Il santo di aprile
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Cari amici, sentite cosa mi scrive un paziente terminale di cancro, già verso la fine.
Ogni giorno mi abbraccia come un figlio. La sua FEDE rispetto alla mia è come l’Everest rispetto ad una collina. Che cos’è la morte? E’ come la cima del “Civetta” che mi permette di entrare nel bellissimo orizzonte delle mie dolomiti. Per usare un esempio a me tanto caro e ormai lontano. Il titolo della lettera è:
Dall'infermo al Paradiso
Caro P. Aldo,
Ti voglio raccontare la mia vita di ammalato terminale di cancro. Quando giá la mia situazione era insostenibile ricorsi a un Centro Medico, dove mi ricevettero. Peró mai avrei potuto immaginare che in quel luogo che è anche l´ospedale universitario di Asunción, avrei dovuto passare la più triste e dolorosa esperienza della mia vita. Tre lunghi mesi mi portavano alla disperazione fino al punto di pensare che fosse un castigo di Dio a motivo dei miei peccati. Non faccio nomi, anche perché in quel inferno avevo incontrato alcune persone buone, che però sempre furono ostacolate per l´istituzione nel blindarmi l’aiuto necessario. Tre mesi in quell’ospedale sono stati per me l´antisala dell’inferno. Ma la fede non conobbe oscillazioni perché ero certo che il Dio fatto uomo e morto per me non mi avrebbe abbandonato. Ero comunque convinto che la salute non l’avrei più recuperata. L’angelo che mai mancò di assistermi è stato mia figlia, sposata e madre di tre bambini, perché mia moglie morì 14 anni fa. A questa figlia debbo tutto perché senza la sua presenza non so cosa sarebbe stato di me. E sarà lei a portarmi fuori da quell’inferno, dopo aver sentito parlare della “Casa Divina Provvidenza San Riccardo Pampuri”. Quando mi diede la notizia da subito ho immaginato il paradiso, anche se non conoscevo l´ospedale. Al momento di lasciare l’inferno dell’ospedale Universitario la figlia mi disse: “Papà ti porto nella casa Divina Provvidenza. Ed io le risposi: “Dio e la Vergine Santissima ci portano nel paradiso di Padre Aldo”. Arrivato in questo luogo ho visto la faccia di Padre Aldo che subito mi disse: “sono qui con te”. In quel momento compresi che realmente Dio mi aveva tolto dall’inferno e portato in Paradiso. I tre mesi di sofferenza non nell’anima, ma nel corpo incominciarono ad essere come un ricordo lontano in modo particolare quando mi facevo il bagno, mi posero il pigiama ben pulito e mi diedero un letto tutto bianco con le lenzuola belle bianche. Mi sono sentito un angelo avvolto nella purezza. Grazie Padre Aldo per ricevermi nel tuo paradiso. I tuoi angeli sono i tuoi ammalati ai quali con il tuo affetto li trasmetti pace, tranquillità e rassegnazione.
Paziente Roque Alcaraz
“Non nobis Domine sed tuo nomini tuo da gloriam”
Io sono un niente che ha avuto la grazia di incontrare Giussani che non mi ha dato consigli o guardato l´orologio per darmi del tempo e molto meno l´agenda o la segretaria. Al contrario mi ha preso per mano e fino alla morte mi ha fatto compagnia. Se l’ospedale è un susseguirsi di miracoli (500 sono i pazienti come Roque che sono morti) è solo perché quest’uomo mi ha rivelato concretamente cosa vuol dire che Cristo è la COMPAGNIA di Dio all’uomo. Lui mi ha preso in consegna, lui mi ha mandato in Paraguay quando mio fratello voleva ricoverarmi al reparto “esaurimenti” di Feltre, lui mi ha accompagnato a Linate e caricato sull’aereo, lui mi chiamava al telefono, lui mi diceva “chiamami quando vuoi, lui mi ha portato un mese a Corvara nel 1989 e mi ha pagato l’albergo, lui ha chiesto e voluto che Don Massimo mi ricevesse nella San Carlo e vedesse tutte le questioni giuridiche con la mia congregazione di appartenenza, lui ogni volta che veniva a Rio de Janeiro per l’incontro responsabili mi voleva vedere e sentire come stavo. Potrei continuare all’infinito raccontando dettagli e dettagli di come quest’uomo mi ha voluto bene, dandomi fiducia che anche oggi credo che difficilmente, conoscendo quanto mi è accaduto, un altro mi darebbe. Allora capite, cari amici che io non posso non cercare di vivere così con tutti, in particolare con chi soffre nel corpo e in particolare nell’anima o nella mente. Quell’uomo ha dato la vita per me, come per tutti. Per cui quanto accade qui è solo opera sua e non certamente mia che solo da tre anni riesco a vedere un po’ chiaro nella mia vita, cosa che mi permette di gridare a Gesù giorno e notte, consegnandomi totalmente al Suo disegno su di me. E vi garantisco che a 61 anni è davvero bello vivere, essere papà come mi chiamano i miei 11 bambini orfani dei genitori morti per AIDS e che tengo con me in una casetta vicina alla parrocchia e regalataci da un industriale, e che ogni mattina alle 7 vado a prenderli per portarli nella nostra scuola. “Ciao papà” mi dicono ogni volta che mi incontrano. Domenica è venuto il Nunzio Apostolico del Papa a pranzo con noi, i bambini e le tre mamme che li custodiscono con tanto amore. Ad un certo punto il Nunzio Apostolico guardandomi mi disse: “Padre Aldo, solo la verginità compie queste miracoli, genera questa fecondità, permette una paternità impensabile all’uomo. La verginità è la forma suprema della paternità e per questo da subito ti hanno riconosciuto come papà”. Una gioia indescrivibile che mi spinge non solo a stare più ore al giorno davanti al Santissimo Sacramento, ma passare ogni momento libero a giocare, fare loro compagnia. Quella compagnia che Giussani ed P. Alberto hanno fatto a me giorno per giorno. Mi piace immaginare Giussani lassù in cielo che sorride e mi dice: “vedi P. Aldo che avevo ragione quella volta che ti dissi e te non ci credevi che quanto ti era accaduto sarebbe stato una grazia per te, per la chiesa e per il movimento”.
P.S:
il parroco della parrocchia è il Santissimo Sacramento, il primario o
direttore sanitario della clinica è il Santissimo Sacramento. Funziona a
meraviglia. Anzi credo fermamente che un ospedale senza il Santissimo
serve ben poco. In
questi giorni abbiamo ricoverato un poveraccio, ateo fino al midollo,
con cancro terminale. Dopo un dialogo pieno di affetto mi sono reso
conto che parlargli di Dio era disgustarlo. Per cui, ho lasciato
perdere. Però, siccome ogni giorno, tre
volte al giorno faccio la processione con il Santissimo Sacramento
quando arrivo davanti a lui e gli do un bacio chiedendogli come a tutti,
come stai. E lui: padre molto meglio. Un giorno lo vedo partecipare
alla processione, con il Rosario al collo e inginocchiarsi. Tutti siamo
rimasti colpiti e commossi. Conclusione: quello che le mie parole non
riescono a fare se non confusione, lo ottiene l’Eucarestia. E’ un
miracolo del Santissimo Sacramento.
Dice il Papa: “non si cura nessun ammalato se il medico non lo aiuta a incontrare l´amore di Dio”. Ecco il problema degli ospedali: al posto dell’Eucarestia si è messo sul piedistallo l’orgoglio professionale dei medici e del personale. Amici: provare per credere. Qui tutto cammina, come in parrocchia perché l´Eucarestia è il cuore, l´anima della clinica ed è un spettacolo. Vedere anche di notte gli ammalati trascinarsi davanti al Santissimo Sacramento esposto e mettersi in ginocchio davanti a Lui che è il massimo e l’unico vero medico li cura tutti, é commovente. E’ per ricordarci il valore delle 40 ore della settimana santa, davanti al Santissimo Sacramento. Approfittiamone. Buona Pasqua.
Con affetto, P. Aldo Trento da: alfredotradigo
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giussani, padre trento
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giussani
I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
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Giornata Mondiale della Gioventù: da Toronto a Colonia
Roma 10-13 aprile 2003
Don Giorgio Pontiggia
Rettore dell'Istituto Sacro Cuore di Milano I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa
Non
ho trovato una descrizione più sintetica e immaginativa della
situazione dei giovani d'oggi che quella emersa in un dialogo di don
Giussani con un gruppo di universitari: " E'
come se tutti i giovani d'oggi fossero stati investiti da una sorta di
Cernobyl, di un' enorme esplosione nucleare: il loro organismo
strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato
come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante. E'
come se oggi non vi fosse più alcuna evidenza reale se non la moda - che
è un concetto e uno strumento del potere. Mai come oggi l'ambiente,
inteso come clima mentale e modo di vita, ha avuto a disposizione
strumenti di così dispotica invasione delle coscienze. Oggi più che
mai l'educatore, o il diseducatore sovrano è l'ambiente con tutte le sue
forme espressive. Così anche l'annuncio cristiano stenta molto di più a
diventare vita convinta, a diventar vita e convinzione. Quello che
si ascolta e si vede non è assimilato veramente: ciò che ci circonda, la
mentalità dominante, la cultura onniinvandente, il potere, realizzano
in noi una estraneità rispetto a noi stessi, si rimane cioè, da una
parte, astratti nel rapporto con sé stessi e affettivamente scarichi
(come pile che invece di durare ore durano minuti); e, dall'altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione".
- una estraneità rispetto a noi stessi, si rimane cioè, da una parte, astratti nel rapporto con sé stessi
Perché
si è sostituita la ragione come esigenza di conoscenza della realtà,
cioè dell'esperienza, secondo tutti i fattori, con il sentimento; la persona non è quello che è ma è ciò che si sente e la ragione diventa la capacità di giustificazione di questa reazione: "Và dove ti porta il sentimento", e così ciò che prevale è l'opinione, non il giudizio.
Si
è tolta l'evidenza di una debolezza originale in cui vive la persona.
E' stata presa come dogma e diffusa dai mezzi di comunicazione sociale
l'affermazione di Rousseau
"Fa' quello che vuoi perché per natura l'uomo è spinto ad atti
virtuosi" E quindi la fatica, il sacrificio, sono diventati una
obiezione e non più la condizione del vivere.
- e affettivamente scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti);
L'affezione diventa la soddisfazione di un piacere e non più l'attrattiva del vero, così tutto è volubile, insicuro
e le pile scariche fanno diventare la vita non un cammino verso
qualcosa ma un vagabondaggio, una intermittenza invece di un albore.
Anche
la religiosità giovanile spesso è il fluttuare del sentimento di Dio
più che il suo riconoscimento per cui tutte le religioni sono
uguali perché corrispondono alla propria spontaneità e non perché
realizzano di più la propria natura.
- e, dall'altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione".
Così
le aggregazioni giovanili nascono per una prossimità di sensazioni e
mode più che per un aiuto al crescere della persona diventando così la
nuova forma dell'ideologia, la cinghia di trasmissione della moda e
della mentalità dominante.
Ma
sempre don Giussani scriveva in "Porta la speranza" ed. Marietti di cui
vi allego un capitolo "Ma per il luogo che occupa nella cronologia di
ogni vita, in tutti i tempi la gioventù avrà presentato spettacolo di
crisi. Perciò, se ora si parla di una crisi dei giovani, particolare ed
eccezionale, questa, in ultima analisi, deve essere ricercata in una
crisi dell'educazione, dei fattori educativi. La crisi degli educatori
si profila:
- in
primo luogo come inconsapevolezza che rende gli educatori stessi
collaboratori magari incoscienti delle deficienze dell'ambiente
C'è
una perdita del significato personale del fatto cristiano che è il
costituirsi di un soggetto nuovo nella storia e non uno come gli altri
con qualche impegno in più come ha detto il Cardinal Ratzinger al
Meeting di Rimini del 1990: "E'
diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea
che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in
attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica
dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un
comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della
Chiesa. (...) Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente
attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto
cristiano. (...) La Chiesa non esiste allo scopo di tenerci occupati
come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita
essa stessa ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita
eterna".
