non solo economico) di ogni popolo e dell’umanità (n. 28). La "questione antropologica", su cui tanto insistono la Santa Sede e la Cei, diventa a pieno titolo "questione sociale" (nn. 28, 44, 75).
La crisi dell’Occidente è una “crisi antropologica”: cioè si perde il concetto di uomo creato da Dio, si vuole manipolare il Dna dell’uomo, si vuole creare l’uomo sano e senza difetti fisici, si distrugge il matrimonio e la famiglia monogamica, ecc. Tutto questo, anche se molti non lo sanno o non ci credono, porta alla barbarie. L’uomo padrone di se stesso, l’uomo padrone della vita e della morte è l’anticamera per nuovi Auschwitz e nuovi Khmer rossi, che possono nascere da questa cultura orientata a produrre la morte. La Chiesa condanna il controllo delle nascite, l'aborto, le sterilizzazioni, l'eutanasia, le manipolazioni dell'identità umana e la selezione eugenetica non solo per la loro intrinseca immoralità, ma anche perchè lacerano e degradano il tessuto sociale, corrodono la famiglia e rendono difficile l'accoglienza dei più deboli e innocenti: «Nei paesi economicamente sviluppati - scrive Benedetto XVI (CV 28) - le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi… L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo…».
L'enciclica spiega che per lo sviluppo dell'economia e della società occorre impostare programmi di sviluppo non di tipo utilitaristico e individualistico, ma che tengano “sistematicamente conto della dignità della donna, della procreazione, della famiglia e dei diritti del concepito”. Dalla Humanae Vitae di Paolo VI (1968) ad oggi, spesso l’insistenza del Papa e dei vescovi su questi concetti non è compresa nemmeno dai cattolici, una parte dei quali pensano che la difesa della vita e della famiglia passa in secondo piano di fronte alle drammatiche urgenze della fame, della miseria, delle ingiustizie a livello mondiale e nazionale. Non capiscono il valore profetico di quanto dicono il Papa e i vescovi, che denunziano le conseguenze nefaste di certi orientamenti culturali e legislativi anche per la soluzione dei problemi sociali. Se nella cultura comune e nelle legislazioni nazionali, come anche negli organismi dell’Onu e della Comunità Europea, prevale l’egoismo dell’individuo, com’è possibile pensare che poi, nell’accoglienza del più povero e del diverso, quest’uomo egoista diventi altruista?
Tra opere sociali e difesa della vita non esiste alcuna contraddizione, ma anzi c’è un’integrazione vicendevole, si richiamano a vicenda, l’una non sta senza l’altra. La protesta per la fame nel mondo e per l’aborto hanno eguale significato e valore di difesa della vita. Ma i No Global anche cattolici hanno fatto molte proteste contro la fame, nessuna contro gli aborti, nessuna contro le coppie di fatto, i divorzi, le separazioni, i matrimoni tra gay! Accettiamo tranquillamente che in queste situazioni vinca l’egoismo umano e poi chiediamo che nella lotta contro la fame nel mondo prevalga l’altruismo. Dov’è la logica?
Nel suo discorso a Todi, il card. Bagnasco ha parlato dei “principi irrinunciabili” e ha detto: «Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nel momento di maggior fragilità. Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi, mentre, staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della “vita nuda”, i valori sociali inaridiscono. “Ecco perchè – continua il presidente della CEI - nel “corpus” del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva. Nella coscienza universale, sancita dalle Carte costituzionali, è espressa una acquisita sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana, e quindi è affermato il dovere di mettere in atto ogni efficace misura di difesa, sostegno e promozione…. Ma, ci chiediamo, chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il proprio diritto (alla vita)? Vittime invisibili, ma reali! La presa in carico dei più poveri e indifesi non esprime forse il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento? E non modella la forma di pensare e di agire – il costume – di un popolo, il suo modo di rapportarsi nel proprio interno? Questo insieme di atteggiamenti e di comportamenti propri dei singoli, ma anche della società e dello Stato, manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato di un popolo, di una Nazione».
Insomma, se si concepisce l’uomo in modo individualistico, come oggi si tende a fare, come si potrà costruire una comunità solidale dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? Quando si sfascia la famiglia, si dissolve anche la società, come purtroppo stiamo sperimentando in Italia. Non si capisce come mai una verità così evidente è snobbata da chi appoggia altri tipi di famiglia (tra i gay ad esempio) e toglie ai coniugi lo stimolo di un patto d’amore da consacrare di fronte alla società col matrimonio, favorendo le coppie che si uniscono e si separano liberamente con il divorzio, le separazioni e ormai il “divorzio rapido” della Spagna di Zapatero che si realizza in 15 giorni. Leggi come queste favoriscono l’egoismo individuale, ma disgregano la società. Il credente in Cristo non può sostenerle.
Postato da: giacabi a 13:00 |
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laicismo, aborto, gheddo
Mercoledì scorso 25 maggio ricevo questa posta elettronica firmata: “Sono parroco nell’hinterland milanese e ho letto con amarezza e sconcerto la tua intervista a “il sussidiario.net”. Ne ho parlato anche con altri confratelli e non ci spieghiamo questa tua caduta di stile, nonché l’appoggio a quella linea che tutta la Chiesa finalmente sta a poco a poco scaricando e criticando. Davvero senza parole, ci dispiace. Ti conoscevamo per una persona che, mettendosi in gioco e pagando anche personalmente, facevi ben altre battaglie rispetto a questa di appoggiare una parte politica che ultimamente ha calpestato il Vangelo in molti modi. Sinceramente: inspiegabile. E conoscendoti, non vogliamo ipotizzare altro”. Poi ho ricevuto alcune altre lamentele dello stesso tenore. Ho subito risposto: “Caro confratello, grazie della lettera, ma sinceramente non capisco l’amarezza e lo sconcerto. Mi hanno chiesto con quali criteri andare a votare e ho ripetuto quanto hanno detto il Papa e la Cei più volte: il criterio base e decisivo dev’essere misurato sui princìpi irrinunciabili( o “valori non negoziabili”), la difesa della vita dalla nascita alla morte (aborto ed eutanasia soprattutto), la difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna (cioè la condanna del riconoscimento giuridico del matrimonio tra omosessuali e delle coppie di conviventi), la difesa del diritto della famiglia di scegliere come educare i propri figli (quindi la parità tra scuola pubblica e scuola privata paritaria) Credo che su queste cose siamo d’accordo o no? Nota che sono princìpi irrinunciabili non solo per i cattolici italiani ma di tutto il mondo. Tu ricordi le grandi manifestazioni dei cattolici spagnoli, con vescovi e cardinali in prima fila, contro le leggi varate da Zapatero sull’aborto, il riconoscimento giuridico del matrimonio tra i gay e le coppie di fatto, il “divorzio breve”(in 15 giorni), l’eutanasia? Perché poi la Chiesa abbia preso questa posizione, non oggi ma da sempre (ricordi la Humanae Vitae di Paolo VI condannata anche da molti cattolici nel 1968?), è stato più volte spiegato da Papa Benedetto. La crisi dell’Occidente cristiano è anzitutto una “crisi antropologica”: cioè si perde il concetto di uomo creato da Dio, si vuole manipolare il Dna dell’uomo, si vuole creare l’uomo sano e senza difetti fisici, si distrugge il matrimonio e la famiglia monogamica, ecc. E questo porta alla barbarie, l’uomo padrone di se stesso, l’uomo che manipola la natura dell’uomo creato da Dio, ecc. Caro don, ho detto solo questo e ho escluso di voler scegliere una parte politica contro l’altra. Non è colpa mia se una parte sostiene questi criteri e l’altra vi si oppone con nuove leggi e nuovi programmi di governo anche comunale. Ogni votazione è sempre la scelta del meno peggio. Un nuovo De Gasperi ce lo sognamo!!! E’ vero che ci sono molti altri criteri di giudizio per le votazioni, ma credo che quelli “irrinunziabili” siano quelli indicati dalla Chiesa. Mi scuso di questa lunga risposta e mi spiace dare un’idea sbagliata di me stesso. Ho sempre sostenuto quello che dice la Chiesa, anche quando andava contro corrente, ad esempio la Humanae Vitae e nei casi di Vietnam e altri simili. Ma la storia ha poi dimostrato che Paolo Vi aveva ragione e non solo in quel caso! Ti saluto cordialmente, ricordiamoci nelle preghiere, è molto più quello che ci unisce di quello che, eventualmente, ci divide! Tuo padre Piero Gheddo. Ecco il testo della mia intervista al quotidiano on line “ilsussidiario.net” (poi ripresa da “Il Giornale”): Nella scelta su chi votare, per il cattolico il criterio non è la simpatia personale, ma le proposte che vengono portate avanti dai candidati sui temi che la Chiesa oggi ritiene decisivi, in Italia come in tutto il mondo. A cosa si riferisce? Parlo di quei “valori non negoziabili” indicati più volte da Papa Benedetto XVI e dalla Conferenza Episcopale Italiana come prioritari: la difesa della vita dal concepimento fino alla morte naturale, la difesa della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna, la difesa della libertà di educazione e della libertà religiosa. Non sono temi che la Chiesa sceglie a caso, c’è una ragione precisa. Quale? L’Occidente cristiano sta attraversando una “crisi antropologica” che riguarda lo stesso concetto di uomo. Se ci si dimentica infatti che l’uomo è una creatura di Dio si può arrivare fino a mettere le mani sulla vita e sulla morte, scivolando verso quella barbarie inseguita da Hitler e da altri come lui. È questo il punto più importante, tutto il resto, anche se condivisibile, viene dopo. Cosa intende dire? L’ingiustizia sociale non è stata di certo sconfitta, se però chi si batte per questo sostiene l’aborto, l’eutanasia e l’equiparazione delle coppie gay o delle coppie conviventi al matrimonio tra uomo e donna, non andiamo più d’accordo. Da cattolico non potrei mai votare infatti per un candidato che porti avanti queste idee, anche se ha in mente molti progetti meritevoli. La libertà di educare, poi, non è certo un tema minore. Le famiglie devono poter scegliere alla pari tra scuole paritarie e scuole pubbliche, come già avviene in Lombardia nel campo sanitario. Tra l’altro, grazie alle private paritarie, anche se nessuno lo dice, lo Stato risparmia parecchi miliardi di euro l’anno. Non è allo Stato, o al Comune, che spetta la regia di tutto, ma il controllo, per evitare che qualcuno faccia il furbo. Il primato resta quello dell’individuo e della famiglia, come dice la Dottrina sociale cattolica. Piero Gheddo |
