La ragione intuisce il Creatore
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Da Il foglio del 21.02.2005
Più che le prediche poté il Dna, e Flew trovò Dio nel piccolo dettaglio
E’ come se a Jerry Falwell fosse scappata una bestemmia, come se il pastore metodista più famoso d’America, Rick Warren, avesse elogiato Darwin davanti a una folla di evangelici o il settantenne Bill Graham, papa protestante e orecchio mistico di molti presidenti americani, fosse stato visto in un confessionale. E’ stato questo l’effetto nel mondo anglosassone della pubblica abiura dell’ateismo da parte del celebre filosofo Antony Flew. Amico e allievo di Bertrand Russell, massimo esperto di David Hume, figlio di un pastore battista cresciuto nel più severo anglicanesimo, autore di trenta libri antireligiosi e scettici, per sessant’anni Flew è stato un campione della cultura razionalista. Leggenda dell’ateismo filosofico secondo Time, ha trascorso la sua vita nelle aule universitarie a convincere gli studenti dell’impossibilità della fede. Alla fine di dicembre, alla soglia degli ottantadue anni, Flew ha stupito l’Inghilterra: “Ho sbagliato tutto, Dio esiste”. Uno shock, si è preso dell’apostata dall’intellighenzia atea che aveva educato e del rimbambito dalla comunità dei lettori. Gli hanno consigliato di retrocedere, rischiava di avvilirsi dinanzi all’improbabile. “Farai la fine della bambina del ‘Settimo Sigillo’ di Bergman, quella a cui Jons chiede: ‘Che cosa l’aspetta? Gli angeli, o Dio, o il diavolo, o soltanto il vuoto? Il vuoto, signor mio”. Dove non era riuscito l’apologista cattolico C. S. Lewis, che Flew ha frequentato giovanissimo, ha riscosso successo il metro e mezzo di duplice filamento del Dna: è stata, infatti, la matassa genetica a convincerlo dell’esistenza di Dio, perché “dietro l’inesplicabile varietà cromosomica deve esserci un’entità superiore, ordinatrice e creatrice, un disegno intelligente”. Da qui il suo maturo no alle manipolazioni genetiche. Ha ricordato che il suo non è un modello minimalista del divino, ha il sapore piuttosto del deismo di Thomas Jefferson. Evoca, secondo Flew, la “gabbia d’oro dell’intraducibile” di Henry James. Il suo saggio “Theology and Falsification”, giunto alla quarantesima edizione, è una bibbia della miscredenza. “Sono sempre stato persuaso del fatto che la vita fosse come uscita dalla materia morta e che si fosse evoluta in una straordinaria creatura”. Alle sue stesse conclusioni è giunto nei giorni scorsi il grande fisico Stephen Hawking, quando a domanda sul perché l’universo esiste ha risposto che “ci rivela la mente di Dio”. Identica la tesi dell’ebreo ortodosso e fisico israeliano, Gerald Schroeder, nel libro “Science of God”. Flew ha detto basta, una volta per tutte, all’assunzione atea dello zero più assoluto, al né caldo né freddo della cultura contemporanea. “Non credo ancora nel Dio rivelato, ma adesso sono aperto a questa possibilità”. In Inghilterra c’è attesa per la nuova edizione di “God and Philosophy”, il suo libro più noto, in cui spiegherà la piroetta intellettuale. Il cambio di prospettiva l’ha già chiarito però in una lunga intervista “Philosophia Christi”, il giornale della Società filosofica evangelica. Ha parlato a ruota libera: della sua devozione all’idea di giustizia dei Padri Pellegrini contro l’“egualitarismo sociale” di John Rawls, delle letture giovanili, da Leibniz a Spinoza, e il più famoso mangiapreti del Regno Unito si è concesso persino un elogio del metodismo: “Ha impedito che potesse prendere piede in Inghilterra un partito comunista”. Ha scritto per la Libertarian Alliance un lungo saggio in cui ha ricordato il celebre viaggio di Russell in Unione Sovietica nel 1920, nel quale il logico inglese intuì la parentela fra comunismo e islamismo, che per Flew “ispira terrore piuttosto che amore”, tanto che “tra la Bibbia e il Corano non c’è paragone: leggere il Corano è una pena più che un piacere”. A ottant’anni, Flew ha detto che non poteva permettersi un trapasso alla Paul Valery (“Sono fottuto e me ne fotto”). I suoi versi preferiti sono quelli di un religioso, John Donne: “E la nuova filosofia mette tutto in dubbio, il sole è perduto e la terra e nessun ingegno umano può indicare all’uomo dove andarlo a cercare”. Ha citato dal Maelstrom di Poe il marinaio che si vergogna di aver avuto paura di morire davanti a una grandiosa manifestazione della potenza divina. E a chi gli ha detto che in fondo resterà sempre ateo, ha fatto sapere che in realtà l’ateismo non è che desolazione inconfessabile, che anche Samuel Beckett ammette Dio quando scrive “non esiste, il Bastardo”. Gli hanno obiettato che il suo era un deismo azzimo, e Flew ha risposto con le parole del Falstaff, “dobbiamo tutti una vita a Dio”. Come “Dio sta nel dettaglio” per quel genio folle di Aby Warburg , così Flew lo ha scoperto nell’infinitamente piccolo, nel Dna. Giulio Meotti |
Postato da: giacabi a 09:54 |
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ragione, ateismo
La fede è ragionevole
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Le ragioni ideologiche, antireligiose e pseudoscientifiche, non hanno osservato che il trascendente è semplicemente ciò che è oltre il mio pensiero, oltre la conoscenza, oltre i raggiungimenti intellettuali - non ci sarebbe nemmeno progresso nelle scienze senza porci davanti all'ignoto.