All'interno
della società contemporanea spesso il cristianesimo appare legato a
delle strutture. Non essendo sempre queste strutture vivificate da una
testimonianza personale, il rifiuto o l'indifferenza nei confronti di
queste strutture coincidono col rifiuto o l'indifferenza nei confronti
del fatto cristiano, come se la partecipazione ad esse bastasse a
giustificare il proprio essere cristiani.
Manca
in molti cristiani la testimonianza della soggettività nuova che è il
cristianesimo così da rendere occasione di vita queste strutture: si è
persa la coscienza del significato personale del richiamo cristiano,
come corrispondente all'umano.
Così il fatto cristiano rimane astratto, estraneo alla vita, al mondo normale.
- e, in secondo luogo, come
mancata vitalità nell'atteggiamento educativo che non li fa combattere
con sufficiente energia la negatività dell'ambiente, in quanto li
attesta su posizioni schematicamente tradizionali, formalistiche, invece
che portarli a rinnovare l'eterno Verbo redentore nello spirito della
nuova lotta".
Si favorisce la frattura fra cristianesimo e vita.
La
società tende a rifiutare o a relegare nell'ambito di una dimensione
privata il cristianesimo: cioè un distacco da Dio come origine e senso
della vita, quindi dall'esperienza.
Come se
Dio rispondesse alla "religiosità" e non alle esigenze della vita.
Così, inconsapevolmente, si accetta il ruolo che la società vorrebbe
riservare ai cristiani che è quello di essere il supplemento religioso,
l'anima per la realizzazione del proprio progetto invece di essere
giudizio e quindi collaboratori originali dell'aspirazione comune degli
uomini alla loro felicità.
Le
difficoltà dei figli sono un interrogativo drammatico per i padri; per
questo dobbiamo domandarci con T.S. Eliot "E' l'umanità che ha
abbandonato la Chiesa ?" o "E' la Chiesa che ha abbandonato l'umanità?"
(T.S. Eliot - I cori de la Rocca)
CRISTO E LA CHIESA
Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento
Il Cristianesimo è un evento; una persona è entrata nella storia: Gesù Cristo, che alcuni hanno incontrato ed accettato.
E
la Chiesa è la possibilità di ripetere oggi questo incontro, la
possibilità che si ripeta per tutti, come ha detto il Santo Padre per la
XVIII° Giornata Mondiale della Gioventù: "Cari
giovani, lo sapete: il Cristianesimo non è un opinione e non consiste
in parole vane. Il Cristianesimo è Cristo! E' una Persona, è il
Vivente".
Non
dunque una teoria, ma un fatto che ci riguarda, un fatto la cui portata
è data da una Presenza personale, la Presenza di Cristo: dell' Emmanuele, "Dio-con-noi", di Dio che si è fatto Compagno, amico dell'uomo.
Come scriveva Fedor Dostoevskij ne' "I Demoni" "Molti
credono che sia sufficiente credere nella morale di Cristo per essere
cristiani; non la morale di Cristo, né l'insegnamento di Cristo
salveranno il mondo ma precisamente questo: che il Verbo si è fatto
carne"
L' avvenimento è il metodo
L'
"Avvenimento" non è solo il momento in cui questo fatto si è posto ma
indica un metodo, il metodo scelto e usato da Dio per salvare l'uomo:
l'Incarnazione, Dio salva l'uomo attraverso l'umano.
Il Cristianesimo non è la rivelazione dell'esistenza di Dio ma lo stupore che Dio è un Uomo, lo stupore di Kafka:
"Colui che non abbiamo mai visto, che però aspettiamo con vera
bramosia, che ragionevolmente però è stato considerato irraggiungibile
per sempre, eccolo qui seduto" (F. Kafka - Il Castello)
La salvezza non ci sarà: c'è, il valore del presente
- Se
Dio è con noi la salvezza c'è; e non solo c'è, ma é tra noi; perciò è
utilizzabile, é sperimentabile già adesso, perché Dio che é salvezza, si
compromette con l'uomo, con tutta la sua vita e con la storia. La
salvezza é una compagnia: la compagnia di Dio all'uomo, nella quale
l'uomo trova la possibilità della sua realizzazione, la consistenza
della sua vita e di sé stesso, la sua vera fisionomia, l'unità della sua
persona.
La nostra realizzazione, redenzione, non é il risultato del nostro sforzo di coerenza umana, ma é conseguenza dell' accettazione di quella compagnia.
"Salvare"
vuol dire che l'uomo capisca chi è, capisca il suo destino, sappia come
condurre i passi verso il suo destino e vi possa camminare.
E'
incontrando questa Presenza che la persona incomincia a capire se
stessa, a capire qual' è il suo destino, a capire come andare al suo
destino e con quale energia camminare.
- Aderire al fatto cristiano, procedere in esso ha come modalità quella della conversione. Convertirsi non è analizzare l'annuncio, ma compromettersi con esso, cioè con un Fatto, un avvenimento.
La
consistenza dell'annuncio è tutta nel fatto che esso penetri nell'
esistenza e la cambi. L'esperienza di un rinnovamento della vita, di
una fisionomia personale imprevista è la prova esistenziale che l'opera
della salvezza si sta compiendo, è il centuplo quaggiù.
Come ancora ricordava il Santo Padre ai giovani per la prossima giornata mondiale della gioventù "Cari
giovani, solo Gesù conosce il vostro cuore, i vostri desideri più
profondi. Solo Lui, che vi ha amati fino alla morte (cfr. Gv 13, 1), è
capace di colmare le vostre aspirazioni. Le sue sono parole di vita
eterna, parole che danno senso alla vita. Nessuno all'infuori di Cristo
potrà darvi la vera felicità."
O come diceva il Cardinale Giacomo Biffi ad un convegno di teologi a Bologna "Noi non siamo il "popolo del libro", a rigore non siamo neppure il "popolo della parola": siamo il "popolo dell'Avvenimento" (...) "Sventurato
quel teologo, quel esegeta, quel lettore della sacra pagina per il
quale Gesù è primariamente un personaggio letterario, e perciò egli
parla del Cristo dei sinottici, del Cristo paolino, del Cristo
giovanneo, e non del suo Salvatore".
Non
esiste possibilità di capire il cristianesimo se non si intuisce che il
cristianesimo nasce interamente come passione per l'uomo, per il
singolo uomo, meglio dalla passione per il destino del singolo uomo.
1^ Parte
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Postato da: giacabi a 20:25 |
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cristianesimo, giussani, don pontiggia
Lo sguardo cristiano
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"Lo sguardo cristiano
è vibrante di un impeto capace di esaltare
tutto il bene che c'è in tutto ciò che si incontra,
in quanto
lo riconosce come partecipe di quel disegno
la cui attuazione si è rivelata in Cristo.
Non quindi una tolleranza generica
che lascia ancora estraneo l'altro,
ma un vero ecumenismo,
un amore alla verità che è presente,
fosse anche per un frammento,
in chiunque".
Luigi Giussani
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Postato da: giacabi a 20:12 |
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giussani
Il senso religioso 2a parte
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Per
questo il senso religioso porta sempre inevitabilmente con sé il senso
del peccato. C'è il peccato anche per l'ateo, teorico o pratico. Per un
marxista convinto, cui il partito è tutto, è peccato ogni deviazione o
tradimento, ogni atteggiamento che non serva i suoi programmi;-per uno, a
cui la salute è tutto, sarà peccato qualunque cosa che in qualche modo
non salvi quel quid cui come a idolo dà totale devozione.
Più
apertamente peccato si dice nella storia della religiosità
quell'incoerenza per cui un individuo teoricamente afferma un
determinato quid come senso ultimo del reale, e poi nella vita pratica,
di fatto, senza che se lo dica, imposta l'azione secondo un altro
riferimento ultimo;-imposta cioè la sua azione in modo che, se letta
attentamente, implichi come quid ultimo da cui è dominata un quid
diverso da quello affermato teoricamente: è, per usare termini
tradizionali, l'incoerenza tra la fede e le opere.
Proprio per sua natura il senso religioso è un fattore ineliminabile, è
-come si suol dire la dimensione di ogni gesto, di ogni minuto di
esistenza. Se qualcosa sfuggisse a quello che noi identifichiamo col
dio-comunque lo si intenda, come il Partito guida o il Progresso della
Scienza oppure il Dio cristiano, non sarebbe più dio, perché ci sarebbe
qualcosa di più profondo di esso implicato da noi, intrinseco al nostro
modo di agire. Il
senso religioso quindi coincide con quel senso di originale, totale
dipendenza che è l'evidenza più grande e suggestiva per l'uomo di tutti i
tempi,- comunque sia stata tradotta, nella fantasia primitiva o nella
coscienza più evoluta e pacata dell'uomo civile. Il dio è il
determinante di tutto, è il fattore da cui non si può sfuggire mai. È
come se dentro di noi ci fosse un'esigenza che ci spinga a una totale
devozione verso qualcosa da cui tutto dipende. Ed è proprio questo
qualcosa che si chiama, nella tradizione religiosa, esplicitamente Dio.
E
poiché nella tradizione religiosa nel senso stretto della parola
l'umanità ha preso coscienza della soggezione e della devozione ad un
ultimo da cui tutto dipende, noi riferiremo il senso religioso a
qualunque forma di questa consapevolezza;-mentre la religiosità solo
implicita di umane teorie e di pratiche di vita- come abbiamo descritto
prima -è riguardata da noi come documento di quella esigenza naturale, o
sarà da noi sorpresa come corruzione di essa. Tale
energica inclinazione è, come abbiamo visto prima, proprio dentro la
nostra struttura è-si dice- una capacità del nostro essere.
Si
tratta come di una energia che protende il fondo delle nostre azioni in
una determinata direzione. Gli antichi filosofi scolastici chiamavano
tale dote o disposizione viva della nostra persona una vis appetitiva -forza di aspirazione,
Il
senso religioso è quindi una dote caratteristica della nostra natura,
che dispone l'anima ad aspirare verso Dio, quasi la protende nel
tentativo di afferrare Dio, in qualche modo. Fra tutte le capacità della
nostra natura, quella del senso religioso è evidentemente la
fondamentale perché tutte le altre si rivolgono a dei beni particolari,
mentre questa si rivolge al bene finale e conclusivo. In
un certo senso, perciò, la capacità naturale che è il senso religioso
riassume tutti gli scopi delle altre capacità della nostra persona.
Per questo nella sua pastorale della Quaresima 1957 l'allora Sua Ecc, Mons, Montini definiva il senso religioso come «sintesi dello spirito»,
Evidentemente la
capacità del senso religioso non ce la formiamo da soli, ce la troviamo
dentro la nostra natura. Questa nativa aspirazione è come suscitata,
destata in noi da un potere superiore a noi; essa è come provocata
indipendentemente dalla nostra volontà, prima ancora che intervenga il
nostro parere. Noi siamo come di fronte ad una voce che chiama. Potremo
rispondervi o no, ma non possiamo impedire che essa chiami. Il senso
religioso è una vocazione,. esso è la vocazione della vita.