Postato da: giacabi a 14:41 |
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gheddo
La parabola del figliuol prodigo è una delle più belle e commoventi che si leggono nel Vangelo IV domenica di Quaresiima – Anno C).Gesù parlava in parabole, cioè raccontava fatti di vita quotidiana che erano comprensibili ai suoi ascoltatori. Non faceva teorie o teologie, raccontava fatti, presentava persone che incarnavano e rappresentavano ai suoi seguaci la verità che il Signore voleva annunziare. Il dramma familiare di un padre il cui figlio prende una via sbagliata è comune anche ai nostri tempi. Quante volte sentiamo dire da genitori credenti: “Abbiamo educato bene il nostro figlio, ma poi è andato fuori strada e ci fa soffrire”. Il padre della parabola è esemplare: anche i genitori d’oggi dovrebbero essere come lui in situazioni simili: amare ancor più il figlio ribelle, dargli il buon esempio di un amore gratuito, pregare per lui, attendere con fiducia e pazienza il suo ritorno. Ma Gesù voleva soprattutto rivelarci il volto del Padre che sta nei cieli. Il Creatore di tutti gli uomini è un Padre pieno di bontà e di misericordia, che ci vuol bene sempre, anche quando noi non comprendiamo il suo amore. In questa parabola vediamo uno sceneggiato simbolico del mondo “post-cristiano” in cui viviamo. I popoli cristiani sono il figliuol prodigo lontano dal Padre e si ritrovano meno uomini, sono diventati “guardiani dei porci”, mangiano le ghiande dei porci. Gli uomini secolarizzati del nostro tempo si rendono conto che lontano da Dio non c’è vero umanesimo, la vita non ha senso. Non parlo di casi personali, mi riferisco alla cultura che tutti respiriamo: molti hanno perso il senso della vita, non sanno perché vivono. C’è in giro molto pessimismo, disperazione, aumentano i suicidi, tanti non vorrebbero più vivere perchè la vita lontano dal Padre non ha senso. Due riflessioni: 1) La prima domanda che mi faccio oggi è questa: che immagine io mi sono formato di Dio? Vivo la presenza di Dio in ogni momento della mia vita? La nostra vita spirituale dipende in buona parte da come pensiamo e sentiamo Dio presente nella nostra vita. Tutti i popoli credono in Dio Creatore e Giudica, lo adorano, lo pregano: non esistono popoli atei! Ma quelli che non hanno ricevuto la rivelazione di Cristo non sanno chi è Dio, come agisce, cosa pensa, cosa vuole da noi; lo immaginano come un personaggio misterioso, lontano dall’uomo e dalle vicende umane, che punisce i crimini degli uomini. Pensano che la vita è sotto il dominio di spiriti buoni e cattivi, che vanno propiziati con atti di magia, sortilegi, superstizioni. Care sorelle e cari fratelli, nel mondo attuale rischiamo anche noi credenti di finire nel gorgo di una visione pagana di Dio. Ebbene, oggi Gesù ci presenta il Padre nostro che sta nei Cieli, quello che preghiamo ogni giorno: è un Padre, una mamma che amano il figlio, lo guidano, lo perdonano, lo proteggono. Nel 1974 ero nel Vietnam del sud durante la guerra. Scendevo dai monti verso la pianura, da Pleiku a Qui Nhon, su un camion militare, assieme a numerosi vietnamiti. Una giornata intera di viaggio, su strade dissestate, in un paese in guerra: abbiamo attraversato zone dove si combatteva, villaggi bruciati e bombardati, mitragliamenti, profughi che scappavano a piedi e con ogni mezzo. Tutto questo è un’immagine del mondo in cui viviamo anche oggi! Io e gli altri profughi eravamo seduti su delle panche nel cassone scoperto del camion. Di fronte a me una giovane mamma vietnamita teneva in braccio il suo bambino che aveva pochi mesi. Lo cullava, lo allattava, lo coccolava. Ad un certo punto, passando vicino ad un villaggio in fiamme dove molti gridavano il bambino, sentendo quel trambusto, si è messo a piangere, avvertiva anche lui il pericolo. La mamma ha steso su di lui un asciugamano ed ha continuato a cullarlo. Dopo un po’ il bambino dormiva placidamente. Attorno a noi crollava il mondo e lui dormiva: non sapeva niente, non aveva paura di nulla, si fidava dell’amore di sua madre. Ecco, quando penso a Dio mi vengono in mente quella dolce mammina vietnamita e il suo bambino. Se noi viviamo questa immagine di Dio e nella nostra piccola vita, non possiamo più essere pessimisti, scontenti, scoraggiati, timorosi di chissà cosa. Qualunque cosa mi capiti, io sono sempre nelle braccia del Padre! 2) Noi cristiani, e specialmente noi preti e suore, rappresentiamo Dio e Cristo agli occhi degli uomini. Chi è riconosciuto come cristiano deve sentire la responsabilità di essere, agli occhi di chi ci conosce e osserva, un testimone a tempo pieno. Non per assumere volutamente atteggiamenti significativi e dire parole opportune. Oggi conta soprattutto essere autentici, non falsi. Anzi, i devoti manierati danno fastidio, sono una contro-testimonianza. Il nostro tempo ci invita ad un esame di coscienza: se io sono duro, scontroso, egoista, avaro, freddo, chiuso ai problemi degli altri, non sono come il Padre della parabola di Gesù: non do una bella immagine della fede e della vita cristiana. Molti anni fa, nel 1966, sono andato la prima volta in Amazzonia e nella capitale dell’Amazzonia brasiliana, Manaus, ho visitato il lebbrosario di Aleixo. Mi accompagnava il mio confratello padre Mario Giudici, che era stato cappellano del lebbrosario e tornava dall’ Italia dopo un’assenza di quattro anni. Era un uomo di grande umanità, dopo un po’ che stavi con lui pensavi: “Chissà com’è buono Dio, se ha fatto un uomo così buono come padre Mario!”. I lebbrosi gli si avvicinavano e volevano salutarlo, abbracciarlo, parlargli. Io me ne stavo un po’ defilato ed entrando in un reparto di donne, vedo un’ammalata cieca con due moncherini al posto delle mani. Appena sente da lontano la voce di padre Mario, la riconosce, si mette a gridare un saluto e le viene istintivo di battere i moncherini perchè non aveva più le mani. Piangeva e si è calmata solo quando sono andato a prendere Mario e l’ho portato da lei. Mi sono commosso anch’io nel vedere che per quella povera lebbrosa quel prete era forse l’unico che rappresentava in concreto la bontà di DioP. Tutti l’avevano abbandonata, i parenti non venivano a trovarla, ma quel prete era ancora lì a darle un abbraccio e la benedizione di Dio. Mi sono chiesto più volte: chissà se io prete, a tutti quelli che mi conoscono da vicino, do questa immagine forte e amorosa di Dio, che è un Padre pieno di amore e non ci abbandona mai? Piero Gheddo |
Postato da: giacabi a 21:56 |
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gheddo
La globalizzazione dell’umanità ha portato alla ribalta un interrogativo importante, a cui ancora non si dà una risposta accettata dalla cultura corrente: come mai il “mondo moderno” è nato in Occidente e si sta diffondendo in tutto il mondo, perché accettato da tutti i popoli e preferito ai loro modi tradizionali di vita? Oppure, in altre parole: perché dalla caduta dell’Impero romano l’Occidente ha conosciuto un’evoluzione che l’ha portato per primo a quelle caratteristiche del “mondo moderno”, nelle quali tutti i popoli vorrebbero vivere? Caratteristiche sintetizzabili in pochi concetti: libertà, democrazia, progresso scientifico-tecnico ed economico-sociale, diritti dell’uomo e della donna, stabilità e sicurezza nei singoli paesi, istruzione e assistenza sanitaria per tutti, giustizia basata sulle leggi e non sull’arbitrio dei più forti, giustizia sociale fra ricchi e poveri, pace fra i popoli e le nazioni. Ecco il volume che dà una risposta articolata e documentata: Rodney Stark, “La vittoria della ragione – Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza”, Lindau Torino 2008, pagg. 377, Euro 24,00. Il sociologo americano delle religioni Rodney Stark ha esaminato le molte risposte che si danno all’interrogativo: la posizione geografica e il clima dell’Europa, la scoperta di altre terre e continenti, la colonizzazione, l’evoluzione storica e culturale favorevole al progresso, il pensiero greco-romano e tante altre. E giudica che non spiegano perché l’Occidente ha progredito e le altre parti del mondo sono rimaste per millenni bloccate nello sviluppo. Basti pensare alle grandi civiltà di Cina, India, Giappone, Vietnam, Corea, Paesi arabi e islamici, Americhe pre-colombiane, dove non c’è stato nemmeno l’inizio di quei processi storici che hanno portato l’Occidente alla supremazia. Rodney