Cristiani,
in Europa messi al bando
***
«Non c’è persecuzione, ma
quella derisione beffarda che agita i media e indica il credente come
un essere arcaico amputato di parte di sé, votato alla credulità»
DI JEAN-CLAUDE GUILLEBAUD (Avvenire, 10.09.2008) *
«
Ma lei è cristiano, sì o no?» Ci sono domande che ti assediano,
così, di botto, quando uno non se le poneva più. Si disinteressava.
Pensava di averle superate. Forse, giorno dopo giorno si sottraeva,
senza saperlo. Conferenze, incontri, dibattiti: sono gli altri che in
tali contesti pubblici mi hanno incalzato, e senza mezzi termini.
All’inizio, la loro curiosità mi infastidiva. Mancava poco che la
percepissi come sconveniente. Ero cristiano? Ma io stesso me ne
rendevo conto forse? È una qualità - o un’identità - di cui, in ogni
caso, non avevo intenzione di fregiarmi. Presagivo che la questione,
prima o poi, si sarebbe ripresentata ma, senza un calcolo deliberato,
rimanevo nel vago, nell’ambiguità, nel non-detto.
Dichiararmi
cristiano mi sarebbe sembrato presuntuoso per non dire magniloquente,
ma sostenere il contrario sarebbe stata vigliaccheria. Allora?
Rimandavo a più tardi, spingendo in avanti la suddetta questione,
come un bagaglio con il lucchetto, un po’ ingombrante. E non andavo a
messa. Poi arriva un momento in cui il bagaglio bisogna aprirlo sul
serio. Non è semplice.
Allora,
sono cristiano? Capisco meglio, adesso, il torpore spirituale, la
prostrazione istintiva, la prudenza pigra che mi assalivano appena mi
avvicinavo con il pensiero a tale questione centrale. Reagivo come
chiunque. Rispondere in modo diretto, spiegarsi senza raggiri esige
che si accetti di «mollare la presa». Che cosa vuol dire? Vuol dire
che si rinuncerà per quanto possibile all’eloquenza, al calcolo.
Mentre
scrivo penso alla sorte che «questo» tempo riserva ai cristiani.
Parlo qui non certo di «persecuzione» propriamente detta (sarebbe
un’idiozia), ma di quella derisione beffarda che pervade la nostra
epoca e agita i media, soprattutto a sinistra, dove si situano
perlopiù i miei amici. Si
ama indicare chi si palesa credente come se fosse uno zombi arcaico,
amputato di una parte di sé, votato a una credulità che fa sorridere o
addirittura scatena ostilità. Negli ambienti filosofici e
scientifici la messa al bando è d’obbligo. Come potrebbe pretendere di
pensare razionalmente chi si commuove ancora con queste «favole»?
Può porsi come interlocutore e ricercatore serio chi non è riuscito a
rompere una volta per tutte con l’eredità delle superstizioni o non
si è augurato di farlo? Ma pensa! Preoccuparsi ancora di significato,
ontologia, metafisica!
Non
è la vivacità ostile di questi discorsi che mi colpisce. I
cristiani, dopo tutto, di fronte alla disputa che accompagna fin
dalle origini la storia del cristianesimo non si sono mai tirati
indietro. Il confronto con un discorso ostile, anche violento, è
un’evenienza di cui occorre accettare la durezza. Forse anche
rallegrarsene. Qualunque convinzione non deve forse «dare ragione» di
sé, salvo rimanere nell’oscurantismo o nel sentimentalismo?
Di
libro in libro ho tentato, da parte mia, di prendere sul serio le
argomentazioni anticristiane. Ho avuto cura, per quanto sono stato in
grado, di mettere a confronto il cristianesimo con le critiche più
severe, quelle che arrivavano a ricusarne il fondamento. In uno dei
suoi saggi, Jacques Ellul
racconta che, uscito dall’adolescenza e sentendo rinascere in lui la
fede cristiana, si affrettò a leggere - o rileggere - i grandi autori
anticristiani per mettere alla prova la sua fede ritrovata. Non fu
mai ostacolato dalla vivacità o dalla violenza di quei testi.