Il
senso religioso è quindi qualcosa che fa parte del dono dell'essere; è
un elemento della struttura stessa della nostra natura. Il senso
religioso è l'iniziativa di Dio che ci crea. Non possiamo evitarla,
anche se possiamo insipientemente cercare di rifiutarla o contraddirla.
Luigi Giussani Il senso religioso Jaca Book 1968
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Postato da: giacabi a 20:35 |
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giussani, senso religioso
Il senso religioso
***
«A che livello della nostra dinamica interiore, a che livello del nostro sentimento e pensiero si colloca il senso religioso?
Ci sono domande che s'attaccano alla radice stessa del nostro moto umano: per che cosa vale la pena che io viva? quale e il significato della realtà? che senso ha l'esistenza?
Leopardi
ha creato un simbolo di questo strato profondo della nostra vitalità
nella figura del «pastore errante» che parla alla «luna»:
«Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;.
dico tra me pensando: a che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo infinito seren?
Che vuol dir questa solitudine immensa?
Ed io che sono? Così meco ragiono...».
Il senso religioso e esattamente al livello di quelle domande più precisamente il senso religioso sorge con l'emergenza in quelle domande di un aggettivo (o avverbio) molto importante: qual e il senso esauriente dell'esistenza? qual è il significato ultimo della realtà? per che cosa in fondo vale la pena vivere?
Il contenuto del senso religioso coincide con queste domande e con qualunque risposta a queste domande. Occorre notare che queste domande sono espressioni di tutti, anche di coloro che ne negano il valore teoretico e filosofico.
Cordialmente ne richiama l'ineluttabilità il grande romanziere Thomas Mann quando parla «dell'uomo,
di questo essere enigmatico che racchiude in se la nostra esistenza per
natura gioconda, ma oltre natura misera e dolorosa. È ben comprensibile
che il suo mistero formi l'alfa e l'omega di tutti i nostri discorsi e
di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola,
urgenza a ogni nostro problema»
Si tratta dunque di domande a un livello inevitabile, implicito in qualunque posizione umana. Per
ciò stesso che uno vive cinque minuti afferma l'esistenza di un
qualcosa per cui ultimamente vale la pena vivere in quei cinque minuti;
per ciò stesso che uno prolunga la sua esistenza, afferma l'esistenza di
un quid che sia ultimamente il senso per cui vive. II
contenuto del senso religioso è una implicazione inevitabile: come uno
aprendo gli occhi vede i colori e le forme, così uno per ciò stesso che
vive implica quello. E la natura stessa della ragione, del nostro pensiero, della nostra coscienza che si pone come senso religioso.
Perciò
l'atteggiamento religioso e nel marxista convinto come nel
cattolico;-non esiste ateo che possa scrollarsi d'addosso questa
implicazione. Qualunque
principio o valore si ponga come risposta a quelle domande, è una
religiosità che si esprime ed è un dio che si afferma: e infatti a quel
principio, qualunque esso sia, l'uomo da incondizionata devozione. E non c'e assolutamente bisogno che sia teorizzato, non c'e assolutamente bisogno che sia espresso in sistema mentale: -può essere una implicazione in una banalissima pratica di vita. Può essere la propria ragazza, gli amici, il lavoro, la carriera, i soldi, il potere, la politica, la scienza: ma qualunque sia l'implicazione ultima che la coscienza umana realizza di fatto vivendo,-è una religiosità che si esprime e un dio che si afferma. Magari il dio di un istante, di una ora, di un periodo. »
Luigi Giussani Il senso religioso Jaca Book 1968
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Postato da: giacabi a 17:40 |
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giussani, senso religioso
"L’uomo
di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con
persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la
vita loro è cambiata"
“Che
cos’è il cristianesimo se non l’avvenimento di un uomo nuovo che per
sua natura diventa un protagonista nuovo sulla scena del mondo?
La questione eminente di tutto il problema cristiano è l’accadere anche
per i laici della creatura nuova di cui parla san Paolo.
È a tale uomo che vengono dati compiti e funzioni diverse: ma questo,
in fondo, rispetto al primo è problema secondario. Tale infatti è il
contenuto di ogni impegno cristiano: quello della preghiera di Gesù:
«Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo» (Gv 17,1). 2. L’uomo
di oggi, dotato di possibilità operative come mai nella storia, stenta
grandemente a percepire Cristo come risposta chiara e certa al
significato della sua stessa ingegnosità. Le istituzioni spesso non
offrono vitalmente tale risposta. Ciò
che manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio.
L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza
dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così
presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può
scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento
iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: «Zaccheo scendi subito, vengo a casa tua» (Cfr. Lc 19,5). 3. In
questo modo il mistero della Chiesa, che da duemila anni ci è
tramandato, deve sempre riaccadere per grazia, deve sempre risultare
presenza che muove, cioè movimento, movimento che per sua natura rende
più umano il modo di vivere l’ambiente in cui accade. Per quanti sono
chiamati avviene qualcosa di analogo a quel che il miracolo fu per i
primi discepoli. Sempre l’esperienza di una liberazione dell’umano
accompagna l’incontro con l’evento redentivo di Cristo: «Chi mi segue
avrà la vita eterna, e il centuplo quaggiù»
(Cfr. Mt 19,28-29; Mc 10,28-30; Lc 18,28-30). 4. Come il Battesimo è
grazia dello Spirito, così ogni realizzarsi del Battesimo è dono dello
Spirito che si incarna nel temperamento e nella storia di ognuno. Questo
dono dello Spirito può comunicarsi con una forza particolarmente
persuasiva, pedagogica e operativa così da suscitare un coinvolgimento
di persone, un ambito di affinità e di rapporti, per cui si realizza una
dinamica stabile di comunione, «vivere la quale è un aspetto della obbedienza al grande mistero dello Spirito» (Giovanni Paolo II)”
don Giussani un
brano dell’intervento di al Sinodo dei Vescovi sui laici (Roma, 9
ottobre 1987, pubblicato in L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur,
Milano 2003,
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Postato da: giacabi a 20:37 |
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cristianesimo, giussani
Cristo risorto Signore della Vita
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Occorre una potenza infinita per essere questa misericordia,
una potenza infinita dalla quale
-in questo mondo terreno,
nel tempo e nello spazio che ci è dato di vivere,
negli anni, pochi o tanti che siano –
noi mutuiamo, attingiamo letizia.
Perché un uomo,
con la coscienza di tutta la sua pochezza,
è lieto di fronte all'annuncio di questa misericordia:
Gesù è misericordia.
Egli è mandato dal Padre
per farci conoscere
che l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo
a misericordia.
(Luigi Giussani)
“Gesù Cristo è Lui il cuore, il vertice, la sintesi dell'annuncio evangelico; questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Il Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. È un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona.
Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono
perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il
Cristianesimo, con questo, non c'entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.”
Card.Giacomo Biffi
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Postato da: giacabi a 08:15 |
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cristianesimo, giussani, biffi
L’amicizia che può affrontare tutto
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Postato da: giacabi a 12:15 |
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zerbini, giussani, carron
L'esigenza della verità***
" l'esigenza della verità: cioè, semplicemente l'esigenza del significato delle cose, dell'esistenza. Se
aveste davanti agli occhi un meccanismo che non avete mai visto,
analizzatelo finché volete, fin nel dettaglio infinitesimale di tutti i
suoi più piccoli componenti; alla fine voi non potete dire di conoscere
questa macchina, se anche dopo tutta la disamina non foste pervenuti a
capire a che serve. Perché la verità della macchina è il suo significato, vale a dire appunto la risposta a quella domanda: "qual è la sua funzione?" Questa domanda ricerca il nesso tra tutti quegli ingranaggi che la compongono e la totalità del meccanismo, cioè il suo scopo, la parte che la macchina ha nella totalità del reale.
In questo senso quanto più l'uomo dettaglia seriamente la composizione delle cose, tanto più si esaspera nella domanda di quale ne sia il significato. L'esigenza della verità implica sempre allora l'individuazione della verità ultima, perché non si può veramente definire una verità parziale se non in rapporto con l'ultimo. Non si può conoscere alcuna cosa se non in un veloce, implicito finché si vuole, rapporto tra essa e la totalità. Senza intravedere la prospettiva ultima, le cose divengono mostruose.".
don Giussani da: Il senso religioso - Rizzoli
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Postato da: giacabi a 13:59 |
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verità , giussani
Lo sguardo cristiano
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Se noi, attraverso quello che facciamo, non portiamo quello sguardo attraverso cui noi siamo stati guardati, siamo come tutti. Come dice quell'espressione stupenda di don Giussani: «Uno sguardo che dà forma allo sguardo». Questo è il cristianesimo!