afferma con chiarezza: “E’ stato il cristianesimo a creare la civiltà occidentale.Il mondo moderno è arrivato solamente nelle società cristiane. Non nel mondo islamico, non in Asia. Non in un società “laica”, perchè non ne sono esistite. Tutti i processi di modernizzazione finora introdotti al di fuori del cristianesimo sono stati importanti dall’Occidente, spesso attraverso colonizzatori e missionari”(pag. 343). Questo fatto storico che non si può smentire, viene documentato in un modo non religioso, ma laico. Sono stati il Vangelo, il pensiero dei Padri della Chiesa e la teologia cristiana la vera origine del progresso dell’Occidente e del mondo intero. Mentre le grandi religioni hanno posto l’accento sul mistero, sulla meditazione, sull’astrologia e la fuga dalla realtà, il cristianesimo è nato dalla Rivelazione di Dio e attraverso la Bibbia e Cristo ha affermato il valore assoluto della singola persona umana “creata ad immagine di Dio”, abbracciando la logica e il pensiero deduttivo e aprendo la strada alle scienze e al progresso moderno. Un secondo volume recente sembra quasi la continuazione del precedente: Thomas E Woods, “Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale”, Cantagalli, Siena 2007, pagg. 270, Euro 18, 50. Thomas E. Woods, anch’egli docente universitario americano, risponde allo stesso interrogativo che si pone l’autore precedente: come mai il “mondo moderno” è nato in Occidente e si sta diffondendo in tutto il mondo, perché viene accettato da tutti i popoli e preferito ai loro modi tradizionali di vita? Dimostra, in modo molto concreto, diciamo storico, come le varie “novità” che hanno fatto grande l’Occidente, sono dovute non solo alla Parola di Dio ed a Gesù Cristo, ma alla Chiesa cattolica che nel corso dei secoli ha sostenuto quei principi e modelli evangelici, a volte pur nelle infedeltà di Papi, vescovi, sacerdoti e credenti in Cristo. La Chiesa è un’istituzione ispirata da Dio, ma fatta da uomini. Il volume percorre in vari capitoli la storia dell’Occidente, dalla caduta dell’Impero romano alle invasioni dei popoli “barbari” fino ai nostri tempi. Dopo l’Impero romano, in secoli di sbandamento dei popoli occidentali, i monaci salvarono la civiltà (capitolo I), poi la Chiesa fonda le Università, la vita accademica e la filosofia scolastica (capitolo II), poi ancora le scienze moderne e l’arte moderna, il diritto internazionale, l’economia e il capitalismo; le opere di assistenza per i poveri e “come la carità cattolica ha cambiato il mondo”. Gli ultimi capitoli “La Chiesa e il diritto occidentale”, “La Chiesa e la moralità occidentale”, dimostrano, ripeto, con fatti storici concreti, come la Chiesa cattolica è all’origine, ad esempio, della separazione tra Chiesa e Stato (non così le Chiese ortodosse e protestanti), dell’abolizione della schiavitù, della condanna dei “duelli d’onore”, della promozione dei “diritti dell’uomo” e via dicendo. Infine, Thomas E. Woods esamina come vive “un mondo senza Dio” com’è oggi l’Occidente che si è staccato dal Vangelo e dal modello di Cristo, a volte ha anche perseguitato o marginalizzato la Chiesa cattolica, presentandola come nemica del progresso. Oggi, addirittura, l’Unione Europea non riconosce le “Radici cristiane” della nostra civiltà. Una menzogna e assurdità storica. Formidabili le ultime pagine del libro, dove l’autore parte dall’affermazione di Nietzsche: “Il rifiuto dell’idea che il mondo sia stato creato da Dio per uno scopo…. rende l’uomo più libero di dare alla vita il significato che vuole darle. La vita così non ha alcun altro significato”.E Woods spiega, col trionfo di questa idea nel mondo secolarizzato e praticamente ateo di oggi, la degenerazione e la disumanità dell’arte, dell’architettura e di molte altre espressioni dell’uomo, fino al nichilismo di Jean-Paul Sartre (l’universo è assolutamente assurdo e la vita stessa completamente priva di significato), sempre più arido, vecchio e pessimista. Cioè, così com’è che esprime bene la cultura trionfante dell’Occidente moderno,, l’Occidente è senza futuro. Prima di pensare o dire che tutto questo è “trionfalismo”, bisogna prima leggere il volume e controbattere le prove storiche che vi sono portate. Non con ragionamenti, luoghi comuni e chiacchiere, ma con altre prove storiche che rispondono all’interrogativo posto dai due volumi. Piero Gheddo da: http://gheddo.missionline.org |
Postato da: giacabi a 20:35 |
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cristianesimo, stark, wodds, gheddo
Cristo trasforma l’uomo:
da oggetto lo rende persona
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Nel
momento di massima espansione, all'inizio del 1700, le Riduzioni
gesuitiche comprendevano trenta (alcune fonti parlano di 33 o 36)
cittadine con 150.000 abitanti al massimo: ogni centro aveva dai 2.000 agli 8.000 abitanti e due o tre Gesuiti, che non furono mai più di un centinaio in tutto.
Confrontato con i numeri di oggi, il sistema delle Riduzioni sarebbe
una piccola minoranza in qualunque stato moderno. Al tempo della
colonizzazione spagnola nelle Americhe, rappresentava invece un
blocco di popolo rispettabile per numero e compattezza, ben organizzato
e autosufficiente, che pagava le sue tasse alla Corona di Spagna e
offriva anche militari preparati ai governatori della Colonia, in caso
di bisogno. Suscitava invidie e opposizioni nei coloni spagnoli proprio per questo indubbio successo.
"Il più perfetto sistema agricolo dell'America"
Com'erano organizzate le Riduzioni? Visitando oggi le rovine, ci si accorge subito che la
pianta delle singole "Riduzioni" era sempre uguale: al centro la grande
piazza principale (quadrata o rettangolare, ogni lato misura più di 100
metri) con la chiesa, la casa dei missionari, la sala delle riunioni
comunitarie, il "cabildo" (sede del municipio), la casa degli anziani e
quella delle vedove, la scuola, i magazzini, i laboratori, il granaio
comunitario, il cimitero. Poi le vie rettilinee con le abitazioni delle
singole famiglie, costruite in pietra, una meraviglia per quel tempo.
Uno storico afferma che "le abitazioni degli indios delle Riduzioni erano meglio di quanto immaginiamo. Gli
spagnoli avevano case peggiori, anche a Buenos Aires, che allora era un
ammasso informe di capanne e aveva meno abitanti di una Riduzione" (Maxime Haubert, La vie quotidienne au Paraguay sous le Jésuites, Hachette, 1967, pag. 241).
La chiesa era sempre l'edificio più importante e solenne, dove indios e
spagnoli esprimevano al meglio le loro doti artistiche: plastiche e
musicali. La chiesa era ricca di paramenti ricamati con motivi dell'arte
guaranì, di mobili scolpiti, di statue, di arredi d'argento. Il
campanile ospitava anche otto o dieci campane che lanciavano concerti
nelle foreste.
La religione era il principale fattore educativo delle persone e delle comunità e dominava la vita pubblica:
le funzioni sacre iniziavano e concludevano la giornata ed erano intese
anche per creare spazi di partecipazione e di fraternità. La
forza educativa della religione, e l'esempio dei padri (per le Riduzioni
erano scelti i migliori Gesuiti e non tutti resistevano), spiegano il
fatto miracoloso e quasi incredibile che due-tre missionari abbiano
potuto, con la sola forza morale del loro esempio e il richiamo alla
fede, tenere assieme 2.000-8.000 indios, educarli, farli passare dal
nomadismo alla vita sedentaria e comunitaria, senza l'uso della forza. E
non per alcuni anni, ma per un secolo e mezzo! Questo è il vero
miracolo delle Riduzioni, nelle quali esisteva anche una polizia e
alcuni locali di carcere. Ma le condanne e le punizioni erano rarissime (la pena di morte era abolita, quando in tutti gli Stati di quel tempo era comunemente praticata), come confermano tutte le testimonianze dell'epoca. "L'omicidio
è sconosciuto e la discordia è rara. I neofiti vivono fra di loro come
buoni fratelli", si legge in una cronaca del tempo.
La
terra apparteneva al villaggio, i piccoli appezzamenti affidati alle
singole famiglie ridotti al minimo. Non esisteva proprietà privata, né
possibilità di lasciare in eredità proprietà immobiliari. Alloggio,
vestito e nutrimento dati secondo le necessità delle singole famiglie. La
direzione era in mano ai Gesuiti, che delegavano il comando ai capi
eletti dagli indigeni, eccetto i sindaci che erano nominati
dall'Imperatore spagnolo su una terna proposta dai padri. I
prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento animali venivano portati
nei mercati degli spagnoli, per venderli o scambiarli con metalli,
attrezzi, sale, medicine, ecc.
L'agricoltura era l'attività principale, alla base di tutta la vita sociale. L'abilità e il successo dei Gesuiti fu di far cambiare stile di vita ai Guaranì: da nomadi a sedentari, da cacciatori e pescatori ad agricoltori. Non è stata un'impresa facile. Nelle "encomiendas"
degli spagnoli, per farli lavorare, in genere si tenevano gli indios
come schiavi, frustati e messi a morte per futili mancanze.
D'altra parte, un colono spagnolo che aveva una immensa "encomienda" da
mettere a coltivazione, come poteva trattenere gli indigeni (con i quali
era difficile intendersi perché, senza educazione, conoscevano poche
parole di spagnolo), farli lavorare e produrre, evitare che si
ribellassero, se non con la violenza e il terrore delle punizioni
fisiche? L'atmosfera
che si respirava nelle Riduzioni era del tutto diversa: non violenza e
odio, ma educazione, fraternità, eguaglianza, perdono. I padri
conoscevano la lingua guaranì e vivevano la vita dei Guaranì,
fraternizzando con loro.