[...]
La
ragione che ammette nel suo ambito l'irrazionale è più equilibrata e
più strettamente "ragione" di quella che cerca di trarre dalla propria
esperienza mentale ideologie e teorie del reale.
Franco Loi
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Postato da: giacabi a 15:54 |
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fede, ragione, loi
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"I doni della grazia si aggiungono alla natura in modo da non toglierla di mezzo, ma da perfezionarla: perciò anche il
lume della fede che ci fu infuso per grazia non distrugge il lume della
conoscenza naturale che in noi è naturalmente presente.
Sebbene il lume naturale della mente umana sia insufficiente alla
manifestazione di quelle cose che attraverso la fede si manifestano,
è tuttavia impossibile che le cose che ci sono attraverso la fede
tramandate divinamente siano contrarie a quelle che ci sono date per
natura. In questo caso occorrerebbe che o le une o le altre fossero false; e poiché sia le une sia le altre ci vengono da Dio, Dio sarebbe per noi autore della falsità: il che è impossibile.”
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Postato da: giacabi a 14:21 |
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fede, ragione, stommaso
Fede e razionalità
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“La fede compie, salva la ragione. La compie, perché la ragione aspira a qualcosa che non riesce ad afferrare, a spiegarsi. La fede salva la razionalità, che ne è come la grande premessa. La razionalità è una premessa alla fede, è come il campo immediato in cui entra in tensione l'avvenimento di Cristo. La razionalità, infatti, noi l'abbiamo sempre definita come quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé; ma prende coscienza di sé secondo la totalità dei suoi fattori. Ora, fattore della realtà è anche quel "punto" che noi chiamiamo "di fuga", quel "punto di fuga", quel punto in cui la realtà diventa segno di altro e per cui la conoscenza di qualsiasi cosa segnala l'insopprimibile esigenza di qualcosa d'altro oltre i fattori razionalmente enucleabili e dimostrabili. La ratio, la ragione, non decifra il Mistero, ma rivela il segno della Sua presenza in ogni esperienza umana. «Sotto
l'azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né
sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / "più in là!"», diceva Montale in una poesia che i nostri ragazzi hanno spesso studiato. Il grande poeta norvegese Pär Lagerkvist, in una poesia della maturità, sinteticamente esprime una percezione del mondo che contiene un estraneo grido; c'è un grido dentro le cose, e non c'è nessuno che oda questo grido: «...Non c'è nessuno che ode la voce / risonante nelle tenebre; ma perché la voce esiste?». È incomprensibile, inspiegabile; ma "perché la voce esiste?". Nessuno riesce a udirla e a decifrarla. Perché esiste? È al di là delle nostre capacità. Ognuno
di noi, in ogni sua esperienza cosciente, auto-cosciente, ne percepisce
la presenza, come "punto di fuga" di ogni perimetro di propria
esperienza. Perciò la fede, asseverando
la presenza di questo Mistero attivo tra gli elementi decifrabili dalla
ragione, completa la razionalità dello sguardo, intesa come singola
esperienza o concezione del tutto».
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Postato da: giacabi a 19:49 |
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fede, ragione, giussani
In principio
«In ultima analisi si va a finire nell’alternativa su che cosa stia in principio: la ragione creatrice, lo Spirito creatore, che opera e lascia svilupparsi ogni cosa, o l’irrazionale, che in modo irragionevole produce stranamente un cosmo matematicamente ordinato e anche l’uomo e la sua ragione. Ma quest’ultima allora, sarebbe solo un caso dell’evoluzione e quindi, alla fin fine, un qualcosa di irrazionale.
Noi cristiani diciamo: io credo in Dio, creatore del cielo e della terra – nello Spirito creatore. Noi crediamo che all’inizio stia la Parola eterna, la ragione e non l’irrazionale».
Benedetto XVI
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Postato da: giacabi a 08:42 |
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ragione, benedettoxvi
Il Papa, la ragione etica e la Verità
*Da: www.Fattisentire.net
::.Il
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Il
messaggio cristiano dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la
verità e così una forza contro la pressione del potere e degli
interessi.
«Se
la ragione diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede
cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici
non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per
la verità e così non diventa più grande, ma più piccola».
Leggi il testo intergale dell’Allocuzione del Santo Padre per l’incontro con l’Università degli studi di Roma "La Sapienza"
Magnifico Rettore, Autorità politiche e civili, Illustri docenti e personale tecnico amministrativo, cari giovani studenti! È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio". Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere. Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa. Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico. Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma. Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro. Dal Vaticano, 17 gennaio 2008 BENEDICTUS XVI Sala Stampa vaticana 16.01.2008 |
Postato da: giacabi a 15:36 |
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fede, ragione, benedettoxvi
La ragione
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:
«È certo che alla base di ogni
lavoro scientifico un po' delicato si trova una convinzione, analoga al
sentimento religioso, secondo cui il mondo è fondato sulla ragione e può essere capito».