Julián Carrón Tende Avsi 2006/2007 e degli Avsi Point - Milano, 18 novembre 2006 - Tracce n. 11,2006
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Postato da: giacabi a 09:28 |
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cristianesimo, giussani, carron
Cesana:
tre anni dopo l’eredità viva del «Gius»
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DA MILANO da : www.avvenire.it 22-02-2007
MARINA CORRADI Tre anni oggi dalla morte di don Giussani. Chi ne conosce i libri, nella Spe salvi avverte, nella pretesa di Benedetto XVI di un cristianesimo operante nella realtà, un’eco dell’ansia radicale del sacerdote lombardo per un cristianesimo vivo «qui e ora». In una prefazione per un libro di Giussani del 1994 –- Il senso di Dio e l’uomo moderno, (Bur) l’allora cardinale Ratzinger scriveva: «È inquietante che la voce della Chiesa appaia incapace di raggiungere le orecchie e i cuori degli uomini...». Con Giancarlo Cesana, storico leader di Cl, parliamo della attualità di quest’ ansia di ritrovare il cristianesimo delle origini, comune a due uomini per formazione e temperamento diversi. Cesana: «Giussani raccontava di un suo alunno al Berchet, studiosissimo, e che portava il distintivo di una organizzazione cattolica. E a cui lui però rimproverava di 'rendere testimonianza solo a se stesso'. Il punto era quello, già negli anni ’50: la novità di Cristo si deve vedere. È, se opera, è il titolo di un libro di Giussani. Se 'è vero', deve agire sulla realtà. Dalla certezza di un evento nasce la speranza cristiana: noi speriamo, perchè vediamo in noi un cambiamento già iniziato. L’altra sera parlavo in una città dove si era appena celebrato il funerale di due ragazzi di Gs. Le loro famiglie non erano distrutte perchè vivono dentro una esperienza che è più forte dell’assurdo, di un dolore indicibile». È dunque la speranza che il Papa dice già 'sostanza', già germe di ciò che si spera. Essere cristiani è fare esperienza di un amore a sè che viene da qualcosa di molto più grande di noi. Che uno possa sperare nel dolore, è indice della presenza nella sua vita di qualcosa di più grande della morte. Giussani ha combattuto per questa piena incidenza della fede nella realtà; senza la quale il cristianesimo sarebbe allucinazione, o sogno. Il germe di vita vera è possibile dentro la comunione dei cristiani, in una appartenenza che è un continuo riprendersi, correggersi – soprattutto perdonarsi. Nel momento più inaspettato, trovi uno che ti abbraccia – «amatevi, come io ho amato voi»–. Per questo occorrono le facce dei fratelli, occorre, come ha detto il Papa recentemente, «uomini che rendano Dio credibile». C’è un punto, in quel libro di Giussani, in cui l’analisi di ciò che è accaduto alla speranza cristiana nella storia scorre parallelamente a quella della «Spe salvi». È la sottolineatura dell’Umanesimo come il farsi avanti di un uomo che si percepisce come autosufficiente, e la conseguente ribellione al Dio cristiano. È l’affacciarsi alla storia di un uomo autosufficiente e quindi disperato - giacchè, poichè moriamo, la nostra è una «autosufficienza » a termine. E quest’uomo è ostile alla Chiesa, perchè la Chiesa continua a affermare il suo bisogno di essere salvato – la Chiesa come argine alla prepotenza dell’uomo. Un punto che il Papa sottolinea con preoccupazione: un pericolo per l’uomo che venga da questa pretesa di autosufficienza. Come disse De Maistre, l’uomo senza Dio non costruisce un mondo contro Dio, ma contro l’uomo. La critica del Papa però tocca anche il cristianesimo moderno, perchè ha 'ridotto la speranza' originaria. Giussani si chiese, riecheggiando Eliot, se la Chiesa non aveva «abbandonato l’umanità». In quello stesso senso di una riduzione della speranza originaria a consiglio morale. Di valori proposti dimenticando l’evento di Cristo, su cui quei valori si fondano. Quante volte dal pulpito ci siamo sentiti invitare a «essere buoni», ma senza capire in nome di che, giacchè il fatto di Cristo, che fonda la bontà, passa in secondo piano, è scontato. Il Papa scrive: «Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata buona - condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero per nulla strutture buone». Il tema della libertà era molto caro a Giussani. Ci diceva della passione di Dio per la libertà dell’uomo: di come avesse voluto che la sua creatura lo amasse, ma liberamente. Ammettendo con ciò la possibilità del rifiuto e del male. Contro il sogno ideologico – ed è ancora Eliot – di «sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono ». La vita eterna, cioè il motivo della speranza, per il Papa è «relazione con Cristo». Con Cristo, cioè con il Senso di tutto (il significato delle cose è il rapporto tra loro e con tutto) entrato nella storia. Era costante anche in Giussani lo sforzo di mostrare come le parole fondamentali della esperienza cristiana – fede, speranza, carità, quelle parole che il mondo svuota – sono attese originarie in ogni uomo. Chi, anche non credente, vuole sperare che la sua vita possa cambiare, deve avere fiducia nel mondo, e deve legarsi a dei rapporti. La speranza dunque è ontologicamente fondata sulla relazione. Non nasciamo monadi, fin dal primo istante non esistiamo soli. Sembra di scorgere un’ansia comune alla radice, fra questi due uomini quasi coetanei. Due uomini diversi, ma entrambi profondamente cristiani e nello stesso periodo storico. Ansiosi di fare ritrovare la speranza originaria. Quella di cui il poeta Jiménez scrisse: «Ora è vero. /Ma è stato così falso/ che ancora oggi sembra impossibile». Versi che Giussani in chiusura di quel libro commentava: «Quando uno intuisce il fatto cristiano come vero, gli occorre ancora il coraggio di risentirlo possibile». «Ha combattuto per la piena incidenza della fede nella realtà. Senza la quale il cristianesimo sarebbe un sogno». «Occorrono uomini che, come ha detto il Papa, rendano Dio credibile» |
Postato da: giacabi a 12:30 |
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giussani
Don Giussani
filmato:IL RISCHIO DI DON GIUS. Servizio di Enrico Castelli trasmesso nella rubrica Tv7 a cura del TG1/Rai
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"Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la
bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi
l’opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di
opprimente da vivere. Don Giussani s’impegnò allora a
ridestare nei giovani l’amore verso Cristo "Via, Verità e Vita",
ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei desideri
più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto
della nostra umanità, ma attraverso di essa."
da:DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI AL PELLEGRINAGGIO PROMOSSO DALLA FRATERNITÀ DI COMUNIONE E LIBERAZIONE |
Postato da: giacabi a 08:58 |
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benedettoxvi, giussani
La capacità di fidarsi
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La dimostrazione per una certezza morale è
un complesso di indizi il cui unico senso adeguato, il cui unico motivo
adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quella certezza.
Si chiama non solo certezza morale, ma anche certezza esistenziale, perché è legata al momento in cui tu leggi il fenomeno, cioè intuisci l'insieme dei segni. Per esempio. Io sono tranquillo che chi ho davanti in questo momento non mi vuole ammazzare; e neppure dopo questa mia dichiarazione questa persona mi vuole ammazzare, neanche per il gusto di dimostrare che ho sbagliato. È un comportamento, è una situazione leggendo nella quale pervengo a questa certezza. Ma non potrei affermare tale certezza per un tempo futuro, cambiati i connotati delle circostanze! Due rilievi importanti: Il primo: Io sarò tanto più abilitato ad aver certezza su di te, quanto più sto attento alla tua vita, cioè condivido la tua vita. In questa misura i segni si moltiplicano. Per esempio, nel Vangelo chi ha potuto capire che di quell'uomo bisognava aver fiducia? Non la folla che andava a farsi guarire, ma chi gli andò dietro e condivise la sua vita. Convivenza e condivisione! Il secondo: inversamente, quanto più uno è potentemente uomo, tanto più è capace da pochi indizi di raggiungere certezze sull'altro. Questo è il genio dell'umano, è il genio capace di leggere la verità del comportamento, del modo di vivere dell'uomo. Quanto più uno è potente come umanità tanto più ha la capacità di percepire con certezza. "Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio", dice il proverbio, ed è una saggezza abbastanza superficiale, perché la capacità di fidarsi è propria dell'uomo forte e sicuro. L'uomo insicuro non si fida neanche di sua madre. Quanto più uno è veramente uomo tanto più è capace di fidarsi, perché intuisce i motivi adeguati per credere in un altro. A chi ha il "bernoccolo" per una certa materia scolastica, basta un cenno per intuire la soluzione del problema, mentre tutti gli altri devono faticare ogni passaggio. Avere il "bernoccolo" di una cosa è come avere con essa una affinità. Il "bernoccolo" dell'umano vuol dire avere molta umanità in sé; e allora sì che scopro fino a che punto posso fidarmi della tua umanità. È come se l'uomo facesse un paragone veloce con se stesso, con la propria "esperienza elementare", con il proprio "cuore" e dicesse: fino a qui corrisponde, e perciò è vero, e mi posso fidare.
don Giussani da:Il senso religioso - Rizzoli a P.
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Postato da: giacabi a 18:25 |
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fede, giussani
La realtà cristiana
è il mistero di Dio entrato nel mondo
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Il cristianesimo non nasce come frutto di una nostra cultura o come scoperta della nostra intelligenza: il cristianesimo non si comunica al mondo come frutto della modernità o della efficacia di nostre iniziative. II cristianesimo nasce e si diffonde nel mondo per la presenza della «potenza di Dio». «Deus in nomine tuo salvum me fac.»2
Questa potenza di Dio si rivela in fatti, avvenimenti, che
costituiscono una realtà nuova dentro il mondo, una realtà viva, in
movimento, e quindi una storia eccezionale e imprevedibile dentro la
storia degli uomini e delle cose.
La realtà cristiana è il mistero di Dio che e entrato nel mondo come una storia umana. E solo la potenza di Dio che dovunque inizia, diffonde, conduce avanti il cristianesimo, negli individui e nelle società.
Don Giussani da: Appunti di metodo cristiano
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Postato da: giacabi a 19:57 |
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cristianesimo, giussani
Fede e razionalità
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“La fede compie, salva la ragione. La compie, perché la ragione aspira a qualcosa che non riesce ad afferrare, a spiegarsi. La fede salva la razionalità, che ne è come la grande premessa. La razionalità è una premessa alla fede, è come il campo immediato in cui entra in tensione l'avvenimento di Cristo. La razionalità, infatti, noi l'abbiamo sempre definita come quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé; ma prende coscienza di sé secondo la totalità dei suoi fattori. Ora, fattore della realtà è anche quel "punto" che noi chiamiamo "di fuga", quel "punto di fuga", quel punto in cui la realtà diventa segno di altro e per cui la conoscenza di qualsiasi cosa segnala l'insopprimibile esigenza di qualcosa d'altro oltre i fattori razionalmente enucleabili e dimostrabili. La ratio, la ragione, non decifra il Mistero, ma rivela il segno della Sua presenza in ogni esperienza umana. «Sotto
l'azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né
sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / "più in là!"», diceva Montale in una poesia che i nostri ragazzi hanno spesso studiato. Il grande poeta norvegese Pär Lagerkvist, in una poesia della maturità, sinteticamente esprime una percezione del mondo che contiene un estraneo grido; c'è un grido dentro le cose, e non c'è nessuno che oda questo grido: «...Non c'è nessuno che ode la voce / risonante nelle tenebre; ma perché la voce esiste?». È incomprensibile, inspiegabile; ma "perché la voce esiste?". Nessuno riesce a udirla e a decifrarla. Perché esiste? È al di là delle nostre capacità. Ognuno
di noi, in ogni sua esperienza cosciente, auto-cosciente, ne percepisce
la presenza, come "punto di fuga" di ogni perimetro di propria
esperienza. Perciò la fede, asseverando
la presenza di questo Mistero attivo tra gli elementi decifrabili dalla
ragione, completa la razionalità dello sguardo, intesa come singola
esperienza o concezione del tutto».
Don Giussani da: Avvenire 29 ottobre 2004
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Postato da: giacabi a 19:49 |
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fede, ragione, giussani
L‘atteggiamento morale ***
Riconoscere Cristo richiede un certo atteggiamento, giusto, morale; ma questo atteggiamento morale è lo stesso che mi permette di avere un rapporto giusto con tutto.
Allora, entriamo nel merito di che cosa sia questo atteggiamento giusto. Lo dice lì: è l’atteggiamento del bambino. A un certo punto spiega che cos’è questo atteggiamento, nell’assemblea che segue, e dice: il bambino è «apertura, curiosità e adesione». Quindi, l’atteggiamento morale, avere un atteggiamento morale di fronte alla realtà, che è l’atteggiamento che ti permette poi di riconoscere Cristo, vuole dire avere davanti alla realtà una apertura, una curiosità e una adesione. In una parola mi sembra che si potrebbe dire: non avere preconcetti, cioè non essere irrazionali, non essere dominati dall’irrazionalità del preconcetto.
Don Giussani da: Tracce di Dicembre 07
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Postato da: giacabi a 16:08 |
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reale, giussani
Postato da: giacabi a 22:01 |
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giussani, senso religioso
La tenerezza
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La tenerezza è la sensibilità verso la gioia dell'altro, una sensibilità tesa ad augurare ed affermare la gioia dell'altro.
Don Giussani
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Postato da: giacabi a 20:22 |
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giussani
La Goccia
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Fryderyk Chopin
Preludes. op.28, n.15
Avevo
sentito decine e decine di volte questo pezzo di Chopin con il mio
papà, che amava sempre sentire musica tutte le mezz' ore che era a casa.
Questo pezzo piaceva molto a mio padre ed anche a me è incominciato a
piacere: man mano che diventavo grande - nove, dieci anni - è
incominciato a piacere. Mi piaceva molto la melodia di primo piano,
perchè è facile ad intendersi ed è molto piacevole: il primo sentore del
pezzo impone, infatti, la suggestività della musica di primo piano.
Ma
dopo averlo sentito decine e decine di volte - era ancora prima di
entrare in seminario (mi mancavano ancora alcune settimane ad entrare,
perchè avevo deciso: dal giugno all'ottobre avevo deciso) - successe
che, mentre ero li seduto, sento che mio papà attacca ancora questo
pezzo. Improvvisamente ho capito: ho capito che non avevo capito niente.
Ho capito che il tema del pezzo non era la musica di primo piano, la
melodia immediata, tenera e suggestiva, di primo piano; non era
l'audizione istintiva del pezzo che faceva emergere la verità del pezzo.