Le Riduzioni rappresentarono ben presto "il più perfetto e il meglio organizzato complesso agricolo dell'America" dice uno storico (Clovis Lugon, La Repubblica guaranitica dei Gesuiti,
AVE, Roma 1976, pag. 128). Vi si produceva mais, grano, mandioca,
patata dolce, orzo e riso, che erano alla base dell'alimentazione; e poi
cotone, canna da zucchero, tabacco, viti (due raccolti l'anno), tè
(chiamato anche "mate" o "yerba"). Il tè fu fin dall'inizio la maggior
fonte di reddito ed è ancor oggi la bevanda nazionale di argentini e
paraguayani. Altra attività in campo agricolo fu l'allevamento di
animali (fino a raggiungere centinaia di migliaia di capi bovini, ovini
ed equini) e la raccolta del miele selvatico. Ogni
villaggio aveva scorte di grani sufficienti per coprire anche un anno
di completa carestia ed allevava dai 50.000 agli 80.000 capi bovini, con
tale margine di sicurezza che le 30 Riduzioni potevano abbattere circa
300.000 bestie all'anno (la carne, come ancor oggi in Argentina e in
Paraguay, era l'alimento di base con la mandioca, il mais, il riso, il
frumento).
Eppure
il lavoro non era pesante: si lavorava dalle nove alle quattro del
pomeriggio, con due ore di interruzione per preparare e consumare il
pranzo, eccetto la domenica e il giovedì considerati giorno festivo e
semi-festivo. Gli indios dovevano avere il tempo per la vita familiare,
il canto, la danza, i divertimenti comuni, le funzioni religiose, e poi
la scuola e la lettura. Nelle famiglie si faceva la lettura spirituale
in comune! Quando veniva il momento del raccolto, tutti abbandonavano le
altre attività industriali e artigianali, l'arte e la burocrazia, e
andavano nei campi ad aiutare gli agricoltori.
Un altro storico (Alberto Armani, Città di Dio e Città del Sole, Studium, Roma 1977, pagg. 128-130) aggiunge
che per ottenere i buoni risultati di produttività agricola i padri
dovettero far lavorare gli indios non solo nei loro appezzamenti
privati, ma nelle terre che appartenevano al villaggio (chiamate
"proprietà di Dio"), che erano la quasi totalità. Gli indios,
essendo nomadi, non conoscevano la proprietà privata di terre e case. I
Gesuiti tentarono di introdurre la proprietà privata, ma i terreni
affidati alle singole famiglie non venivano curati e a volte nemmeno
seminati. Allo stesso modo, bovini, asini, pecore, cavalli dati in
proprietà ad una famiglia, morivano perché li tenevano legati giorni e
giorni senza dargli da mangiare e da bere, non mungevano le vacche, ecc.
Difficile
per noi, che abbiamo alle spalle secoli e millenni di cammino verso la
modernità, renderci conto di cosa vuol dire per un popolo nomade che
vive all'età neolitica (cioè l'età della pietra, come i Guaranì alla
venuta degli spagnoli), passare di colpo all'uso del ferro,
all'agricoltura, all'allevamento animali, all'industria, alla proprietà
privata... Passare dal baratto al commercio e alla moneta.
I prodotti agricoli e artigianali delle Riduzioni venivano venduti ai
mercati delle città spagnole, specie Santa Fé, Asunciòn, Buenos Aires. I
Gesuiti tentarono di affidare questa attività ai Guaranì, per evitare i
fulmini del diritto ecclesiastico contro i preti che si dedicavano al
commercio, ma con risultati disastrosi. Anche se debitamente istruiti, i
Guaranì ritornavano alle Riduzioni non con moneta legale, ma con
qualsiasi oggetto che colpisse la loro fantasia, campanelli, trombe,
broccati, fibbie e bottoni colorati... I commercianti spagnoli, vista
l'ingenuità degli indios, si arricchivano alle loro spalle. I Gesuiti
dovettero assumere personalmente il commercio esterno.
Sensibilità artistica degli indios
La prosperità delle Riduzioni veniva anche dall'artigianato e dall'industria soprattutto tessile. Nelle
cittadine esistevano fonderie di metalli, laboratori di falegnameria,
forni per la cottura di vasellame, stabilimenti per la filatura e
tessitura delle fibre vegetali e animali (lana, cotone, lino), cantieri
per la fabbricazione di canoe e zattere, laboratori artigianali per la
produzione di cappelli, scarpe, strumenti musicali. L'industria grafica
ebbe grande sviluppo: quando Buenos Aires era ancora priva di una
stamperia (la prima venne impiantata nel 1780), nelle Riduzioni già si
pubblicavano ottimi libri. Questa la grande rivoluzione dei missionari, rispetto alle "encomiendas" spagnole: la
scuola nelle lingua degli indios, debitamente scritta e stampata. Il
Guaranì, che ancor oggi è una lingua praticata dagli indios (molte
lingue indie sono scomparse), venne studiato dai padri e scritto in
caratteri latini; poi si avviò la stampa di sillabari, grammatiche,
vocabolari, raccolte di proverbi, favole e miti della tribù, oltre che
catechismi (il cosiddetto "Catechismo breve" in lingua guaranì è ancor
oggi un modello classico di sintesi del cristianesimo), traduzioni del
Vangelo, libri di devozione, testi religiosi e civili anche tecnici
(sull'agricoltura e la medicina).
I
padri apprendevano il guaranì, insegnavano e predicavano in guaranì. Va
notato che ancor oggi il guaranì, grazie all'opera di Gesuiti e
Francescani nelle loro Riduzioni (anche i Francescani ebbero Riduzioni
in Paraguay, oltre che in altri paesi latino-americani), è riconosciuto
lingua nazionale del Paraguay assieme allo spagnolo e parlato anche
dagli indigeni di tribù diverse.
E gli indios guaranì hanno acquisito, grazie alla loro lingua e cultura
salvate dalle Riduzioni, una coscienza della loro unità e dignità come
popolo, che mantengono ancor oggi. Nelle
Riduzioni, lo spagnolo era insegnato solo a pochi elementi che
ricevevano un'educazione superiore (alcuni giovani venivano inviati a
studiare nel Collegio dei Gesuiti ad Asunciòn) e restò comunque una
lingua straniera.
La liturgia,
i canti, la danza, il teatro, l'arte sacra, l'artigianato erano molto
curati ed avevano lo scopo di educare gli indios (che vivevano,
ricordiamolo, in epoca preistorica) a sentimenti di umanità e di fede e
alla vita comunitaria (fraternità, aiuto vicendevole, ecc.). Il canto e
la danza erano il passatempo favorito, a servizio della cultura
religiosa: vi erano cori polifonici, orchestre con musiche strumentali;
le danze e il teatro erano simbolici di soggetti sacri (la lotta di San
Michele col Drago, la visita dei Magi a Gesù) o della storia locale.
Nella scultura e pittura, gli indios diedero prova di qualità
insospettabili. I due Musei delle Riduzioni che ho visitato, a
S. Ignazio Guazù e a Santa Rosa (ambedue in Paraguay), conservano
meravigliose sculture in legno, argilla, metallo, pietra, e pitture su
tela e su tavole di legno. Tutta questa produzione artistica artigianale
rivela negli indios un alto grado di sensibilità e una prodigiosa
abilità manuale: notevoli soprattutto i volti di Gesù, di Maria, dei
santi rappresentati, con espressioni intense.
I
Guaranì si distinguevano anche nella musica e nel canto. Nella
Riduzione di Yapeyù il padre Antonio Sepp (di Brixen-Bressanone) creò un
vero centro di educazione musicale, la cui fama si estese a tutto il
Rio de la Plata, fino a Buenos Aires, dove cantanti e compositori di
musica indios venivano chiamati per rappresentazioni in teatri. Nella
Riduzione di Yapeyù si producevano strumenti musicali (violini, arpe,
flauti, pifferi) e persino organi. Come tutti i "primitivi" negati alla
speculazione, i Guaranì erano perfetti imitatori di modelli europei, che
arricchivano con la loro sensibilità e tradizione artistica.
Sotto la guida di esperti fratelli coadiutori gesuiti, diventarono non
solo agricoltori e allevatori, ma tessitori, muratori, scultori,
pittori, muratori, fonditori di campane. Stampavano
essi stessi i libri, incidendo i caratteri ed i disegni nel legno.
Nelle Riduzioni è nata, all'inizio del 1700, la prima tipografia del Sud America!
Le Riduzioni erano un "comunismo cristiano"?
Il
sistema educativo delle "Riduzioni" può essere definito di
"paternalismo illuminato". Oggi, naturalmente, è improponibile. Però
funzionò benissimo per un secolo e mezzo. In
tre-quattro generazioni, i missionari portarono gli indios da uno stato
del tutto primitivo (tra l'altro, praticavano l'antropofagia rituale)
ad un livello di civiltà piuttosto elevato e ad una sicurezza di vita,
che mai prima avevano conosciuto.
Due inchieste, condotte dalle autorità civili spagnole e dalle autorità
ecclesiastiche del tempo (alla fine del 1600), stabilirono che gli
indios delle Riduzioni vivevano "senza opulenza ma in decorosa
autosufficienza".
I
proventi dell'agricoltura e dell'artigianato erano impiegati non solo
per potenziare le strutture produttive, ma anche per incrementare la
cultura e l'istruzione degli indios. Le Riduzioni riassumono bene il
"metodo missionario" che ho visto tante volte nelle missioni in ogni
parte del terzo mondo, a contatto con popolazioni "primitive";
ultimamente ancora in Amazzonia dai missionari del Pime che vi lavorano
da 50 anni. Uno dei quali mi diceva: "Se
arrivi in un popolo che non ha la scuola, prima costruiamo la scuola e
poi la chiesa. Perché la chiesa senza la scuola non produce buoni
cristiani".