Einstein,
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Postato da: giacabi a 15:16 |
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ragione, einstein
La ragione
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: «I
cristiani che possono giustificare la loro fede attraverso le ragioni
sono un numero infimo in confronto della immensa massa dei fedeli ».
Jean Guitton
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Postato da: giacabi a 12:47 |
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ragione, giussani
A Dio tramite la ragione
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"Parlare
di origine del mondo porta inevitabilmente a pensare alla creazione e,
guardando la natura, si scopre che esiste un ordine troppo preciso che non può essere il risultato di un 'caso', di scontri tra 'forze' come noi fisici continuiamo a sostenere. Ma credo che sia più evidente in noi che in altri l'esistenza di un ordine prestabilito nelle cose. Noi arriviamo a Dio percorrendo la strada della ragione, altri seguono la strada dell'irrazionale"
Carlo Rubbia
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Postato da: giacabi a 08:29 |
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ragione
La filosofia
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« Un po’ di filosofia può allontanare da Dio. Ma molta filosofia riconduce a Lui .»
Francesco Bacone
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Postato da: giacabi a 15:11 |
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perle, ragione
Ragionevole
«”Ragionevole”designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza»
JEAN GUITTON
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Postato da: giacabi a 08:07 |
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ragione, esperienza, guitton
L'uomo non è che una canna pensante
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Postato da: giacabi a 17:19 |
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ragione, pascal
Ragione e cuore
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Postato da: giacabi a 21:07 |
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ragione, pascal, senso religioso
IL SENSO RELIGIOSO
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Alcuni
naufraghi sono gettati su un'isola sconosciuta, dove credono di essere
soli e abbandonati a se stessi. Arrivano aiuti ma non si sa da dove:
Fuoco... utensili... corda dall'alto di uno scoglio. Gli spiriti più rozzi si ACCONTENTANO DI GODERE di tutte queste cose senza cercare chi le offra.
Non
così l’ing. Cyrus Smith. Lo vediamo sospeso con una lanterna in mano,
all'estremità di una scala di corda, nel fondo di un pozzo, che osserva
un'acqua nera da cui escono, in certi momenti, degli strani rumori e dei
movimenti sospetti.
L'uomo
moderno ha il senso di essere un NAUFRAGO, gettato su un'isola
sconosciuta dove crede di essere solo e abbandonato alle sue forze. Ma
gli aiuti gli arrivano "non si sa da dove" sulla spiaggia: ci sono le
tracce di una misteriosa presenza.. ci sarebbero delle tracce di Dio
sulle tracce della vita?
Jules Verne -
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Postato da: giacabi a 14:55 |
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ragione, senso religioso
La ragione
va oltre propria la misura
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Griffy il bottaio
Il bottaio deve intendersi di botti.
Ma io conoscevo anche la vita, e voi che gironzolate fra queste tombe credete di conoscere la vita. Credete che il vostro occhio abbracci un vasto orizzonte, forse, in realtà vedete solo l'interno della botte. Non riuscite a innalzarvi fino all'orlo e vedere il mondo di cose al di là, e a un tempo vedere voi stessi. Siete sommersi nella botte di voi stessi – tabù e regole e apparenze sono le doghe della botte. Spezzatele e rompete la magia di credere che la botte sia la vita, e che voi conosciate la vita!" E. L. Masters - in Antologia di Spoon River |
Postato da: giacabi a 11:08 |
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ragione, masters
«La fede è l'intelligenza
nella sua riuscita»
***
«È all’intelligenza che Gesù fa costantemente appello.
E la sollecita. Il rimprovero costante sulla sua bocca è: non
comprendete, non avete intelligenza? Non credete ancora? aggiunge anche.
La fede che sollecita non ha nulla a che vedere con la credulità. Questa fede è precisamente l’accesso dell’intelligenza a una verità, il riconoscimento di questa verità, il sì dell’intelligenza convinta e non una rinuncia all’intelligenza, un sacrificio dell’intelletto. L’opposizione tra fede e ragione è una opposizione profondamente non cristiana, non evangelica.
Bisogna dimenticare questa dialettica troppo celebre, troppo famosa per
comprendere ciò che nel Nuovo Testamento si intende per fede, che è
l’intelligenza stessa nel suo atto, nella sua riuscita, e la conoscenza
stessa della verità insegnata, il riconoscimento del Maestro: il credere
nei Vangeli è questa scoperta, questa intelligenza della verità che è
proposta. Al ragazzo cui si insegna a nuotare, si spiega che in virtù di
leggi naturali non deve aver paura, nuoterà se farà alcuni movimenti
molto semplici. Il ragazzo ha paura, si irrigidisce, e non crede. Viene
il momento in cui fa esperienza che ciò che gli è stato detto è
possibile, crede, nuota.