La
verità di quel pezzo era una cosa assolutamente monotona, tanto
monotona è una nota sola che si ripete continuamente, con qualche
leggera variazione, dal principio alla fine. Ma quando uno si accorge di
questa nota, è come se il resto - e così deve essere - passasse, non in
seconda linea, ma ai margini, diventando come la cornice di un quadro.
Nel quadro c'è questa nota, il quadro è fatto solo di questa nota, che diventa come una fissazione, e così, dal principio alla fine, si è come percossi continuamente da questa fissazione.
E io ho capito, senza poterlo pronunciare in discorso, ho intuito allora di che si trattava. Ho detto: "Così
è la vita! Questo pezzo è bellissimo perchè è il simbolo della vita".
Nella vita l'uomo è percosso dalle cose che lo inteneriscono più
istintivamente, che istintivamente gli piacciono, gli sono di comodo, di
gusto...Insomma, domina l'istintivo, l'immediato, il facile, il
travolgente.
Invece
la vita è una cosa che sta al di là della musica di primo piano: è una
nota sola dal principio alla fine, da quando si è fanciulli a quando si è
vecchi.
Una
nota sola. Quando ci si accorge di questa nota non la si perde più, non
si può più perderla, resta una fissazione. Ma è una fissazione che
rende saggi, è la fissazione che fa il sapiente, è la fissazione che fa
l'intelligente, è la fissazione che fa l'uomo: è il desiderio della felicità. Quella è la nota che dal principio alla fine domina e decide del significato di tutto il brano di Chopin; questa è la nota che decide dal principio alla fine cos'è la vita dell'uomo: è la sete di felicità. Qualunque
cosa ti piaccia, qualunque cosa ti attiri, qualunque cosa desideri, al
momento ti fa lieto, ma dopo passa. Ma c'è una nota che rimane intatta,
pur con qualche leggera mutazione; dal principio alla fine rimane
intatta nella sua profondità e nella sua semplicità assoluta, e - dicevo
prima - nella sua univocità domina la vita: la sete di felicità.
Tutti
gli artisti hanno, in qualche loro pezzo più bello degli altri, il
genio di ricomporre e ripetere questa monotonia, che è più bella di
qualsiasi variazione.
A
un certo punto, se si segue la nota come fissazione, è come se non si
riuscisse più a fiatare, perchè si è come oberati, diventa un peso
questa nota, tanto che a un certo punto la nota si ritrae; in uno degli
ultimi momenti, la nota si ritrae e la musica di primo piano sembra
averla vinta. Come dire: "Finalmente ci siamo! Finalmente siamo
liberi!". E vengono scandite due, tre, quattro note, in fondo. Ma uno ha
appena finito di pensare: "Siamo liberi da questa nota", che quella riprende e finisce il pezzo. La
sete di felicità, il destino di felicità si può per breve tempo
obliterare, dimenticare, ma ritorna, come urgenza senza dalla quale
l'uomo non può vivere: inizia e finisce il breve brano della nostra
vita.
Così abbiamo fatto risentire questo brano di Chopin perchè quella
nota sia riconosciuta da voi in voi stessi: perchè l'io è un brano di
musica fatto di quella nota, che ha a tema quella nota, anche se le cose
che fanno impressione sono quelle più superficiali: il piacere
immediato, il gusto immediato, la riuscita immediata, l'impressione
immediata, la reazione, l'istintivo...Quella nota distrugge
continuamente l'istintivo e impedisce che ci si adagi e ci si fermi;
impedisce che ti fermi, ti arresti, perchè l'istintivo impietrisce:
l'istintivo dell'amore, l'istintivo della bellezza, l'istintivo del
gusto del lavoro, l'istintivo della riuscita ti fossilizza, ti
impietrisce. E' questa nota che sbriciola queste pietre e muove tutta la
realtà del tempo della nostra vita, la muove come l'acqua del fiume
muove i sassi e come il mare muove la sabbia.
Cristo
è la risposta alla sete di felicità, perchè è il Mistero di Dio che si è
fatto uomo per farci capire; si è fatto uomo per mangiare insieme,
mangiare e bere insieme, camminare insieme. Parlava come parlava
qualsiasi altro, solo che c'era dentro qualcosa, c'era dentro una nota
in quell'uomo...."Nessuno ha mai parlato come quest'uomo". Finchè non ne
poterono più e lo assassinarono. Ma lui risorse...e la nota finisce il
pezzo.
don Giussani
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Postato da: giacabi a 22:50 |
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giussani
Il cristianesimo:
una passione per l'uomo
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"Ma tutta la vita della società è per la persona, per me, perché io cammini verso il mio destino. La società è un destino effimero nel tempo della storia, ma io sono rapporto con l'infinito, con l'eterno, col tutto. Si chiama persona,
una grande parola della mia tradizione; non l'uomo definito
astrattamente, alla Marx o alla Feuerbach, ma l'uomo nel quale pulsa il
cuore fatto dalla madre. Io credo che tutta la mia
emozione e commozione per la mia tradizione cristiana sia dovuta a
questa scoperta che mi ha fatto fare dell'uomo, del valore del singolo
nel quale sta la radice e il fondamento di una pace sociale, di una pace
fra tutti.
Mi
permettano un ricordo: la prima volta, venticinque anni fa, che sono
andato nell'America del Sud sono arrivato con una grossa nave; mille
chilometri dentro il Rio delle Amazzoni in quella regione
che si chiama Macapà e che è tutta fatta di foreste impenetrabili; non
ci sono strade, bisogna andare sempre sulla barca oppure attraversare
paludi immense. Allora c'erano su un territorio così grande settantamila
persone circa, ma moltissimi di questi si chiamavano "Siringheros",
perché vivevano nella foresta vergine tirando fuori la gomma dall'albero
della gomma. Vivevano
mesi e mesi da soli, in pericolo di morte continuo ed io non ho mai
visto sorridere un Caboclo - si chiamano, infatti, anche Cabocli -, non
ho mai visto sorridere nessuno.
C'è
un gruppo di sacerdoti miei amici e si dividono il territorio, così che
per un tempo dai venti ai quaranta giorni ognuno percorre un pezzo del
territorio per andare a trovare anche il Siringhero più lontano. Un
pomeriggio uno doveva partire per questo terribile giro su cui sempre
incombe il pericolo della morte e mi disse: «Vieni con me» e io
spontaneamente ho detto: «Vengo». Arrivati sull'imbrunire all'inizio
della palude egli si è messo delle calosce, si è calzato degli stivali
alti e mi ha detto sorridendo: «Adesso tu fermati e torna indietro» e
io mi sono fermato e per tutta la mia vita ricorderò quella sera quando
il sole cade in dieci minuti sull'equatore, in dieci minuti dal sole
pieno si passa all'oscurità e ho
visto quell'uomo alto, grande che si allontanava e, ogni tanto, nella
semioscurità, si voltava e mi salutava ridendo. E io ero lì, impalato, a
guardarlo mentre dicevo a me stesso: «Quest'uomo rischia la vita per
andare a trovare un solo altro uomo che forse mai più rivedrà!». Rischiava
la vita per un uomo. Capii in quell'istante che cos'è il cristianesimo:
una passione per l'uomo, un amore all'uomo. Non all'uomo dei filosofi
liberal-marxisti, prodotto della loro testa, ma all'uomo che sei tu, che
sono io.
Luigi Giussani da: Una chiarezza di fede di fronte al Buddismo migliore1987
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Postato da: giacabi a 16:49 |
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cristianesimo, giussani
L’istintività
mezzo per arrivare a riconoscere Cristo
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1) L’istintività.
E’ ciò che mi trovo addosso, ciò che mi determina, mi attrae, mi
stimola. Proprio da questo l’uomo è introdotto al servizio della realtà:
da un complesso di dati da cui non può prescindere”.
Perciò per don Giussani l’istintività
non è un ostacolo, qualcosa da buttare via, ma un mezzo, una cosa di
cui servirsi, da cui non si può prescindere perché è proprio da questa
che l’uomo è introdotto al servizio della realtà. La
prima reazione che ci viene è strapparci di dosso l’istintività. Come
questa mattina il nostro bisogno lo vorremmo buttare via perché lo
consideriamo una debolezza. Adesso vogliamo buttare via l’istintività perché ci spinge a prendere ciò che abbiamo davanti in modo diverso.
Don Giussani davanti a una cosa così dice: “Ma come è umana la mia umanità!”. Invece di buttarla via, la questione che l’istintività deve far sorgere è: perché mi è data questa umanità? Se
Dio ha messo lì tutto questo complesso di dati, perché sono lì? È per
un bene. È la positività con cui don Giussani guarda qualsiasi dato del
reale, qualsiasi cosa data da un Altro, è questo sguardo di simpatia per
l’umano, per tutto l’umano che c’è in noi.
“Siccome questo è un momento drammatico sempre - continua la nostra amica - io
vorrei che non ci fosse neppure qualche cosa che mi attira, che passa
davanti e mi colpisce, non vorrei sentire così tanto il fascino delle
cose, dei volti, per non rischiare di sbagliare”. Sembra umanissimo: uno vuole amare e non
vuole
sbagliare, e allora per non sbagliare la prima cosa che ci viene è non
volere il fascino delle cose, dei volti, si vorrebbe cancellare la
bellezza che mi attira.
Prima
abbiamo fatto fuori l’istintività e adesso facciamo fuori la bellezza,
sempre per lo stesso motivo:strapparci il dramma del vivere!
Guardate
come don Giussani svela la verità di ciò che c’è dentro, che c’è dietro
questo: se uno vuole bene a una persona, d’impeto accetta di
sacrificarsi per lei, questo è naturale. Eppure per la resistenza che è
in noi rifuggiamo dal sacrificio.
La resistenza non è resistenza al sacrificio, ma è una resistenza alla bellezza,
è una resistenza al vero. Non volere il vero, questa è la presunzione sterminata del peccato originale: si chiama menzogna. La
resistenza al sacrificio è per un attaccamento a una menzogna, per il
cedimento a una menzogna, è perché siamo mentitori. La nostra è una
resistenza alla bellezza, alla verità. Noi
cominciamo a difenderci dalla bellezza perché la bellezza ci mette in moto, ci richiama a qualcos’altro.
Giussani
diceva sempre di non censurare mai la nostra umanità, anzi dice che è
proprio questa che ci porta al riconoscimento di Cristo.
È
vero questo perché io sono colpito se c’è un luogo che non ha paura
della mia umanità. Lui ci ama e non ha paura della nostra umanità. Don Giussani dice di guardare con simpatia la nostra umanità perché questo, come abbiamo visto stamattina, è indispensabile per il riconoscimento di Cristo. Abbiamo bisogno di tutte e due le cose: della nostra umanità e del fascino di una bellezza che ci attira.
Se uno non sente il fascino delle cose e dei volti vuol dire che non sentirà neanche il fascino di Cristo. È
importantissimo capire bene queste cose perché a volte davanti alla
paura dello sbaglio la tentazione è far fuori la propria umanità. Ma se io faccio fuori la mia umanità divento un sasso. Se io taglio, stronco la mia umanità come posso commuovermi davanti a Cristo, come posso essere trascinato da Cristo?
Per questo non basta sostituire l’umanità con i principi, come diceva Eliot: “I nostri principi non ci rendono veramente comprensibile quel tutto che governa il nostro attaccamento alle cose più di quanto un frammento di brandello umano riesca a comunicarci quella viva bellezza della carne che tanto amiamo”. “I sensi che Dio ha creato – dice ancora Paul Claudel – sono nostri servitori che percorrono l’intero mondo fino a quando non trovano la bellezza”.