Ecco
dove, soprattutto, le Riduzioni sono esemplari ancor oggi. Il padre
José Marx, studioso delle Riduzioni nei testi antichi dei Gesuiti (Mi
riferisco soprattutto alle sue "Reducciones Jesuiticas Guaranies",
pubblicate annualmente dal 1988 al 1992 come "calendari", con foto
originali e ampi testi di ricostruzione storica. Vedi pure il suo "Las
Misiones Jesuiticas", Capiovy 1994), mi dice che una
delle preoccupazioni dei padri era che ogni cittadina avesse scuole e
una buona biblioteca di libri in guaranì e in spagnolo. La "Riduzione
di Santa Maria la Mayor" aveva una biblioteca di 445 volumi; quella dei
Santi Martiri 382; Nostra Signora di Loreto (oggi si visita con
difficoltà perché totalmente sommersa dalla selva, in Argentina) 315;
Corpus Christi 460, La Candelaria 4.725 volumi. Pare
impossibile che, nel bel mezzo della foresta tropicale, indios che
venivano dall'età della pietra fossero educati a leggere opere che
prendevano a prestito da una biblioteca! Si trattava certo di alcuni
elementi più preparati, che collaboravano con i padri per opere di
studio e scientifiche.
Ancora padre Marx ricorda che nella
Riduzione di San Cosma e Damiano (oggi molto ben restaurata, in
Paraguay) si costruì un Osservatorio astronomico. Il padre Bonaventura
Suarez lavorò per trent'anni con gli indios, all'inizio del 1700,
fabbricando telescopi, un pendolo astronomico con l'indicazione dei
minuti e dei secondi, un quadrante astronomico, ecc. Le
osservazioni astronomiche di questo missionario dalle Riduzioni del
Paraguay, le prime fatte con metodo scientifico dal Sud del globo,
venivano pubblicate dagli Annali dell'Università di Uppsala in Svezia.
Com'era la vita nella Riduzioni?
Come si svolgeva
la vita quotidiana nelle "Riduzioni"? Come in un collegio o in un
seminario, ma in un'atmosfera non di costrizione, sebbene di
partecipazione, di condivisione. Le famiglie che non accettavano di
vivere con i padri potevano andarsene liberamente (anche se ciò era
molto difficile, quando tutto il clan restava). La giornata era
regolata da un orario molto preciso. Si è parlato di un "socialismo" o
"comunismo" cristiano. Definizione certamente errata, se la prendiamo in
senso politico o ideologico. Abbastanza vicina al vero in senso
culturale-sociale. Più giusto parlare di un "sistema teocratico" nel
quale tutta la vita
individuale e sociale girava attorno al perno della religione cristiana.
Questo non era contrario alla cultura dei Guaranì, impregnata di
religiosità e di vita comunitaria.
Il
problema affrontato dai missionari era come educare gli indios al
cristianesimo non solo con la predicazione e la catechesi, la liturgia, i
canti e le sacre rappresentazioni, ma anche modificando a poco a poco,
senza violenza ma con il consenso e la pressione della comunità, i
costumi degli indios che non si accordavano con la legge naturale e il
cristianesimo. Ad esempio, la poligamia,
che era regola generale: i cacicchi avevano anche venti mogli o
concubine obbligate alla fedeltà, pena gravi punizioni compresa la
morte. Attraverso l'educazione dei giovani, la solennità dei matrimoni
fra i cristiani, la tolleranza verso i poligami che però si sentivano
fuori posto, nel giro di due-tre generazioni i padri riuscirono ad
introdurre e ad affermare il matrimonio monogamico.
Il
segreto del successo fu, ancora una volta, l'educazione, la scuola. Le
città nella selva contavano 400-500 alunni su 5-6.000 abitanti, un vero
primato per quell'epoca, anche in confronto all'Europa del seicento. La scuola impegnava i ragazzi e le ragazze dal mattino alla sera.
La vita dei villaggi incominciava presto: i Guaranì erano
spontaneamente mattinieri, si alzavano prima del sole e andavano a
dormire al tramonto. Alle quattro e un quarto in estate, alle cinque e
un quarto in inverno, le campane o i tamburi suonavano la sveglia. Poco
dopo, gli "alcaldes" giravano per le vie gridando: "Fratelli, è l'ora,
mandate i vostri figli alla preghiera!". I ragazzi andavano in chiesa a
cantare la dottrina cristiana fino al levar del sole, quando venivano
anche gli adulti per le preghiere del mattino. Seguiva la colazione
comunitaria e poi la scuola, che aveva fini essenzialmente pratici:
insegnamento della lingua guaranì e della matematica, ma anche
dell'agricoltura, tessitura, falegnameria, artigianato; taglio, cucito e
ricamo per le bambine e ragazze. Musica e canto avevano largo spazio
nell'educazione delle Riduzioni. La scuola, rigorosamente separata per
maschi e femmine, durava fino a pomeriggio inoltrato, con l'interruzione
per il pranzo.
Per
gli adulti la giornata lavorativa durava dalle quattro alle sei ore:
erano impegnati soprattutto nella coltivazione dei campi comunitari e
nell'allevamento degli animali, ma non pochi attendevano alla tessitura e
ad altre forme di lavori manufatturieri o al servizio sanitario: ogni
Riduzione aveva i suoi infermieri, la sua farmacia, a Yapeyù e
Candelaria furono costruiti veri e propri ospedali. Il tempo libero
durante la giornata era molto, per le faccende di casa e la vita
familiare, la coltivazione dei piccoli appezzamenti privati, la caccia e
la pesca, il canottaggio molto praticato dai guaranì.
Alla
domenica il lavoro era proibito (anche il giorno di giovedì era
considerato semi-festivo, si lavorava solo per particolari urgenze): si
dava molta importanza alla Messa solenne del mattino, con canti, danze,
processioni, catechesi; poi si celebravano giochi e gare sportive
(specie tiro con l'arco), parate militari, danze, teatri ed esecuzioni
musicali per le quali i Guaranì erano particolarmente dotati. I teatri
consistevano in rappresentazioni religiose, ma anche in commedie tratte
dalla vita di tutti i giorni e farse, comiche. Per quasi ogni festa si
organizzavano grandi banchetti per il villaggio. Le tavole erano
preparate nella grande piazza , ogni tavolata era presieduta da un
notabile. Si servivano "carni, polli arrosto, legumi, panini, miele,
arance, pesche e maté".
In
tali occasioni si beveva un po' di vino o di "chica" (una specie di
birra locale), fatto eccezionale perché i Gesuiti avevano proibito l'uso
di bevande alcoliche ed erano riusciti ad estirpare una delle piaghe
più gravi degli indios, l'ubriacatura di "chica". L'orchestra
suonava fino a sera. Di notte vigeva il coprifuoco e tre volte durante
la notte risuonavano i tamburi per indicare i turni di veglia delle
sentinelle. Le Riduzioni vivevano nel perenne timore di essere assaltate
dall'esterno!
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Postato da: giacabi a 18:56 |
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cristianesimo, gheddo
Cristo trasforma l’uomo: da oggetto lo rende persona
***
di Piero Gheddo
Muraglie
diroccate, blocchi di pietra rossastra finemente lavorati ricoperti di
muschio e licheni, pareti e colonne mangiate e sommerse dalla fitta
vegetazione, enormi chiese abbandonate e perse nella selva, città con
ampie vie e piazze ridotte a imponenti rovine di pietra: è quanto rimane
delle "Reducciones" dei gesuiti, tra il Paraguay e la provincia
argentina di Misiones. Solo il silenzio percorre ancora i solitari
cammini di pietra.
Le voci e i canti degli indios si sono estinti. La foresta ha sommerso i
resti dell'esperienza missionaria più interessante nella storia moderna
delle missioni. I Gesuiti (e altri missionari perché le
Riduzioni ebbero per due secoli vasta diffusione in tutta l'America
spagnola) tentarono di ripetere l'opera di colonizzazione e
civilizzazione dei monasteri benedettini nell'Europa del Medio Evo,
quando i monaci salvavano la cultura antica greco-romana, predicavano il
Vangelo, ma insegnavano anche l'agricoltura e l'artigianato a popoli
nomadi che venivano ad abitare in villaggi, con strade, botteghe,
commerci, scuole, persino università.
Il
viaggiatore che va da Iguazù a Posadas, in Argentina, su una strada
dritta come la spada di un "conquistador", passa tra foreste foltissime
di araucarie ed eucalipti che rendono il paesaggio un graduale
inserimento nell'ambiente delle "Riduzioni", cioè nella natura com'era
tre-quattro secoli fa, quando i Gesuiti giunsero da queste parti. Il governo argentino ha giustamente conservato intatto un vastissimo parco naturale che parte dalle "cataratas" di Iguazù (le grandiose cascate da cui ha inizio il film "Mission") e arriva fin quasi al primo gruppo di rovine dello "Stato gesuitico dei Guaranì".
L'arrivo
a S. Ignacio Minì e l'entrata nel villaggio costruito quasi quattro
secoli fa nella selva mettono davanti a resti imponenti, che subito
fanno capire cos'erano le "Riduzioni". Non villaggi con casupole di
paglia e fango, com'era e com'è ancor oggi nel costume degli indios, ma cittadine
costruite in pietra e legno, per durare nel tempo. Nell'architettura
massiccia di queste case, chiese, magazzini, laboratori, c'è un'armonia
vigorosa che non tende verso l'alto, ma è fermamente orientata alla
terra, alla vita, alla fondazione di una civiltà nuova, alternativa a
quella che i colonizzatori spagnoli costruivano, con tutt'altro spirito,
a poca distanza.