No,
è la superbia e la degnazione spesso incolta - per non dire ignorante
- di certe requisitorie contemporanee che mi irritano, soprattutto
quando sono intimamente vissute come ferite dagli uomini e dalle
donne che incontro. Queste requisitorie non hanno più niente a che
vedere con una controversia documentata. Derivano da un imperativo
pieno d’odio, molto vicino, in fondo, a ciò che furono gli anatemi
ideologici del XX secolo. Si vorrebbero convincere i cristiani che non
solo sono reazionari, come si usa dire, ma anche oramai esclusi dalla
storia delle idee. Sono out o, come si scrive nei settimanali,
irrimediabilmente «in ribasso ».
Penso anche a certi autori come il fenomenologo Michel Henry o il romanziere Frédéric Boyer
che furono a lungo lodati dalla critica per il loro lavoro e i loro
libri, fino al giorno in cui confessarono la loro inclinazione
cristiana. Allora lessero recensioni beffarde o falsamente dispiaciute
nelle pagine letterarie di alcuni grandi giornali. Ne furono
sopraffatti, per quanto avessero gli strumenti per difendersi. Ma che
dire dei credenti comuni, quelli che non hanno accesso ad alcuna
tribuna e giorno dopo giorno devono incassare questo disprezzo calato
dall’alto? Un disprezzo che in fondo mi sembra non solo ingiusto ma
intellettualmente bizzarro.
Questa
ignoranza della teologia la si ritrova perfino presso gli
intellettuali o gli universitari che professano di «combattere
l’oscurantismo religioso ». Tutta
la storia del cristianesimo, a sentir loro, è ridotta a una
spaventosa successione di crociate, inquisizioni, violenze
clericali, mentre i grandi autori della tradizione ebraica o cristiana
vengono presentati come manipolatori o, nel migliore dei casi, come
spiriti sempliciotti.
Chi,
oggi, parla delle dure lotte giuridiche portate avanti dalla Chiesa
nel tentativo di mitigare la violenza medievale («pace di Dio»,
«tregua di Dio», interdizione progressiva delle ordalie, eccetera)? Chi ricorda le opere di assistenza ospedaliera o educativa perseguite di secolo in secolo? In
breve, chi conserva almeno memoria di ciò che un semplice studente
di diritto dell’università laica e repubblicana imparava ancora negli
anni ’60? Nessuno, naturalmente. L’intera storia del cristianesimo non
è più ripercorsa se non nell’ottica di una demonizzazione a oltranza.
Anche l’Inquisizione ha quindi cambiato campo. In questo contesto,
molti cristiani d’oggi reagiscono emotivamente e cedono a reazioni
contraddittorie. Primo riflesso: rasentano i muri e tacciono
prudentemente la loro fede, come facevano negli anni postbellici ma
soprattutto durante i decenni ’60 e ’70, di fronte alle grandi
intimidazioni marxiste, sartriane o strutturaliste. Al di là della
contrizione e del pentimento, acconsentono a divenire degli
impotenti, assenti dal dibattito contemporaneo, perfino afasici.
Questa
prudenza eccessiva non mi soddisfa. È parente della resa e rende
tutto troppo facile all’aggressività di cui è circondata,
all’incultura generalizzata o al cinismo diffuso. Lascia intendere
che la tradizione cristiana sarebbe un arcaismo residuo che, pur
rimanendo rispettabile, non ha più niente da dire rispetto al mondo
del XXI secolo. Pone l’adesione al cristianesimo nel capitolo degli
affetti elementari, delle effusioni intime che non sarebbero in
grado di allargarsi a ciò che compete all’intelligenza e alla
ragionevolezza. Il cristianesimo, si lascia intendere, storicamente è
forse apprezzabile ma nel senso stretto del termine non ha più voce in
capitolo. Io invece, sono convinto del contrario.
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martedì 14 febbraio 2012
jean-claude guillebaud
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