Non si dirà che la fede, in questo caso, si oppone alla ragione, se ne
differenzia. Essa è per lui piuttosto identica; anche se la fede è
un’altra cosa dell’intelligenza, il sì dell’intelligenza alla verità che
essa vede, l’adesione alla verità vista e riconosciuta. Questo è il significato della parola pistis, pisteuein, nei Vangeli. Nel quarto Vangelo, la fede e la conoscenza sono costantemente associate come inseparabili: “Essi hanno conosciuto ed hanno creduto che tu sei il figlio del Dio vivente”. È appunto alla nostra intelligenza che Gesù si indirizza e non alla nostra credulità. Contrariamente
a quanto alcuni vorrebbero farci credere, la credulità e la debolezza
di giudizio non sono affatto un omaggio gradito a Dio. La
verità non richiede che l’uomo si abbassi ad animale, né che umilii la
ragione, che gli è, al contrario, necessaria per attingere la conoscenza
di Dio.
Noi subiamo in Occidente da parecchi secoli una tradizione che pretende
fondare la conoscenza di Dio sul deprezzamento della ragione, su una
frustrazione dell’esigenza di razionalità e di intelligibilità. Questa
cattiva coscienza nei riguardi della ragione non è giustificata nella
tradizione biblica ed evangelica».
(C. Tresmontant, "L’intelligenza di fronte a Dio", Jaca Book
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Postato da: giacabi a 21:20 |
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ragione, cristianesimo, tresmontant
CRISTIANESIMO,
OVVERO
Se Gesù non fosse nato sai che ridere
di Antonio Socci
E se Gesù non fosse nato? Non ci sarebbero - per esempio - né università, né ospedali. E nemmeno la musica. È
facile provare storicamente che queste istituzioni, nate nel medioevo
cristiano (come le cattedrali e l'arte occidentale), sarebbero state del
tutto inconcepibili senza la storia cristiana. Se Gesù non fosse venuto fra noi non ci sarebbe neanche lo Stato laico, perché - come ha dimostrato Joseph Ratzinger in un memorabile discorso alla Sorbona - è Lui che ha desacralizzato il potere il
quale da sempre ha usato le religioni per assolutizzare se stesso. Dopo
Gesù, Cesare non si può più sovrapporre a Dio, non può avere più un
potere assoluto sulle persone e le cose. Inizia la storia della libertà
umana. Se Gesù non fosse nato le donne non avrebbero alcun diritto, sarebbero considerate ancora cose su cui gli uomini hanno potere di vita e di morte, com'era perfino nella Roma imperiale. Se Gesù non fosse nato vecchi e malati continuerebbero ad essere abbandonati. Se Gesù non fosse nato non esisterebbero i diritti dell'uomo. Né la democrazia (ripeto: la democrazia e la libertà sarebbero stati inconcepibili). Se Gesù non fosse venuto avremmo ancora un sistema economico fondato strutturalmente sulla schiavitù e
quindi arretrato (oltreché disumano e bestiale), sempre al limite della
sussistenza. Invece Gesù è venuto e il continente che l'ha accolto, il
continente cristiano per eccellenza, l'Europa, di colpo ha fatto un
balzo inaudito nella storia umana, lasciando indietro tutto il resto del
mondo, perfino civiltà molto più antiche, come quella cinese. Gesù è venuto e l'essere umano è fiorito: la sua intelligenza, la sua genialità, la sua umanità, la sua creatività, la sua razionalità (soprattutto!).
Chi - abbeverato alle fonti avvelenate dell'ideologia dominante - nutre qualche dubbio in proposito può trovare intere biblioteche che lo dimostrano, ma, per tagliar corto, in queste giorni di vacanze può cavarsela leggendosi un libro. L'autore non è un apologeta cattolico, ma un sociologo americano di una università yankee: Rodney Stark. Il suo libro è stato tradotto da Lindau col titolo: "La vittoria della Ragione". Sottotitolo: "Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza". Il suo excursus lungo i secoli è documentatissimo e chiaro. Spiega che quando gli europei per primi cominciarono a esplorare il mondo, ciò che li stupì fu "la scoperta del loro grado di superiorità tecnologica rispetto alle altre società". Stark - per farsi capire scende nei particolari: "Perché per secoli gli europei rimasero gli unici a possedere occhiali da vista, camini, orologi affidabili, cavalleria pesante o un sistema di notazione musicale?". Il perché - come spiega Stark - risale a quella razionalità e a quel genio della realtà fioriti col cristianesimo. Gli esempi sembrano minimi (gli occhiali, i camini), ma si tratta di oggetti di uso quotidiano che hanno rivoluzionato la vita e la qualità della vita. Inoltre vanno compresi all'interno delle conquiste più grandi. Stark dimostra che è dal cristianesimo, dalla conoscenza di un Dio che ha razionalmente ordinato il cosmo, che deriva la «straordinaria fede nella ragione» che connota l'Occidente cristiano. «Sin dagli albori i padri della Chiesa insegnarono che la ragione era il dono più grande che Dio aveva offerto agli uomini... Il cristianesimo fu la sola religione ad accogliere l'utilizzo della ragione e della logica come guida principale verso la verità religiosa». Da qui, da questa "vittoria della ragione", da questa certezza che il mondo non è una divinità, né un capriccio inconoscibile degli dèi, ma è creato