Ero
già stato in Argentina e Paraguay, ma in questo viaggio ho avuto
l'unico scopo di visitare le "Reducciones", dopo alcuni resti che avevo
visto in Uruguay (la capitale Montevideo è stata fondata dai Gesuiti e
dagli indios delle "Reducciones") e nel Brasile del sud. Guidato
dall'amico padre José Marx, S.V.D., che vive qui da più di trent'anni ed
è uno studioso fra i più esperti delle "Reducciones", ho visitato le
rovine nella provincia argentina di Misiones e in Paraguay, divise dal
Rio Paranà. Delle circa venti "Reducciones" ne ho viste una decina, con i
due Musei di S. Ignacio Guazù e di Santa Rosa in Paraguay. Le rovina
sono grandiose, anche se in buona parte ancor sommerse dalla foresta.
Tre-quattro secoli di abbandono, con saccheggi, incendi, distruzioni
programmate e l'usura del tempo e del clima non sono bastati a far
scomparire le tracce di quell'esperienza. Come sono nate e si sono
sviluppate le "Reducciones"?
"Gli indios sono uomini come i bianchi?"
Nel novembre dell'anno 1609,
sei gesuiti partono da Asunciòn, dividendosi in tre gruppi e dirigendosi
verso la regione abitata dagli indios Guaranì, le foreste di cui era
circondato il Rio Paranà, vera spina dorsale del Sud America. Dieci anni
prima, altri missionari avevano portato ad Asunciòn la notizia di una
straordinaria scoperta: nelle selve tra il Rio Paranà e il Rio Uruguay
viveva una razza di indios valorosi, fieri della loro lingua e cultura, i
Guaranì, un materiale umano ben più prezioso, per i missionari, che gli
abbaglianti sogni delle miniere d'oro e di pietre preziose che
stimolavano i "conquistadores" spagnoli.
Studiata
l'impresa, la Compagnia di Gesù aveva chiesto alla Corona di Spagna il
permesso di lavorare fra quegli indios, riservandoli alle loro cure, per
farne cittadini dell'Impero spagnolo e buoni cristiani. Il
26 novembre 1609, data che è considerata l'inizio di questa esperienza,
il luogotenente generale del governatore del Paraguay e del Rio de la
Plata, emanò un'ordinanza con la quale proibiva agli spagnoli di entrare
nella zona del Rio Paranapanema (in lingua Guaranì) per reclutarvi
indios per il servizio personale; gli indigeni erano affidati alla sola
Compagnia di Gesù.
Nel
1609 è passato più d'un secolo dalla scoperta dell'America, ma
l'immenso continente è ancora quasi inesplorato. La vera colonizzazione
spagnola (e portoghese in Brasile) incomincia nel secolo XVII, il 1600.
In Europa nasce (in Inghilterra nel 1616) la prima idea di democrazia
("one man, one vote", ogni uomo un voto), ma nelle Americhe si discute ancora se gli indios hanno un'anima o no, se sono uomini come i bianchi o no.
Discussione che oggi appare assurda, inverosimile. Ma viene da
un'interpretazione letterale della Bibbia, che non parla di questo nuovo
continente da poco scoperto. Allora,
gli indios sono uomini come i cristiani d'Europa destinati alla
redenzione in Cristo o sono "homines silviculi" (uomini della selva), a
metà strada fra il genere umano e gli animali selvatici? Hanno capacità
intellettuali e morali o agiscono per istinto come gli animali? Hanno
veramente un'anima immortale o qualcosa d'altro?
La
Chiesa e i teologi si pronunziano chiaramente sulla natura umana di
indios e neri, anche se alcuni teologi sostenevano che gli indios
andavano sì battezzati, ma le loro capacità intellettuali limitate
sconsigliavano di dar loro gli altri Sacramenti. Lo
stesso Re di Spagna pubblica numerose leggi e decreti per condannare la
schiavitù e i cattivi trattamenti a cui gli indios erano sottoposti. Ma
i pregiudizi sono duri a morire, specie quando c'è sotto un grosso
interesse economico. Nel diritto coloniale spagnolo (e portoghese) gli
indios erano equiparati a minori bisognosi di protezione, di stimolo al
lavoro organizzato, di organizzazione della loro vita sociale secondo
schemi europei. Non si concepiva
altra "civiltà" che quella europea, cui anche gli indios dovevano
accedere: ma, essendo primitivi e selvatici, bisogna condurveli con
metodi paternamente costrittivi, come si fa con i ragazzi, mentre li si
istruisce nel cristianesimo e quindi si civilizzano i loro costumi.
Partendo
da questi presupposti, la Corona di Spagna affida gli indios ai
colonizzatori (assistiti dai missionari per la parte religiosa),
affinché li inquadrino nel lavoro, insegnando loro a lavorare la terra,
istruendoli nella dottrina cristiana e avviandoli alla "civiltà". Nasce
così l'istituto della "encomienda", per cui ad un colono viene affidato
un vasto territorio da colonizzare: gli indios che vi sono dentro sono
sotto la sua autorità e protezione. Naturalmente l'"encomienda"
ha delle regole ben precise (proibito ridurre gli indios in schiavitù,
chi non vuole starci può andarsene, proibito l'uso della frusta o altri
maltrattamenti, ecc.) e si conoscono anche casi di coloni spagnoli
condannati dai tribunali spagnoli per abusi sugli indios (quasi sempre
in seguito a denunzie di missionari). Però, in pratica, nell'immenso
continente quasi spopolato e senza strade, nella sua "encomienda" il
colono era re e signore assoluto.
Una colonizzazione alternativa degli indios
Si può notare la differenza sostanziale fra la colonizzazione spagnola (e portoghese) dell'America centrale e meridionale e la colonizzazione inglese nel Nord America. Mentre nell'America
Latina bianchi e indios si sono mescolati, creando il meticciato (data
la scarsezza di donne spagnole, i coloni ed i militari spagnoli finivano
per sposare donne indie), nell'America
del Nord i coloni scacciano i pellerossa dalle loro terre, conducendo
vere guerre di sterminio per occupare tutto il territorio (come è pure
accaduto in Australia e in Sud Africa con altri colonizzatori
anglosassoni e protestanti!).
Nell'America
spagnola, le navi e le armate dei "conquistadores" erano sempre
accompagnate dai missionari, anch'essi inviati dalla Corona spagnola,
che concepiva la colonizzazione come un'opera di fede e di civiltà. È noto il travagliato rapporto fra missionari e colonizzatori spagnoli (e portoghesi in Brasile).
Soprattutto sono note le proteste di non pochi missionari contro i
metodi schiavisti dei coloni (Bartolomeo de las Casas è solo uno fra i
tanti) e l'azione dei Papi (bolle e scomuniche contro chi praticava la
schiavitù) per mitigare i metodi della colonizzazione.
Com'è noto il grande lavoro teologico e giuridico della Chiesa per
scalzare alla base le teorie razziste che guidavano i coloni: Francesco de Vitoria sostiene,
nella prima metà del 1500 (prima ancora di Las Casas), la tesi secondo
cui gli indios (anche se infedeli e primitivi) sono uomini come i
bianchi, hanno i diritti dei bianchi e devono essere rispettati da
tutti, soprattutto dai cristiani.
Meno nota è l'epopea
delle "Riduzioni" che ha rappresentato il tentativo riuscito di creare
un altro tipo di colonizzazione, rispettosa dell'uomo e delle culture,
in alternativa a quella praticata da spagnoli e portoghesi nelle
Americhe. Stranamente, questo capitolo glorioso delle
missioni è dimenticato, mentre, credo, rappresenta bene lo spirito, gli
scopi, i metodi dei missionari del passato, quando si incontravano con
popoli diversi e di civiltà orale (o "primitivi").
Riprendiamo il racconto dei sei
Gesuiti che, partiti da Asunciòn nel novembre 1609, arrivano nelle
foreste del Rio Paranà dove vivono i Guaranì. Due di questi (Marziale
Lorenzana e Francisco di San Martìn), con l'aiuto di alcuni Guaranì già
convertiti, entrano in contatto con un clan della tribù e spiegano loro i
vantaggi di una volontaria sottomissione alla Corona di Spagna
attraverso i Gesuiti, evitando così la "encomienda" che li avrebbe messi
nelle mani dei coloni spagnoli. Il 29 dicembre 1609 si fonda la prima
"Riduzione" 200 chilometri a sud di Asunciòn, intitolata a S. Ignazio
Guazù (maggiore, oggi in Paraguay), per distinguerla dall'altra
Riduzione intitolata a S. Ignazio Mini (minore, oggi in Argentina)
fondata nel 1610 da due altri Gesuiti (Simone Mascetti e Giuseppe
Cataldini).
L'anno
seguente (1611), visti i buoni risultati delle prime due Riduzioni, le
autorità spagnole emanano vari decreti che esentano dall'"encomienda"
gli indios sottomessi ai Gesuiti, vietano l'accesso di spagnoli e
meticci ai territori affidati ai Gesuiti; e fissano norme precise per le
"encomiendas" spagnole (ad esempio, gli
indios hanno diritto ad un salario fissato dalla legge), proibendo
ancora la schiavitù, anche con schiavi comperati legalmente (le tribù
Guaycurùs e Tupì catturavano indiani di altri gruppi tribali e li
vendevano agli spagnoli). Interessante notare che ci fu, nella regione
del Paraguay, una levata di scudi da parte dei coloni spagnoli ed i
Gesuiti, accusati di essere all'origine di queste norme troppo
garantiste per gli indios, reagirono proclamando peccato mortale la non
osservanza di quei decreti del governatore spagnolo!