Tutto
questo ci è dato per trovare la bellezza, per riconoscerla. Io non
posso prescindere dalla mia umanità, dalla mia istintività perché è
quello che mi determina, mi attrae, mi stimola, mi introduce al servizio della realtà.
Occorre adesso domandarsi perché mi è data.
“2) Tale attrattiva, stimolo, impulso contingente hanno un fine. Perciò il secondo fattore è la coscienza del fine proprio a questo fascio di istintività. La natura umana infatti ha come fattore del suo dinamismo non solo la sua urgenza ma anche la consapevolezza dello scopo, di quell’urgenza stessa”.
Io
che ho questa istintività non sono soltanto istintività, ma ho anche la
consapevolezza dello scopo per cui ce l’ho, e so che questa energia,
questo impeto è fatto per un fine. L’unica
cosa che non posso fare è bloccare l’impeto che mi rimanda oltre per
evitare il sacrificio che comporta, il dramma in cui mi mette.
Invece tante volte quello che succede è che, come dice ancora la nostra amica: “Tante volte io riduco il desiderio a voglia e Cristo a regola”. Il desiderio ridotto a voglia, istinto, reazione. Ma
se il mio desiderio è soltanto voglia senza uno scopo, se questa
istintività – che per il fatto di essere all’interno del mio io ha il
respiro dell’infinito – è ridotta a voglia e Cristo si riduce a regola, è
normale che uno ha paura. Resta soltanto il moralismo: bloccare l’istintività per evitare di andare contro la regola!
“L’uomo,
a differenza degli animali e delle altre cose, è consapevole del
rapporto che passa tra il suo emergente istinto e il tutto, cioè
l’ordine delle cose”.
Cioè l’istinto non può essere staccato dalla totalità dell’io, con tutto il bisogno infinito che ha dentro, perciò non c’è soltanto voglia. Io sono questa istintività che ha la coscienza del fine, che ha tutta l’apertura dell’infinito. Nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito.
Qual è allora il fine di questa istintività, di questa urgenza?
“L’ordinare l’istinto allo scopo (cioè al Tutto) è il fondamentale dono di sé al tutto: è il cosiddetto dovere, la cui essenza quindi non può essere che amore, cioè consegna di sé”.
Perciò
questa istintività, urgenza, energia, questo complesso di dati cerca la
vita per darsi, per ordinarlo al tutto, perché è nel darsi al tutto che
l’uomo si ritrova, come l’esperienza amorosa suggerisce. “L’amore
– dice Papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – è estasi. Ma
estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino,
come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua
liberazione nel dono di sé”.
La
questione è che la mia energia, tutto il mio desiderio di pienezza con
la mia istintività trova compimento e questo soltanto, questa è la
proposta, soltanto trova compimento nel darsi al tutto, nel darsi all’infinito. Siccome non c’è niente di nostro al mondo, il desiderio di possesso, la volontà di possesso diventa lo spunto per incominciare il lungo cammino al tutto.
È questo che noi non siamo in grado tante volte di fare e perciò o scivoliamo nell’istintività o stronchiamo la nostra umanità e tante volte
come ci sembra misterioso questo cammino, questo momento in cui siamo, nel tentativo di comprenderlo pensiamo che prima c’è il distacco e poi avremo queste cose. Invece no, non prima c’è il distacco e poi c’è la verità, ma c’è la verità e quindi il distacco.
Questa è la pretesa di Cristo: che è soltanto perché c’è la verità, perché c’è la verità che compie, dove l’uomo può vedere compiuta tutta la sua vita, tutta la sua affezione, che può rapportarsi in un modo vero con tutto.
Guardate
cosa racconta un universitario nostro amico della sua reazione davanti a
una proposta indecente: “Era bella, stavo per dirle di sì, volevo dirle
di sì, ma quando ho iniziato a risponderle mi sonovenute le lacrime
agli occhi; mi sono fermato un attimo e ho pensato alla giornata d’inizio, al fatto di darsi
alla compagnia dei miei amici, e così le ho detto di no perché le
volevo bene ed ero convinto che era la cosa più istintiva senza ragione
che potessimo fare”.
Questo
non succede soltanto con il rapporto con una persona, succede con il
rapporto con tutto, con il rapporto con le cose. Mi dicevano un gruppo
di amici: “Davanti al tentativo di vivere il potere o gli interessi come
possiamo vivere in modo da non soccombere al potere o agli interessi?”.
Sapete cosa gli horisposto? Ho parlato della verginità.
È soltanto se c’è la verità, se c’è Cristo, se c’è qualcosa che compie la vita più di ogni altra cosa che uno può vivere in un rapporto di verità con tutto, con l’altro, con gli interessi, con il potere e con le cose.
Avremo
il coraggio qualche volta di fare la verifica di questa proposta di
Cristo? Di verificare fino in fondo se la proposta di vita che Cristo ci
offre come compimento del nostro umano e perciò della nostra affezione è
in grado di rispondere? È soltanto la verità, è soltanto la bellezza di qualcosa che vivo che rende possibile non cedere all’istintività. Non si tratta di stroncare o di censurare, ma di ordinare tutto allo scopo, di avere qualcosa che sia più potente, che abbia un’attrattiva più grande, per cui tutto il mio essere con tutte le mie energie sia calamitato.
Non è umano dare se stessi se non ad una persona.
Il
tutto, in ultima analisi, è l’espressione di una persona: Dio. Perché?
Perché l’unico che corrisponde a tutto il mio desiderio di infinito, a
tutta la mia esigenza di felicità, a cui mi spinge tutta la mia umanità,
è soltanto questo che può ordinare tutto. Al di sopra dell’attività
dell’anima vi è qualcosa di più profondo ed essenziale: è quando questo
istinto profondo è ordinato, è orientato verso Dio, allora tutto il
resto è ordinato. Ma se questo istinto profondo si distoglie da Dio, tutto il resto ne è distolto, che l’uomo se ne accorga o no. Ma Dio, il Mistero, intanto rimane lontano, astratto.
Per questo occorreva l’incarnazione, occorreva, come dice Leopardi, che la Bellezza (con la B maiuscola) si “vestisse di sensibil forma”, diventasse carne; occorreva una presenza affettivamente attraente per attirare tutta la mia energia, tutta la mia affezione, tutto il mio desiderio verso di Lui.
Per questo l’unica speranza è questa: Cristo
ci trae tutto, tanto è bello. Senza di questo possiamo sbagliare finché
vogliamo o possiamo censurare o possiamo stroncare, ma non risolviamo
niente perché né l’istintività
né il moralismo possono risolvere il problema della persona umana. Il
problema di qualcosa che riesca veramente a rispondere in modo adeguato a
tutte le esigenze della vita. Per questo senza la bellezza di Cristo presente che ci “trae tutto” non c’è possibilità di compimento dell’umano e diventiamo persone affettivamente compiute.
“La vita dell’uomo - diceva S. Tommaso - consiste nell’affetto che principalmente la sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. Dov’è la vera soddisfazione lì è la risposta al problema affettivo
dell’uomo, perciò
è soltanto un cristianesimo come bellezza, come attrattiva l’unico in
grado di rispondere alla sfida dell’uomo, l’unico in grado di fare
fronte, di affrontare questa esigenza di totalitàche il cuore ha. Per questo è l’unico in grado di vincere la lontananza se il cuore cede alla sua attrattiva.
Senza
Cristo non c’è pienezza e perciò non c’è verginità che consenta un
rapporto vero con tutto, con le cose, con le persone, con la moglie, con
i figli, con quelli che lavorano con te, senza che il potere decida
tutto. Per questo è inutile tutto il moralismo perché prima o poi
soccombiamo.
Per questo il Papa usa in tante occasioni la parola “attrae”: il Dio incarnato ci attrae. E ripete in continuazione il verbo attrarre, il verbo attirare. S. Agostino dice, citando Virgilio: “Ciascuno è attratto dal suo piacere”, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto. A maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo.
La
vita è darsi, amare Cristo, trovare in Lui soddisfazione, e per questo
se ridotto soltanto a regola e non questa presenza affettivamente
attraente è impossibile che compia affettivamente l’uomo.
È
qui dove si vede la portata della promessa di Cristo, perché quando uno
ha provato che niente soddisfa incomincia a capire che forse conviene
aderire a Lui. Quando uno ha sentito parlare di una promessa di infinito e di felicità che si accende con l’innamoramento e della grave incapacità dell’altro di soddisfare questa promessa, si rende conto del fatto che da questa ferita scaturisce la domanda di Cristo.
Come
scriveva la nostra amica: “Queste cose mi hanno molto toccato e non
smetto di ripensarci quanto sono vere e quanto brucia la ferita di una
promessa insoddisfatta. Ognuno di noi può pensare a mille situazioni,
a mille conferme di questa grande verità, ma ti vorrei chiedere come si
fa a tenere aperta questa ferita? Mi pare umanamente insopportabile
sostenere una posizione così. Una promessa ha bisogno di essere compiuta prima o poi, e se il poi è troppo lontano nel tempo l’attesa si fa difficile. Io personalmente cado regolarmente in questi due opposti: o
mi anestetizzo cercando soddisfazione in mille attività, oppure affiora
il cinismo, il dubbio che una vera umanità diversa non sia possibile”.
Senza
affrontare questo è impossibile che uno prima o poi non si domandi: ma
Cristo la promessa è in grado di compierla? È qui che siamo di nuovo
chiamati a un salto in questo rapporto con Cristo, è qui dove si vede la
promessa: Gesù si presenta come il centro dell’affettività e della libertà dell’uomo e ponendo se stesso al cuore delle stesse esigenze umane si colloca con pieno diritto come la loro radice vera.
In
tal modo Gesù rivela la portata della promessa: Gesù ha la pretesa
perché è soltanto seguendo Lui che l’uomo può trovare veramente la
risposta.
Come dice S. Gregorio di Nissa: “Solo
il Bene eterno (con la B maiuscola) è veramente dolce e desiderabile e
amabile. Il suo godimento diviene sempre di più l’impulso a un desiderio
più grande”.
Il
desiderio ogni volta che è saziato produce un nuovo desiderio di una
realtà superiore. L’anima si protende in un desiderio sempre più forte. Soltanto chi la verifica vede che non deve stroncare il suo desiderio ma che miracolosamente appare quello che dicevamo ieri: la conversione del desiderio.
Uno
incomincia a desiderare di sorprendere incominciando a desiderare ciò
che lo compie, incomincia a desiderare ogni volta di più quel bene,
quella presenza in cui il cuore trova quella soddisfazione non per
appagarlo, ma per desiderarlo sempre di più. Ma è una sfida così sconvolgente, così drammatica che
soltanto se siamo in grado di accettare questa sfida possiamo vederne il compimento.
Concludo con quello che dice Giussani alla fine di questo capitolo bellissimo:
“Gesù
Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano,
all’umana libertà o per eliminare l’umana prova. Egli è venuto nel mondo
per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua
struttura fondamentale e alla sua situazione reale… Gesù Cristo è venuto
a richiamare l’uomo alla
religiosità vera, senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione”.