secondo un Logos razionale e può essere compreso e dominato dall'uomo, derivano la scienza, la tecnologia e per esempio - come conseguenza ultima di tipo sociale, il "capitalismo", cioè quel sistema di produzione regolato che ha portato a una prosperità mai conosciuta prima nella storia umana. Naturalmente andiamo per grandi linee. Potremmo dettagliare tutte le cose che stanno dentro queste svolte storiche: la legittimazione teologica e morale della proprietà privata e del profitto, la limitazione dell'arbitrio dello Stato, il diritto della persona a non essere schiavizzato (che ha provocato una quantità di scoperte e conquiste tecnologiche). La teoria della democrazia e dei diritti dell'uomo fiorì nei grandi monasteri che hanno civilizzato l'Europa barbarica, poi nelle università medievali e nella teologia successiva. Ed è stata recepita nelle istituzioni. È tutto un sistema di pensiero e di valori che ha letteralmente dato forma al nostro vivere quotidiano e che deriva da ciò che il cristianesimo ha portato nella storia umana. Il progresso stesso è un concetto nato dai padri della Chiesa e che non è concepibile se non nella concezione cristiana della storia. Stark dettaglia fino a particolari a cui noi normalmente neanche facciamo caso. Accendere la luce, avere acqua e riscaldamento in casa, muoversi a velocità inaudita sul pianeta coprendo distanze immense, comunicare da un capo all'altro del mondo, disporre di cibo oltre ogni immaginazione, dominare lo spazio, debellare tante malattie allungando la vita umana di decenni... Tutto questo - letteralmente - non sarebbe stato neanche immaginabile se quel giorno di duemila anni fa, a Betlemme di Giudea, non fosse nato Gesù. Non è un caso se le conquiste dell'Occidente cristiano hanno civilizzato e umanizzato tutto il mondo. Ma l'origine sta in quella strepitosa liberazione dell'umano e delle sue immense energie e potenzialità che è iniziata quando è venuto Gesù. Per questo - e non a caso - la storia si divide: prima di Cristo e dopo di Lui. Per questo anche un laico - se minimamente colto e avvertito - celebra il Natale come l'alba della prosperità e della libertà. Sia chiaro: non che l'Occidente cristiano sia di colpo diventato immune dal male. Tutt'altro. Il rischio di ripiombare nelle tenebre della disumanità è stato sempre presente ed è continuo. Ma anche il male dell'uomo, nel corso dei secoli, ha trovato finalmente la forza inesausta di Cristo nella Chiesa che l'ha contrastato, l'ha perdonato e redento, dilagando nella storia dei popoli cristiani. Un
LIBERO 24 dic. 2006
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Postato da: giacabi a 21:23 |
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ragione, cristianesimo, stark
SE EINSTEIN E IL BIG BANG DANNO RAGIONE A RATZINGER
A proposito del premio Nobel per
Gli
Accademici di Svezia (forse) non lo sanno e nessuno sui media se n’è
accorto, ma aver dato quest’anno il Nobel per la fisica a Mather e Smoot
per la famosa “fotografia del Big Bang” (hanno cioè misurato la
radiazione cosmica di fondo), significa indirettamente “premiare” papa
Ratzinger per l’ esplosivo discorso di Ratisbona e addirittura
concordare con il famigerato Manuele Paleologo. Paradossalmente (ma non
tanto) oggi è la fisica moderna – e innanzitutto il suo pilastro, Albert
Einstein – a dare la conferma più clamorosa alle parole del Paleologo
citate dal Papa. L’imperatore bizantino – com’è noto – contestava
all’intellettuale islamico “la conversione mediante la violenza”, ma qui
non ci interessa tanto questa polemica quanto la precedente discussione
teologica. Ecco la due posizioni.
“Per la dottrina musulmana Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà” spiega Ratzinger “non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza”. Invece per il Paleologo e per i cristiani è vero quanto annuncia il Vangelo di S. Giovanni: “in principio era il logos e il logos è Dio”. Cioè Dio agisce, crea il mondo, con il logos (che significa ragione e parola). Per questo il cosmo è conoscibile alla mente umana che ne scopre le leggi razionali. L’affermazione centrale di Manuele II che Ratzinger ha fatto propria è questa: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. Se volessimo fare un salto di secoli troveremmo lo stesso identico concetto del Paleologo formulato da Albert Einstein: “Dio non gioca ai dadi”. E’ la battuta con cui il grande fisico si contrapponeva a una certa concezione della fisica quantistica, quella di Niels Bohr e altri, per i quali la “mirabile struttura della realtà” svaniva, come i suoi nessi di causa ed effetto, la sua razionalità e alla lunga gli stessi concetti univoci di “essere” e di “conoscenza”. Einstein non accettò mai che il cosmo fosse governato dal caso e affermò strenuamente due principi senza i quali la scienza si dissolve.
Il primo: “la fede in un mondo esterno indipendente dal soggetto che lo percepisce è la base di ogni scienza naturale”.
Il secondo: “è
certo che alla base di ogni lavoro scientifico si trova la convinzione,
analoga al sentimento religioso, che il mondo è fondato sulla ragione e
può essere compreso”.