Le Riduzioni si difendono da indios e portoghesi
Così
incomincia l'esperienza delle "Riduzioni". Rimandando alla seconda
parte del nostro servizio la descrizione dell'organizzazione interna di
queste comunità, vediamo come cresce e si afferma il sistema dello
"Stato gesuita", tra pericoli da parte degli indios e dei portoghesi. I
primi attacchi vengono da parte degli stessi indios Guaranì delle
foreste. Il "cacicco"
(capo) Carupé e lo stregone Nezù, invidiosi dell'ascendente dei nuovi
capi e stregoni bianchi, nel novembre 1628 fanno uccidere tre Gesuiti a
Candelaria (la Riduzione centrale in cui vivevano i missionari a capo di
tutto il sistema) e scatenano una vera guerra contro la missione: circa
1.500 indios chiamati da gruppi nell'interno della foresta si
avvicinano al villaggio, seminando morte e distruzione. I Gesuiti
organizzano la difesa e mandano messaggeri per chiedere aiuto: ottengono
dieci archibugieri spagnoli e oltre mille guerrieri indios provenienti
da altre Riduzioni dei Gesuiti e dei Francescani. La guerriglia dura
circa un mese e si conclude con lo scontro decisivo del 20 dicembre
1628, vittorioso per la difesa di Candelaria. Le centinaia di
prigionieri sono quasi tutti liberati e ritornano ai loro clan
magnificando la potenza dei Gesuiti e il loro perdono. Solo dodici
vengono impiccati dal "braccio secolare", non senza essere prima
convinti dai missionari a pentirsi ed a farsi battezzare!
Molto
più grave il pericolo degli assalti portoghesi, provenienti da San
Paolo, città fondata nel 1554 da due Gesuiti portoghesi, José Anchieta e
Manuel da Nobrega, proprio come "Riduzione" per l'istruzione e la
conversione degli indiani, ma presto affermatasi come centro propulsore
della conquista portoghese verso l'interno del continente e come
crogiolo di razze dove nasce la nazionalità brasiliana. La popolazione
paulista si è formata fin dall'inizio con un meticciato tra portoghesi,
indios e altri gruppi di immigrati europei.
Nel 1600 i paulisti (chiamati "mamaluchi" cioè meticci) erano un popolo
forte e numeroso che, pur sottomesso alla Corona di Lisbona, avevano
una loro autonomia e dimostravano una potente vitalità espansionistica
verso ovest. Alleatisi con gli indios Tupì, nemici tradizionali dei
Guaranì, estendono il dominio portoghese con delle spedizioni armate
chiamate "bandeiras" (di qui il nome di "bandeirantes" dato ancora oggi
ai paulisti) che avevano due scopi: esplorare il territorio scoprendo
eventuali ricchezze minerarie (soprattutto oro!), affermando il possesso
dei portoghesi sulle terre scoperte; e trovare indios da portare a San
Paolo come schiavi. Queste spedizioni fanno indietreggiare a poco a
poco, a favore del Portogallo, i confini stabiliti dal Trattato di
Tordesillas (1493) fra i domini spagnoli e portoghesi in America.
A
partire dal 1612-1615, i paulisti incominciano ad assaltare le
Riduzioni dei Gesuiti del Guayrà. La Spagna aveva proibito agli indios
di usare le armi. Le Riduzioni non potevano difendersi ed essendo ben
stabilite sul territorio in una regione abbastanza ristretta,
rappresentavano per i mamaluchi una preda ambita (gli altri indios da
catturare erano dispersi nelle foreste!). Secondo notizie del tempo, i
paulisti avevano catturato, dal 1612 al 1639, ben 300.000 indios nei
territori spagnoli; secondo un'altra relazione, dal 1628 al 1630 i
Gesuiti perdevano 60.000 neofiti per opera dei "bandeirantes"; nel
1635-1637, ben trenta Riduzioni erano saccheggiate e distrutte dai
paulisti: decine di migliaia di indios dispersi, uccisi o catturati come
schiavi. Gli spagnoli del Paraguay non intervenivano, per la lontananza
dei posti, per l'insufficienza delle loro forze armate e anche per
l'antipatia verso l'esperienza dei Gesuiti che molti si auguravano
venisse interrotta.
La battaglia sul Rio Uruguay e un secolo di pace
I missionari decidono di
reagire nell'unico modo possibile, cioè rendendo autonome anche nella
difesa le loro Riduzioni, come già lo erano in campo produttivo,
amministrativo, commerciale, ecc. Nel 1638 il gesuita Ruiz de Montoya,
il missionario più importante nella storia delle Riduzioni, viene
mandato in Spagna per ottenere il permesso di armare gli indios. La
Corte rimanda la decisione al Viceré di Lima (sensibile alle ragioni dei
Gesuiti perché difendono i possedimenti spagnoli dai paulisti): Le
Riduzioni si armano e gli indios vengono addestrati all'uso delle armi
moderne. Nel 1639 per la prima volta gli indios Guaranì si difendono e
volgono in fuga gli assedianti paulisti a Caapaza Guazù.
La
sconfitta brucia ai paulisti che preparano una maxi spedizione per
finirla con i Gesuiti spagnoli e i loro Guaranì. Nel 1641, 500 mamalucos
con 2.500 Tupì, su 900 canoe e un poderoso armamento, scendono il corso
del Rio Uruguay. Ma non sanno di essere attesi e che le Riduzioni hanno
organizzato bene l'avvistamento e la difesa. 4.000 guerrieri guaranì,
organizzati dal fratello gesuita Domingo Torres, veterano dell'esercito
spagnolo, sono pronti ad accorrere al primo cenno. L'11 marzo 1641 i
paulisti subiscono un imprevisto attacco a fuoco sul Rio Uruguay: i
Guaranì, con 300 fucili e persino un rudimentale cannone, sbaragliano
gli attaccanti. Un massacro. Dispersi nelle foreste circostanti, i
paulisti chiedono una tregua che è loro rifiutata. La battaglia prosegue
in acqua e per terra: alla fine, si contano circa duemila morti fra i
Tupì e i mamalucos, che abbandonano ai Guaranì 600 canoe e 300 fucili e
archibugi.
Questa
battaglia sull'alto Rio Uruguay ha cambiato la mappa politica del Sud
America: se avessero vinto i paulisti, non solo l'esperimento delle
"Reducciones" sarebbe finito 127 anni prima di quanto poi è successo, ma
il dominio portoghese si sarebbe esteso fino a tutto il Paraguay
attuale, tagliando le comunicazioni fra i possedimenti spagnoli sul Rio
de la Plata (Buenos Aires), il Perù e la Bolivia. La
battaglia segna l'inizio, per le Riduzioni gesuitiche, di una pace che
dura più di un secolo. Incomincia la fase di espansione e di
consolidamento della missione gesuitica.
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Postato da: giacabi a 16:48 |
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cristianesimo, gheddo
PER INCONTRARE L’ISLAM TORNIAMO A CRISTO
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Da : Il Timone - rivista di apologetica dicembre 2006
di P.Piero Gheddo L’Occidente deve riflettere su questo fatto: i popoli musulmani ci vedono come ricchi, democratici, tecnicizzati, istruiti, ma anche come atei, aridi, cinici, senza regola morale. Ritengono di avere una missione storica da compiere: venire in Occidente per dare un’anima alla nostra civiltà, convertendoci in un modo o nell’altro ad Allah. E’ un concetto ripetuto continuamente dalla stampa dei paesi islamici, nelle moschee e scuole coraniche, ma non c’è mai sulla stampa italiana. I musulmani vedono l’Occidente cristiano come un pericolo per la loro fede: sono attirati dal mondo moderno, ma ne hanno anche paura! Vogliono la nostra tecnologia e il progresso ad essa legato, ma non vogliono i nostri valori umani e religiosi, senza capire che lo sviluppo è collegato ai valori supremi di una civiltà. Scrive l’egiziano Magdi Allam (Corriere della Sera, 13 agosto 2006): “E’ vero che è una minoranza quella che pratica il terrorismo islamico, ma c’è una maggioranza di musulmani che condivide la loro ideologia fascista”. L’11 settembre 2001 ero in Bangladesh nel lebbrosario di Dhanjuri. Le Missionarie dell’Immacolata che curano i lebbrosi quel giorno non avevano ascoltato la radio: non ho saputo nulla degli attentati suicidi alle due Torri di New York. Il giorno dopo, andando in auto a Dinajpur, migliaia di persone manifestavano in corteo col volto gioioso e trionfante. Mentre l’Occidente era inorridito davanti alla televisione e a quelle scene spaventose, le folle dell’islam scendevano in piazza per esprimere la loro gioia per la vittoria contro “il grande Satana” (come Khomeini definiva gli Stati Uniti)! La nostra responsabilità sta nella decadenza della società, delle famiglie. L’Occidente presenta questi gravi sintomi di decadenza: diminuzione della popolazione, bassi tassi di crescita, di risparmio, consumi individuali e collettivi superiori agli investimenti; degrado morale: aumento di comportamenti antisociali (omicidi, droga, violenza in generale), decadimento della famiglia (divorzi, famiglie di single e di omosessuali), l’indebolimento dell’impegno nel lavoro e nello studio, la tendenza dell’Europa a non riconoscere le proprie radici cristiane. L’Europa e l’America tentano di promuovere la cultura occidentale (diritti dell’uomo e della donna, democrazia, libertà di pensiero e di religione, valore della singola persona, giustizia sociale, stato di diritto), ma sempre più diminuisce la loro capacità di realizzare questo obiettivo. Perché questa decadenza? L’Occidente ha abbandonato Dio ed è diventato “una civiltà volta alla sua stessa distruzione” diceva il card. Ratzinger in una sua conferenza. Nel gennaio 2006 sono tornato da un viaggio in Senegal, Mali e Guinea Bissau, dove ho vissuto per un mese fra popolazioni povere, con un livello di istruzione e di vita molto inferiore al nostro. Eppure sono popoli che danno l’impressione di una serenità e gioia di vivere che certamente noi italiani non abbiamo più. Tornando in Italia vedo molta gente triste, pessimista, scoraggiata. E’ un’esperienza che faccio spesso. Sarebbe sbagliato dire che è meglio