L’amore,
la politica, il lavoro, tutto diventa confuso se non si vive bene
questa religiosità. Per questo la vita è un cammino, è una tensione. La concezione della vita di Gesù Cristo è essenzialmente una tensione, una lotta, un camminare. “Bestiali come sempre - dice Eliot - carnali, egoisti come sempre, interessati e
ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce; spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi,tornando, eppure mai seguendo un’altra via”.
don Carron da: Esercizi della fraternità 2007
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Postato da: giacabi a 22:04 |
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giussani, carron, istintivitÃ
La compagnia tra di noi
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«La compagnia tra di noi si lascia identificare prima di tutto per un tipo di affezione nuova che nasce tra le persone: in essa domina su qualsiasi altro sentimento la stima dell'altro, la disponibilità ad aiutare, un'amorosità disposta a soccorrere l'altro, a condividerne sempre il bisogno, nella percezione fisica del tempo e dello spazio come via al destino. Non è niente di meno di questo, la compagnia, cioè la dimensione del cristiano».
don Giussani da: tracce dic.93
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Postato da: giacabi a 20:31 |
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amicizia, giussani
canzoni
Si faceva chiamare Gesù
***
« Mi hanno detto che, (don Giussani) dopo aver domandato di ricevere l’ultima assoluzione, guardando chi era attorno al suo letto, ha chiesto che gli cantassero Noi non sappiamo chi era. Mi hanno detto che ha chiesto più volte di cantargli quel canto anche all’infermiere che lo ha assistito negli ultimi giorni di vita. Come mi ha commosso riconoscere quella gratuita prossimità, quella gratuita predilezione, anche in quest’ultima sua domanda! Non era certamente il canto metafisicamente, culturalmente più profondo. Era semplicemente il canto in cui il nome più caro (la cosa più cara, per riprendere le parole dello starets russo Giovanni) veniva più volte ripetuto: Gesù. «Si faceva chiamare Gesù».
don Tantardini da: www.30giorni.it
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NOI NON SAPPIAMO CHI ERA
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Noi non sappiamo chi era,
noi non sappiamo chi fu,
ma si faceva chiamare Gesù.
Pietro lo incontrò sulla riva del mare,
Paolo lo incontrò sulla via di Damasco.
Vieni, fratello: ci sarà un posto,
posto anche per te.
Maria lo incontrò sulla pubblica strada,
Disma lo incontrò in cima alla croce.
Vieni, fratello: ci sarà un posto,
posto anche per te.
Noi lo incontrammo all’ultima ora,
io l’ho incontrato all’ultima ora.
Vieni, fratello: ci sarà un posto,
posto anche per te.
Ora sappiamo chi era,
ora sappiamo chi fu:
era colui che cercavi,
si faceva chiamare Gesù.
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Postato da: giacabi a 08:00 |
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canti, gesù, giussani
Grazie a Benedetto XVI per la sua testimonianza di fede e di vita
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di: Magdi Allam
Cari amici,
quando questa mattina verso la fine del suo discorso all’Angelus domenicale il Papa si è rivolto ai 200 mila fedeli che gremivano Piazza San Pietro e via della Conciliazione a Roma con la medesima espressione che mi è abituale da lunghi anni, “cari amici”, mi si è aperto il cuore e si è consolidato in me il convincimento della profonda sintonia spirituale con l’uomo che io oggi considero l’unico vero faro e l’autentico paladino dei valori assoluti, universali e trascendenti che sostanziano l’essenza della nostra umanità, così come sono convinto che rappresenti l’estremo baluardo di difesa della civiltà occidentale dal cancro del relativismo cognitivo, etico, culturale e religioso, nonché di resistenza dall’aggressione del nichilismo dell’estremismo islamico globalizzato che ha messo solide radici all’interno stesso dell’Occidente. Ugualmente ho sentito che Benedetto XVI mi era sempre più vicino quando ha usato, sempre nel finale dell’Angelus, un’altra espressione che mi è abituale, “andiamo avanti”, e quando ha indicato nella “verità e libertà” il percorso da intraprendere. Ebbene il quel “cari amici”, “andiamo avanti” e “verità e libertà”, c’è la sintesi di un uomo che a fronte dell’acutezza intellettuale e profondità scientifica che contraddistinguono il suo eccezionale profilo teologico e accademico, è capace di una rara semplicità e disponibilità nel rapporto con l’altro, è animato da una solida volontà di affrontare con fermezza e vincere con determinazione le sfide imposte da un’umanità lacerata al suo interno e in conflitto con se stessa, è sorretto da una incrollabile fede nella verità che è tale sul piano terreno e trascendentale, nella sacralità della vita e nella libertà che s’identifica con la piena dignità della persona. Che lezione di vita e di fede ci ha dato quando, sfiorando appena nella seconda metà dell’Angelus l’incresciosa vicenda che l’ha indotto, con una decisione fondata e saggia, a rinunciare “mio malgrado” alla visita all’Università La Sapienza, l’accademico di lunga data Joseph Ratzinger si è limitato ad esortare gli studenti: “Da professore vi dico, rispettate le opinioni altrui”. Che un Papa invochi il rispetto, con il sottinteso è che è venuto meno il rispetto nei suoi confronti, significa che in Italia è in crisi il fondamento della civiltà occidentale e il pilastro dei diritti dell’uomo: la libertà d’espressione. E giustamente il Santo Padre ci sollecita a focalizzare l’attenzione proprio sulla violazione del pilastro della civile convivenza, senza cui si precipita inevitabilmente nelle barbarie. Il discorso del Papa ci chiarisce che chi lo teme, chi vorrebbe tacitarlo e chi gli ha impedito di parlare alla Sapienza, ha in realtà paura non delle supposte posizioni dogmatiche o peggio ancora oscurantiste di Benedetto XVI, bensì del confronto razionale. Questo Papa è immensamente grande perché è in grado di sfidare e di vincere il confronto con i laicisti e i relativisti sul piano prettamente razionale. Ciò che i suoi nemici temono non è la sua solida fede che loro rigettano aprioristicamente, ma la forza della sua argomentazione razionale a cui non dovrebbero sottrarsi. Se lo fanno, e lo fanno, vuol dire che non sono solo poveri di spirito ma sono innanzitutto degli impostori che hanno sostituito l’ideologia al posto della scienza e della ragione. Il Santo Padre ha vinto alla grande la battaglia impostagli dalla minoranza di docenti accecati dal fanatismo relativista e positivista e di un pugno di studenti inebriati dalla violenza ideologica vetero-comunista, ma la guerra è ancora lunga. La sfida che abbiamo di fronte sarà definitivamente vinta solo quando riusciremo a riscattare la certezza della verità dalla piaga del relativismo; a radicare in noi il sistema dei valori che corrisponde al bene comune affrancandoci dalla deriva etica; a compiere la buona azione che realizza il legittimo interesse della collettività bonificando il Tempio della politica dagli spregiudicati mercanti che l’hanno profanato per perseguire i propri egoistici interessi danneggiando l’insieme della collettività. Ecco perché ho deciso di mantenere vivo e aperto a nuove adesioni l’Appello “Io sto con il Papa”. Nella consapevolezza che non è una vicenda che si conclude con il rammarico tardivo e ipocrita dei politici e dei docenti che non solo non hanno fatto nulla e non faranno nulla per sanzionare l’atteggiamento intollerante dei docenti e violento degli studenti della Sapienza, ma sono direttamente responsabili del marciume ideologico e del degrado scientifico in cui sono sprofondati le università e tutto il sistema dell’istruzione in Italia. Insieme al Papa diciamo “andiamo avanti” sulla via della verità, della sacralità della vita e della libertà. Vi invito pertanto a continuare ad aderire e a far aderire all’Appello “Io sto con il Papa” tutti coloro che condividono i nostri valori e sentono la necessità di impegnarsi eticamente per risollevare le sorti del nostro Paese, al fine di testimoniare il vostro impegno etico per la verità contro la menzogna, per il bene contro il male, per la buona azione contro la cattiva azione. Lo potrete fare collegandovi al mio sito www.magdiallam.it e cliccando alla voce “Aderisci all’Appello”. Finora l’hanno già fatto oltre 850 persone con motivazioni articolate e approfondite che danno uno spaccato significativo di ciò che è nei cuori e nelle menti degli italiani. Vi invito a leggere queste adesioni e mi auguro che il loro numero cresca sempre di più. Colgo infine l’occasione per chiedervi di proseguire questo nostro dialogo civile, responsabile e libero volto a costruire una comune civiltà dell’uomo, apportando il vostro contributo di riflessione e di proposta all’interno del mio sito. Per farlo è necessario che vi registriate cliccando alla voce “Registrati”. Non posso, prima di congedarmi, non ringraziare il Papa per la sua testimonianza di fede e di vita che ci illumina, ci conforta e ci da speranza. E grazie a voi tutti per il vostro impegno consapevole e risoluto per ergervi a protagonisti di un’Italia e di un mondo migliori. Vi saluto con i miei migliori auguri di successo e di ogni bene. Magdi Allam |
Postato da: giacabi a 18:36 |
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gesù, giussani
La Sua presenza genera un'umanità diversa
***
“Dove
due o tre si riuniranno nel Tuo nome: Ti riconosciamo presente, o
Signore, perdonandoci a vicenda c soccorrendo al bisogno di tutti.
Ascoltiamo la Parola e insieme spezziamo il Pane. (...) Ci scambiamo la
pace che ci hai dato: perché (...) l'umanità sani le divisioni e
costruisca il mondo nuovo". Ora, noi che cosa desideriamo, con l'impegno del movimento, se non che questo si realizzi? Quando
poi cantiamo insieme un Inno come quello di questa mattina", non è
possibile che siamo così totalmente distratti da non provarne
un'emozione grande, perché questa è proprio, fin nel dettaglio, la
descrizione di quello che vorremmo accadesse, che preghiamo accada,
meglio ancora, che supplichiamo si manifesti: là dove due o tre si
riuniscono Ti riconosciamo presente, e la Sua presenza genera un'umanità
diversa.
Non so quale altra pagina possa descrivere un'umanità diversa in modo cosi suggestivo come l'inno di questa mattina: "La Vita ha distrutto la morte... Cristo, splendore di gloria [risorto], illumina il nostro mattino". Questo è il principio e questo è tutto.
"Con
l'anima piena di gioia", allora. riprendendo la vita al mattino, "in
Lui ci scopriamo fratelli. A [ognuno di noi...] Cristo risotto si sveli;
c'incontri e ci chiami per nome": diventi realtà personale quello che e
accaduto: la presenza Sua. che continuamente accade, diventi me stesso,
la mia realtà personale. "Ritorni sul nostro cammino e la Sua Parola
c'infiammi": sia
la Sua presenza ciò che ci infiamma - ciò che infiamma la vita
dell'uomo, infatti, è il movente, il motivo, la ragione del vivere -.
"Di nuovo, nel Pane spezzalo, vedremo il Suo volto risorto": di nuovo,
in certi gesti, come nella santa comunione, è come se toccassimo il Suo
volto risorto. Che
cos'è la vita di un'amicizia come la nostra, se non un'Eucarestia che
continua nel giorno, letteralmente una comunione che continua, che
investe la giornata?