Einstein è affascinato da questo mistero: “la comprensibilità del mondo”. Lo definisce “un miracolo” perché “sicuramente, a priori, ci si dovrebbe aspettare che il mondo fosse caotico, inafferrabile in qualsiasi modo dal pensiero”. Invece non è così. Ed Einstein spiega: “la mia religiosità consiste in una umile ammirazione dello Spirito infinitamente superiore che si rivela in quel poco che noi, con la nostra ragione debole ed effimera, possiamo capire della realtà”. Ratzinger a Ratisbona ha ribadito lo stesso concetto: “la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata, esista una vera analogia”. La convinzione di Einstein derivava dai suoi stessi studi di fisica teorica. Le sue “scoperte” non sono mai state sperimentali, ma derivavano da calcoli e deduzioni logiche fondate sulla certezza che la realtà risponda a leggi razionali. Così le sue formule (come la più celebre E = mc² ) sono state confermate da scoperte fatte molti anni dopo. Anzi, la sua “Teoria generale della relatività” del 1915 conteneva implicitamente una “predizione” di immensa importanza di cui lo stesso Einstein, al momento della formulazione, non si rese conto: “la predizione di un universo non statico”. Se ne accorse invece il russo Fridman che la esplicitò e puntualmente i fatti s’incaricarono di dimostrarla. Nel 1929 l’astronomo Edwin Hubble si rese conto che, in qualsiasi direzione si osservi, le galassie si allontanano da noi: ciò significa che l’universo si sta espandendo, che “in passato, gli oggetti che lo compongono dovevano essere molto più vicini tra loro di quanto non siano oggi e che” spiega Hawking. “circa dieci o venti miliardi di anni fa, tutti gli oggetti dovettero trovarsi esattamente nello stesso luogo in cui, perciò, la densità dell’universo era infinita”. Questa scoperta, una delle grandi rivoluzioni intellettuali del XX secolo, pose alla scienza il problema dell’ “inizio dell’universo” risolto di lì a poco con la teoria del Big Bang, cioè la grande esplosione iniziale grazie alla quale da un punto infinitamente piccolo e infinitamente denso ha preso origine sia il tempo che lo spazio che da allora si sta espandendo. “A questo punto” scriveva Alan Guth in un celebre articolo su Scientific American “è forte la tentazione di fare un altro passo avanti e ipotizzare che tutto l’universo sia nato letteralmente dal nulla”. E’ l’idea di creazione, che presuppone un Creatore. E’ la spiegazione più ragionevole. Perché, come dice l’insospettabile Stephen Hawking, “è difficile rendersi conto di come condizioni iniziali tanto caotiche possano aver dato origine a un universo così omogeneo e regolare, su una scala tanto grande quanto quella del nostro universo attuale”. Ma torniamo al Big Bang: ha lasciato la sua traccia verificabile da qualche parte? Sì, è la radiazione cosmica di fondo (una sorta di rumore di fondo che riempie l’universo) che fu rilevata, quasi per caso, nel 1965 da Penzias e Wilson. Il Nobel per Ritenete che abbia arbitrariamente chiamato in causa il discorso di Ratisbona? Rispondo ancora una volta con l’insospettabile Hawking: “L’intera storia della scienza è stata una graduale presa di coscienza del fatto che gli eventi non accadono in un modo arbitrario, ma che riflettono un certo ordine sottostante”. E’ un ordine misterioso, spiega Ratzinger, che i filosofi greci hanno chiamano “logos”. Come pure san Giovanni che aggiunse però un avvenimento storico accaduto duemila anni fa: “Il logos si è fatto carne”. Hawking, alla fine di un suo famoso libro sul Big Bang, si chiede “perché esiste l’universo?”. Ora, avendo conosciuto il logos fatto uomo, sappiamo la risposta: per Amore. Hawking, che non lo sa, nota che fino a oggi la maggior parte degli scienziati si è occupata di descrivere “che cosa sia l’universo”, ma che adesso occorre chiedersi “perché?” e conclude: “se riusciremo a trovare la risposta a questa domanda, decreteremo il trionfo definitivo della ragione umana: giacché allora conosceremmo la mente di Dio”. Ebbene la mente di Dio, la sua Sapienza creatrice, si è fatta uomo e ha rivelato che l’essenza di Dio è Amore. Per amore ha creato tutto ciò che è. Così, per conoscere Dio in questa sua rivelazione definitiva non serve la fisica o la matematica, ma l’amore. E’ la conclusione di Ratzinger a Ratisbona: “Dio come logos ha agito ed agisce pieno di amore in nostro favore” e “l’amore sorpassa la conoscenza”. Per questo possiamo dire che conoscere e amare Cristo è – citando Hawking – “il trionfo definitivo della ragione umana”. Antonio Socci © “Libero”, 8 ottobre 2006 |
Postato da: giacabi a 17:57 |
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ragione, socci
Ecco che cosa ha scritto Redeker tanto da essere minacciato
di morte
Pubblichiamo l’articolo incriminato di Robert Redeker uscito il 19.09.06 sul Figaro. di Robert Redeker
Le reazioni suscitate dall’analisi di Benedetto XVI sull’islam e la violenza fanno parte dell’obiettivo che lo stesso islam si pone: spazzare via la cosa più preziosa che possiede l’occidente e che non esiste in alcun paese musulmano, ovvero la libertà di pensiero e di espressione. L’islam sta cercando di imporre all’Europa le proprie regole:
apertura delle piscine solo per le donne a determinati orari, divieto
di satira della religione, pretesa di avere un certo tipo di
alimentazione per i bambini musulmani nelle mense scolastiche, lotta per
imporre il velo nelle scuole, accusa di islamofobia contro gli spiriti
liberi.