la loro condizione della nostra, ma certamente si può dire che la povertà educa più della ricchezza ad alcune virtù umane fondamentali per vivere bene: cordialità, solidarietà, saper gioire di quel poco che c’è, amore alla famiglia e al villaggio, profondo senso religioso nella vita, ecc. Un parroco al quale chiedo come va la sua grande parrocchia mi dice: “Oggi l’idolo è il denaro; in passato prevalevano altri idoli: l’ideologia, il sesso, la gloria umana, ma oggi è il denaro”. Noi trasmettiamo ai giovani il falso ideale che deprime la nostra civiltà: di avere sempre di più e che quel che conta è divertirci e occupare i primi posti. La nostra civiltà è questa: siamo ricchi, democratici, liberi, istruiti e laureati, scientificamente avanzati, con leggi perfette (o quasi), ma vuoti dentro. Il cardinale arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi diceva che “i bolognesi sono sazi e disperati”. In questa situazione esistenziale, che rende la nostra società sempre più individualista e arida, noi incontriamo la provocazione dell’islam che si propone, con ogni mezzo (crescita demografica ma anche “guerra santa” e terrorismo), di ricondurci alla fede in Dio. Su questa realtà l’Occidente dovrebbe riflettere e decidere se non è questo il momento di tornare a Dio e a Gesù Cristo. Siamo proprio convinti che il laicismo esasperato, che toglie (o vuol togliere) i crocifissi dalle scuole e dagli ospedali e non parla mai di problemi religiosi in giornali e Tv, che esalta l’esasperazione del sesso e privilegia il divertimento sull’impegno nel lavoro; siamo proprio convinti che sia il sistema migliore per preparare il futuro della nostra Italia? L’islam si definisce non in termini di libertà ma di sottomissione a Dio. E se fosse proprio questo l’ideale a cui ritornare per umanizzare la nostra civiltà e per incontrare l’islam? Ritornare a Dio senza rinunziare alla nostra libertà, anzi proprio in forza della nostra libertà di scelta, perché convinti che la vera libertà sta nella totale e libera sottomissione alla volontà di Dio e alla Legge divina. Chesterton ha scritto: “Dio ha creato l’uomo e gli ha dato i Dieci Comandamenti come via da seguire per realizzare se stesso. Volete che non sapesse qual è il vero bene dell’uomo?”. La sfida dell’islam va presa sul serio. All’inizio del novecento i musulmani nel mondo erano circa 300 milioni, oggi un miliardo e 300 milioni. L’Italia è passata da 38 a 58 milioni e oggi noi italiani diminuiamo di circa 100.000 l’anno (siamo in leggero aumento solo per l’ingresso e le nascite di terzomondiali!). In un mondo occidentale che perde il senso dei valori assoluti, la testimonianza del primato di Dio ci fa comprendere i valori storici che l’islam porta con sé, anche se in tanti modi sbagliati, condannabili, che giustamente noi rifiutiamo: 1) La presenza di Dio nella vita del singolo uomo, nella famiglia, nella società. I musulmani ci insegnano il ”senso religioso” dell’esistenza, la coscienza che l’uomo è una creatura piccola e debole: deve dipendere dal suo Creatore. 2) La fede è il più grande dono di Dio all’uomo, che dobbiamo chiedere e conservare con la preghiera e l’osservanza della Legge di Dio. In Pakistan un dottore laureato in Europa mi diceva: “Noi preghiamo cinque volte al giorno, voi italiani come fate a vivere senza pregare?”. 3) La fede non è solo una scelta e un fatto personale e privato (noi abbiamo quasi vergogna a mostrarla), ma crea l’appartenenza ad una comunità di credenti e a tutta l’umanità creata dallo stesso Dio; quindi forti vincoli di amore e di aiuto vicendevole. Come tutto questo potrebbe essere realizzato nella nostra società, ecco il tema da dibattere, discutere, proporre per dare una svolta alla decadenza dell’Occidente. E’ necessario accendere una luce di speranza sul nostro cammino storico. |
Postato da: giacabi a 21:26 |
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islam, cristianesimo, gheddo
Tolto il cristianesimo
solo ruderi
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Roma (AsiaNews) – E’ culturale e religiosa, prima ancora che economica e politica la sfida che l’islam ha lanciato all’Occidente. “Ci ammirano per la tecnologia, l’economia, lo sviluppo e ci temono per la forza militare. Ma
vedono nell’Occidente, e soprattutto nell’Europa, aridità, mancanza di
figli, aborti, suicidi, matrimoni gay, insomma decadenza e loro hanno il
compito di venire a dare un’anima allo sviluppo occidentale”. E’ quanto sostiene padre Piero Gheddo, missionario del PIME,
nel suo “La sfida dell’Islam all’Occidente” (Ed. San Paolo, euro 9),
frutto di una conoscenza maturata in più di 40 anni di viaggi.
“Quando si parla di sfida dell’islam – dice ad AsiaNews
- si parla soprattutto di petrolio, di economia, di politica, di
terrorismo. Tutto vero, però non è solo questo: la sfida è prima di
tutto culturale e religiosa. Gli islamici sono popoli profondamente
religiosi, anche se a volte in modo formalistico, come noi, peraltro,
che vengono a contatto con noi, popoli che non hanno più Dio nel loro
orizzonte. Così, da un lato ci ricattano col terrorismo, il petrolio, la
demografia, per cui, ad esempio, si parla di invasione dell’Europa: in Germania i 7 milioni di turchi rappresentano il 10% della popolazione. Dall’altro lato, la sfida è religiosa: sono convinti di venire a dare un’anima al nostro sviluppo. Tutto
ciò ci deve spingere a riflettere, invece quando si parla delle sfide
islamiche si cercano risposte in interventi giuridici, militari,
diplomatici, di blocchi economici”.
Ma perché lei vede una sfida in questo giudizio sull’Occidente da parte dei Paesi islamici?
“Il
risveglio islamico, che ha meno di un secolo, si è dato come meta, in
buona parte dei musulmani, di istaurare il Califfato nei Paesi islamici e
di conquistare il mondo. La decadenza umana prima ancora che morale dell’Occidente, suggerisce il compito. L’Occidente
ormai non sa cosa vuole. Crollate le grandi ideologie che l’Occidente
aveva inventato per sostituire Dio, è rimasto il vuoto. E loro vogliono riempirlo”
Lei parla di Paesi islamici come di una unità, ma in realtà ci sono tanti islam e profonde divisioni.
“Sono
più di 40 anni che giro nei Paesi islamici, li ho visitati praticamente
tutti, a parte quelli del Caucaso e pochissimi altri. Mi ha
impressionato che pur essendoci molti islam: sciiti, sunniti, sufi,
moderati, fautori della sharia, sono tutti uniti in questa lotta contro l’Occidente. A spingerli è soprattutto quella che chiamano l’immoralità dell’Occidente,
reclamizzata dai giornali e insegnata nelle scuole. Libri di testo e
insegnanti insistono che l’Occidente è forte militarmente ed
economicamente, ma è vuoto. E’ un giudizio cambiato nel tempo. I nostri
missionari in Bangladesh, ad esempio, raccontano che negli anni ’40, quando sono arrivati, c’era ammirazione, paura, magari antipatia, ma non odio, si viaggiava tranquillamente. Poi forse il petrolio, forse Israele, ma è venuto l’odio. Bin Laden non è nato per caso”.
Ma molti Paesi islamici condannano Al Qaeda e il terrorismo.
“Anche nei Paesi moderati, le scuole islamiche, le madrasse, insegnano il Corano, ma soprattutto la lotta all’Occidente. Da lì, i migliori, magari poveri, vengono mandati alle scuole di formazione dei guerrieri dell’islam. Per noi saranno terroristi, ma le loro immagini sono nelle scuole, sono ‘i martiri dell’islam’.
Non si dice mai quanto tutto questo abbia creato una mentalità
profondamente antioccidentale nei popoli islamici, terreno maturo per il
moltiplicarsi del terrorismo. Per
anni Saddam Hussein e Gheddafi hanno versato 20/25mila dollari alle
famiglie dei kamikaze. Sono convinto che ora altri continuano a farlo.
Perché il terrorismo è parte della lotta contro l’occidente”.
Se questo è il quadro, cosa dovrebbe fare l’Occidente?
“L’Occidente dovrebbe capire qual è la sfida. E finora non lo fa: affronta
il terrorismo con mezzi militari, economici, politici, giuridici,
diplomatici e non pensa mai alla crisi della nostra società, che è
immorale, invivibile. Non si dice mai: dobbiamo cambiare. Dobbiamo ritornare a Gesù, renderci conto che l’immoralità è una questione centrale. Non dico che dovrebbe comandare la Chiesa, per carità, ma essa è un fattore di sviluppo. La nostra cultura è fondata sul cristianesimo. Montanelli mi diceva: ‘sono un cattolico non credente e non praticante’ e quando gli chiedevo: come fa?, rispondeva col suo: ‘perché non possiamo non dirci cristiani’. Tolto
il cristianesimo dall’anima dell’Europa, non restano che i ruderi di
Atene e di Roma. L’idea di uguaglianza tra gli uomini e tra uomo e
donna, la distinzione tra Chiesa e Stato, le scuole e gli ospedali, il
rispetto per le persone: è tutto nel cristianesimo ed è ciò che ci
distingue dall’islam. E anche all’islam manca Gesù Cristo.
Manca per esempio il senso del perdono. In Indonesia, a Sumatra, ci
sono numerose etnie. Sono tutti musulmani, ma ogni tanto c’è una guerra
intertribale. Per fermarla, il governo manda un comitato di
pacificazione. E’ composto da cinque persone autorevoli e tra loro
almeno due sono cristiane (di solito un cattolico e un protestante). Ho
chiesto il perché
di questa scelta, in un Paese musulmano. ‘Perché voi avete il senso del
perdono, del mettere pace’, mi hanno risposto al Ministero degli
interni. ‘Per noi musulmani la vendetta è sacra’. Per questo, quando un
cristiano parla di pace è credibile, un musulmano no”.
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