Lì
noi vediamo il Suo volto risorto! Allora, ogni volta che ci raduniamo,
"al nostro raduno concorde un Ospite nuovo s'aggiunga": è una novità
ogni istante il prendere coscienza della Sua presenza che accade, di
questa presenza che accade per tutta la storia. "Confermi la debole fede": non c'è bisogno che siamo diversi per diventare diversi per l'energia del Suo Spirito. Siamo
deboli, ed è questa debolezza che Egli ha già vinto, e la Sua vittoria
sarà manifesta, si manifesterà. "Confermi la debole fede mostrando le
piaghe gloriose", mostrando tutta la storia, la storia in cui Egli si è
incarnato e rivelato e comunicato. "In questa letizia pasquale...": la
letizia è solo l'annuncio che "la Vita ha distrutto la morte, l'Amore ha
lavato il peccato", che "Cristo, splendore di gloria, illumina il
nostro mattino"; la
letizia è qui e basta, non cerchiamola altrove, perché non esiste
radice di letizia, se non qui. "In questa letizia pasquale, rifatti di
nuovo innocenti": nella letizia dell'annuncio di Cristo risorto,
continuamente siamo rifatti innocenti. Ogni volta che prendiamo
coscienza di ciò che Lui è, di questa Presenza che accade continuamente
oramai, siamo investiti da una purità, perché la purità è lì, nella
fede.”
don Giussani da: I primi esercizi della Fraternità di CL - maggio 1982
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Postato da: giacabi a 18:17 |
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chiesa, giussani
LA COMPAGNIA
Questa
compagnia è lo strumento che ti ha fatto sentire te stessa. La tua
felicità è che la vita ha un suo destino ultimo ed è un cammino. La compagnia è l'insieme delle persone con cui tu cammini verso il destino, verso la meta. Se
tu abbandoni questa compagnia, dimentichi il tuo destino, perché in te
si sfoca l'immagine e il desiderio di esso. Senza compagnia, Cristo non
sarebbe più conosciuto da nessuno: Lui, per farsi conoscere da te e da
me, ha creato una compagnia; prima dodici persone, poi settanta, poi centinaia, poi migliaia e centinaia di migliaia. E ci ha raggiunti, ci raggiunge ora. Qui, tra noi, la presenza più imponente e grande, che nessuno può stracciare o diminuire noi tutti potremmo morire ma questa presenza è inesorabilmente imponente -è Cristo.
E
una compagnia lunga duemila anni, una compagnia che durerà fino a
quando tutto il mondo arriverà al suo destino, una compagnia lunga tutta
la via della storia. Le forze dei nemici non prevarranno mai contro questa compagnia. Solo noi possiamo andare contro la compagnia, staccandocene. Ma tutto il mondo intero non ci può togliere la compagnia.
Padre Kolbe nel bunker in cui è morto, solitario in questa coscienza
che ha partecipato agli altri che erano con lui, era profondamente
inserito nella grande compagnia, che l'avrebbe poi esaltato come santo. La compagnia è uno strumento non per sostituirci, ma per sostenerci. La
grazia più grande che avete avuto nella vita è questa compagnia, in cui
avete scoperto parole che non sono solo parole, ma definiscono tutta la
sostanza del vivere. Quando mia madre mi ha detto: «Dio
è grande», ha dato la definizione della sostanza del vivere. E questo
non me lo può strappare più nessuno. Togliere il destino,togliere Cristo, togliere quel che dice la nostra compagnia e togliere la ragionevolezza della vIta.
Voglio leggere un brano scritto dal più grande teologo russo contemporaneo, Aleksandr Men',* massacrato a colpi di accetta per l’ odio politico, alcuni mesi fa; si tratta dell'ultima pagina che ha scritto, ritrovata sul suo tavolo insieme alla premessa alla traduzione in russo de Il senso religioso. Dice, dunque, padre Men': «Il
punto di forza del cristianesimo consiste proprio nel non negar nulla,
ma nell'affermazione, nell'ampiezza, nella pienezza d'orizzonte che
afferma tutto ». Una cosa, per essere vera, deve poter non escludere niente.
Quando viene posto come ideale l'individuo singolo che si sceglie le cose e i rapporti che vuole ed elimina il valore della compagnia come dimensione della persona, si dice una cosa non vera. La
compagnia, infatti, è una dimensione della persona umana. Non può
esserci un «io» senza un «noi»; l'io nasce da un noi. Senza un «tu» l'io
si trova smarrito, inaridisce.
Il
segno della verità è che con essa si afferma tutto, non si è costretti a
negare niente. L'unica posizione della vita che afferma tutto, anche il
particolare più piccolo, anche il sentimento che tu provi quando sei a
letto e non sai come starai il giorno dopo, è quella di Cristo.
Egli diceva: «Anche i capelli del vostro capo sono numerati» (MI IO,
30), e altrove: «Ha un valore eterno anche una parola detta per scherzo»
(cfr. MI 12,36). Può dire cosi solo Cristo. E noi siamo insieme perché riconosciamo che la vita ha un destino e che questo destino si è fatto uomo e si chiama Cristo.
Con
Cristo noi non perdiamo più niente. Anche gli errori non si perdono;
diventano un bene, diventano un dolore, diventano un amore. Per questo la parola che abbraccia tutto quello che Dio è per l'uomo, la parola più grande da usare nella comunità, il segno più incisivo della verità della compagnia è la parola perdono o misericordia.
Perfino il male diventa bene, perfino la morte diventa vita, diventa il passaggio alla vita senza fine.
Dicevo
ai miei primi alunni: «Ragazzi, vi dico che la verità c'è e questa
verità è il destino cui siamo incamminati; o sono impostore io o dovete
seguirmi»; e nessuno mi rispondeva; poi tanti mi hanno seguito. «Che
interesse ho -soggiungevo -a dirvi questo? Uno solo: la passione per la
vostra felicità, come ho passione per la mia felicità; non vi conosco,
ma vi amo come me stesso ». Questa è l'umanità nuova che
attraverso ognuno di noi deve espandersi nel. mondo. Ormai tanta gente,
che ha partecipato a raduni come questo, è in America, in Russia, in
Africa, in Scandinavia. Dobbiamo portare ovunque questa nuova umanità per cui l'uomo ama l'uomo. È menzogna amare se non si ama il destino dell'altro. E
menzogna dire alla tua ragazza: «Ti voglio bene», se non desideri che
si affermi il destino della tua ragazza. Ma se affermi il destino della
tua ragazza, assumi subito verso di lei un atteggiamento di discrezione,
di devozione, di ammirazione, di lasciatemi dire la parola -purità.
Applicate questo anche allo studio, al rapporto con i genitori e con
tutti i vostri compagni: è un'umanità nuova, più pura, è un'umanità più umana.
Intanto
siamo in cammino, siamo sulla barca e remiamo con la grande e potente
Presenza alle spalle, che ci sostiene e non ci permette di fermarci.
Vi
raccomando una cosa sola: non lasciate mai la compagnia; anche se vi
sta sullo stomaco, anche se vi stanca. Non lasciate mai questa compagnia
e seguite chi la guida.
don Giussani :Realtà e giovinezza, ed. SEI
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Postato da: giacabi a 18:18 |
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chiesa, giussani
Preferisco molti che cristiani non sono……
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Postato da: giacabi a 14:37 |
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giussani
L’educazione
***
Al termine del processo educativo che abbiamo tentato di esaminare nelle sue direttive di fondo, l'adolescente
si avvia alla fase matura della gioventù: la famiglia e la scuola
debbono avere ormai svolto l'essenza del loro compito formativo, devono
avere messo il giovane nella condizione di fare oramai il cammino con le
proprie energie. Lentamente, in un processo che solo una genialità assai attenta avrà potuto seguire ed impostare senza ritardi e forzature, l'educatore
si è distaccato sempre più dal discepolo, sollecitandolo sempre più ad
un impegno ed a un giudizio personali; lo ha introdotto nella realtà
totale, dandogli il vivo senso della dipendenza da quella realtà e dal
suo significato ultimo. Ora
tocca al giovane proseguire la ricerca, non scetticamente, ma nella
salda convinzione della positività delle cose e dell'esistenza della
loro spiegazione. Ha forse l'educatore finito qui il suo compito? Il
giovane, cosi capace di affrontare da solo il mondo che lo circonda, si
deve forse isolare, nella convinzione di, non avere più nulla a che fare
con alcun altro? Ovviamente no. E invece l'inizio di un cammino nuovo, e
proprio nella sua novità sta la ragione di un maggiore nesso. Ora
educato ed educatore sono due uomini, sono due fra gli uomini: è il
tempo di quella compagnia matura e forte che lega coloro che vivono una
stessa esperienza del mondo, che incontrano il richiamo dell'essere in
ogni istante del loro cammino; è il tempo in cui si lavora insieme,
fianco a fianco, per un destino che tutti riunisce.
don Giussani Il Rischio educativo
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Postato da: giacabi a 19:14 |
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educazione, giussani
Il genio del cattolicesimo è il Dio che si fa compagnia all'uomo in carne e ossa
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La
risposta è che il Dio dei miracoli, Colui che ha impresso fin
dall'origine la sua immagine nella sua creatura, Colui che ha compiuto
la rivelazione di questa immagine in Cristo ci raggiunge anche oggi
continuamente, ci investe, si rivela a noi di continuo dentro la storia
che ha fatto e va facendo per noi, ci educa sempre.
Perché il
genio del cattolicesimo è il Dio che si fa compagnia all'uomo in carne e
ossa, dentro le contingenze del tempo e dello spazio. «Dentro» nel
senso più potente della parola, più letterale e metafisico, come ci
insegna l'espressione del suo segno nel mondo: la Chiesa. Questo è proprio il genio del cattolicesimo, ed è al polo opposto di molto protestantesimo, il quale, illuminato di striscio dall'avvenimento cristiano, rappresenta il livello estremo dell'impegno umano verso il Divino attraverso la propria interpretazione e la propria forza di volontà, la propria emozione. Ciò che ha scandalizzato i farisei scandalizza gli intellettuali di tutti i tempi: il
Dio incarnato, identificato come presenza nel tempo e nello spazio, e
non come categorie metafisiche. Il mistero di Cristo, dunque, ci
raggiunge attraverso una trama di fatti concreti con cui ci colpisce, ci richiama, ci riprende, ci costruisce. Cristo
sarebbe lontano e perciò sarebbe vittima della nostra interpretazione
se non vivesse nella Chiesa vivente; sarebbe totalmente soggettivato, in
ultima analisi, come contenuto e come metodo, e sarebbe così per l'uomo inconoscibile se non ci si offrisse nel mistero del suo corpo presente nella Chiesa.
Cristo
si fa conoscere, si rende accessibile e dunque ci dà il suo Spirito
nella Chiesa attraverso la Sacra Scrittura, i sacramenti, la successione
apostolica, ma soprattutto il suo Spirito ci percuote e ci invade
attraverso tutta la vita della Chiesa. La
Chiesa è l'universo raggiunto, ricreato e posseduto dal Cristo
attraverso il suo Spirito. Cioè, la Chiesa è l'umanità in quanto resa
vera, unificata dalla presenza di Cristo attraverso quella energia
ri-creativa che è il mistero dello Spirito nella Pentecoste.
Così, subito dopo l'avvenimento della Pentecoste, fin dai primi tempi della storia cristiana,
gli uomini che hanno desiderato vivere veramente l'annuncio che era
stato loro fatto e ciò che avevano incontrato hanno inevitabilmente
osservato tutti una modalità molto semplice, banale. Per realizzare
questa loro volontà di serietà di fronte all'accaduto si sono messi
insieme.
Si
sono formate così nel tempo non solo la Chiesa nelle sue istituzioni
fondamentali tese a permetterci e a comunicare agli altri il rapporto
con Cristo, ma anche gruppi, movimenti, e poi ordini e congregazioni
religiose.
Tutto ciò costituisce un fattore di ricchezza
cui tutto il mondo cristiano deve essere grato, non solo perché tali
realtà hanno affermato la libertà dello spirito, ma anche perché sono
una delle espressioni fonda mentali dell'uomo assunte nel mistero
cristiano.
L'associarsi, infatti, è da sempre il metodo con cui gli uomini hanno cercato di camminare verso il loro destino.
Così, all'interno
del fatto cristiano, è attraverso questo unirsi, comunque e in
qualsiasi modo, ma sempre con la tensione al destino, che il mistero
tutto di Cristo e della Chiesa toccava e tocca gli occhi, la bocca, le
mani, il corpo, quindi il cuore, l'anima, l'intelligenza e la libertà di
ognuno.
don Giussani Alla ricerca del volto umano Rizzoli
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