Come si spiega il divieto dell’estate scorsa di portare il tanga a Paris-Plage? La spiegazione addotta è quantomeno strana: c’era il rischio, si dice, di “turbare l’ordine pubblico”. Cosa significa? Che bande di giovani frustrati avrebbero rischiato di diventare violenti di fronte alla bellezza che faceva mostra di sé? Oppure si temevano manifestazioni islamiche, nelle vesti di brigate della virtù, nella zona di Paris-Plage? In realtà, il fatto che portare il velo in pubblico non sia vietato è qualcosa che può “turbare l’ordine pubblico” molto più del tanga, a causa della condanna che suscita questo strumento per l’oppressione delle donne. Non è fuori luogo pensare che tale divieto rappresenti una certa islamizzazione della mentalità francese, la sottomissione più o meno conscia ai dettami dell’islam. O quantomeno che questo sia il risultato dell’insidiosa pressione musulmana sulla mentalità della gente: le stesse persone che sono insorte contro l’inaugurazione di un sagrato dedicato a Giovanni Paolo II a Parigi non fiatano quando si costruiscono le moschee. L’islam sta cercando di obbligare l’Europa ad adeguarsi alla sua visione dell’uomo. Come già accadde con il comunismo, l’occidente è ora sotto sorveglianza ideologica. L’islam si presenta, esattamente come il defunto comunismo, come alternativa al mondo occidentale. E come il comunismo di altri tempi, l’islam, per conquistare gli animi, gioca su fattori emotivi. Ostenta una legittimità che turba la coscienza occidentale, attenta al prossimo: il fatto di porsi come la voce dei poveri di tutto il mondo. Ieri la voce dei poveri proveniva da Mosca; oggi viene dalla Mecca. Oggi degli intellettuali si fanno portatori dello sguardo del Corano, come ieri avevano fatto con lo sguardo di Mosca. Ora la scomunica è per l’islamofobia, come lo era stata in passato per l’anticomunismo. Nell’apertura agli altri, che è propria dell’occidente, si manifesta una secolarizzazione del cristianesimo che può essere riassunta in questi termini: l’altro deve sempre venire prima di me. L’occidentale, erede del cristianesimo, è colui che mette a nudo la propria anima, assumendosi il rischio di passare per debole. Come il defunto comunismo, l’islam considera la generosità, l’apertura mentale, la tolleranza, la dolcezza, la libertà delle donne e dei costumi e i valori democratici come segni di decadenza. Sono debolezze che sfrutta volutamente grazie a degli “utili idioti”, buone coscienze imbevute di buoni sentimenti, per imporre l’ordine coranico nel mondo occidentale. Il Corano è un libro di una violenza inaudita. Maxime Rodinson sostiene, nell’Encyclopedia Universalis, alcune verità importanti che in Francia sono considerate tabù. Infatti, da una parte, “Maometto rivelò a Medina delle insospettate qualità di dirigente politico e capo militare (…) Ricorse alla guerra privata, istituzione comune in Arabia (…) Maometto inviò subito manipoli di suoi sostenitori ad attaccare le carovane della Mecca, punendo così i suoi connazionali increduli e, al contempo, ottenendo un ricco bottino”. Dall’altra, “Maometto approfittò di questo successo per eliminare da Medina, facendola massacrare, l’ultima tribù ebrea ancora esistente, quella dei Qurayza, con l’accusa di comportamento sospetto”. Poi, “dopo la morte di Khadidja, sposò una vedova, brava donna di casa di nome Sawda, e anche la piccola Aisha, che aveva appena dieci anni. Le sue tendenze erotiche, a lungo represse, lo avrebbero portato a contrarre contemporaneamente una decina di matrimoni”. C’è un’esaltazione della violenza, perché il Corano mostra Maometto sotto questa luce: guerrafondaio senza pietà, predatore, massacratore di ebrei e poligamo. Ovviamente anche la chiesa cattolica ha le sue colpe. La sua storia è costellata di pagine nere, delle quali ha fatto ammenda: l’inquisizione, la caccia alle streghe, l’esecuzione dei filosofi Bruno e Vanini, la condanna degli epicurei, quella del cavaliere de Nessun errore della chiesa è stato ispirato dal Vangelo. Gesù è per la non violenza, e il ritorno al Cristo rappresenta la salvezza nei confronti di certi eccessi dell’istituzione ecclesiale. Il ricorso a Maometto, invece, rafforza l’odio e la violenza. Gesù è il maestro dell’amore, Maometto, il maestro dell’odio. La lapidazione di Satana che si ripete ogni anno alla Mecca non è solo un fenomeno superstizioso: non si riduce infatti allo spettacolo di una folla isterica che flirta con la barbarie, ma ha una portata antropologica. Si tratta invero di un rito che ogni musulmano è invitato ad accettare, radicando la violenza come dovere sacro nel cuore del credente. Questa lapidazione, che ogni anno provoca la morte di fedeli calpestati dalla folla (a volte anche centinaia), è un rituale che ingloba la violenza arcaica. Anziché eliminare questa violenza arcaica neutralizzandola, sulla scia dell’ebraismo e del cristianesimo (l’ebraismo inizia con il rifiuto del sacrificio umano, che è l’ingresso nella civiltà, mentre il cristianesimo trasformerà il sacrificio in eucarestia), l’islam le crea un bel nido per crescere al caldo. Mentre l’ebraismo e il cristianesimo sono religioni i cui riti sono rivolti contro la violenza e la delegittimano, l’islam è una religione che esalta la violenza e l’odio, sia nel suo testo sacro che in alcuni riti comuni. Odio e violenza pervadono il testo sul quale si formano tutti i musulmani: il Corano. Come ai tempi della Guerra fredda, la violenza e l’intimidazione vengono utilizzate al servizio di un’ideologia che si vuole egemone: l’islam, che mira a mettere la sua cappa di piombo sul mondo intero. Benedetto XVI sta soffrendo la crudeltà di tale esperienza. Come in altri tempi, è necessario dire a chiare lettere che l’occidente è “il mondo libero” nei confronti di quello musulmano, e, come in quei tempi, gli avversari di questo “mondo libero”, funzionari zelanti del Corano, pullulano al suo interno. (traduzione Studio Brindani) |
Postato da: giacabi a 16:30 |
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ragione, islam, cristianesimo, benedettoxvi
Da: www.ilgiornale.it del 28/09/2006
Un nesso ineludibile
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Giorgio Vittadini(*)
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Con la lezione a Ratisbona il Papa ha voluto sottolineare
|
Innanzitutto una concezione di ragione
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come apertura ad ogni dimensione dell'umano. Un significativo
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esempio di tale concezione è contenuto nell'omelia dello
|
stesso Pontefice del 10 settembre a Monaco dove ha affermato
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che «esiste in alcuni l'idea che i progetti sociali siano da
|
promuovere con massima urgenza, mentre le cose che riguardano
|
Dio o addirittura
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piuttosto particolari e meno prioritarie». In tal modo Benedetto XVI
|
Ha affrontato il tema del dualismo tra impegno sociale e concezione
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dell'uomo (e quindi, annuncio cristiano) giustificato,
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non solo tra i laici, ma anche tra molti fedeli e cattolici,
|
dall'idea che sia sufficiente realizzare progetti utili, in modo
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neutrale, senza troppa enfasi sulle ragioni per cui li si fa.
|
Sembra così di poter fare un Bene disinteressato, rispettando
|
le identità di ciascuno, senza inculcargli le proprie convinzioni.
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Eppure tutto questo non tiene alla prova dei fatti.
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Spesso chi è impegnato in un’attività sociale, anche se cristiano,
|
dopo un po’ si stanca del suo impegno di fronte all' immensità
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dei bisogni, affrontati nell’illusione di risolverli.
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Così,capita che cominci a pensare che «non serve la carità,
|
ci vuole la giustizia» identificando in una scelta politica il
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contenuto della sua fede e del suo impegno. Eppure, anche
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questo impegno politico alla lunga non tiene.
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Così, mentre 40 anni fa, in un ottimismo tipico di quegli
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anni, si pensava che bastasse uno sviluppo economico diffuso
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e sistemi politici migliori perché ci fossero concordia e
|
pace, oggi si scopre che incrementi del PIL
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possono convivere con sfruttamento e mancanza di diritti umani;
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che ci possono essere estensioni delle democrazie
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«all'occidentale» che portano al potere gruppi
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terroristici e regimi populisti che, in nome della difesa del
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popolo, lo opprimono. L'intervento del Papa supera
|
questo dualismo perché, affermando il nesso inscindibile
|
tra intervento sociale e concezione dell'uomo, indica scopo
|
e metodo anche dell'azione sociale. Sapere che ogni uomo è
|
nesso inscindibile e personale con l'infinito, fatto a immagine
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di Dio; scoprire nella propria esperienza come il cuore è costituito
|
da una esigenza ultima di verità, giustizia, bellezza
|
non relativizzabili; incontrare nella realtà ciò che corrisponde a
|
queste esigenze elementari; riconoscere nella vita quotidiana
|
la presenza di un Dio fatto uomo, che solo può appagare
|
il desiderio di felicità, mostra i limiti di ogni intervento
|
caritativo e ne esalta il merito. Nessun progetto sociale, nessuno
|
sviluppo economico,nessuna realizzazione politica
|
può appagare questa sete di infinito che costituisce l'uomo.
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Come ha detto lo stesso Pontefice a Ratisbona «Ciò che
|
rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole
|
dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia,è
|
semplicemente insufficiente». Chi non parte da una concezione
|
ragionevole dell'uomo e pretende di essere neutrale finisce
|
per commettere le peggiori violenze sull'uomo perché
|
non ne rispetta la natura e uccide l'impegno sociale.
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I cristiani che dividono la fede dalle opere, prima o poi,
|
uccidono anche le opere.
|
(*) Presidente Fondazione
|
per
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