Il cristianesimo felice
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Il cristianesimo felice di una peccatrice malata di Aids e il moralismo triste che vanifica l’incarnazione di Dio
«Padre,
ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della
vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo
ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù
me stessa», mi ha scritto Fabiana
di Aldo Trento
Negli
ultimi giorni di agosto migliaia di persone hanno visitato la mostra
“Il Cristianesimo Felice”, allestita da un gruppo di architetti e
studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Brera presso il Meeting per
l’Amicizia fra i popoli, a Rimini. Più precisamente la mostra si chiama:
“Una vita felice per Dio e per il re. La vita quotidiana nelle
Riduzioni Gesuitiche”. Di fronte a questo titolo, in molti mi hanno
chiesto: «Perché parlate di cristianesimo felice? Esiste forse un
cristianesimo triste?». Ludovico Antonio Muratori, famoso storiografo del Settecento e autore di un libro che si intitola proprio Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, ha inteso provocarci proprio questa domanda. E la risposta è che sì, esiste un cristianesimo felice e sì, ne esiste anche uno triste. Però mentre il primo è un Avvenimento che
entrando nel mondo ha cambiato la vita di quanti lo hanno incontrato,
riconosciuto e accolto, e da cui è scaturita la civiltà dell’amore e
della verità, il secondo è un modo ideologico e moralista di guardare alle conseguenze del fatto cristiano, che mette in secondo piano il fatto cristiano stesso.
«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo» dichiarava l’ultimo grande retore dell’impero romano, Mario Vittorino. È
proprio questo il contenuto della prima evangelizzazione dell’America
latina, che i padri della Compagnia di Gesù realizzarono nell’esperienza
delle riduzioni. In questi luoghi gli
indios Guaraní, affascinati dall’avvenimento cristiano, diedero vita,
in assoluta libertà, a una società fondata sull’amore e sulla ricerca
della verità, suscitando perfino l’ammirazione di Voltaire e Montesquieu.
Ma come è nata un’esperienza simile? Di che cosa si sono preoccupati i
gesuiti fin dal primo impatto con gli indios? È lo stesso Ruiz de Montoya, padre dei Guaraní impersonificato
da Robert De Niro nel bellissimo film Mission, a raccontarlo nel suo
libro La conquista spirituale del Paraguay: «Per
due anni non abbiamo parlato della morale cristiana, e in particolare
del VI e IX comandamento, perché non volevamo soffocare quelle piccole e
tenere piante che stavano per aprirsi alla vita con dei precetti
assolutamente incomprensibili per loro, poligamici da sempre. Per due
anni abbiamo annunciato senza stancarci la bellezza dell’Avvenimento
cristiano. E sarà il fascino di questo Fatto che permetterà alla loro
libertà di chiedere il matrimonio monogamico». Non è per una decisione etica che si diventa cristiani, ma per un incontro vivo, l’incontro con il Fatto cristiano di cui parla padre Ruiz de Montoya. È questo che cambia la vita, ci dice Benedetto XVI.
Cosa
vuol dire che la vita cambia? Il segno, come accadde a me, è una
rinascita dell’Io, che ogni giorno si guarda allo specchio e si sorride:
comincia a guardarsi con gli occhi di Dio. Ossia uno vive guardando con
sorpresa come cresce il proprio Io, come diventa grande e maturo. L’Io
non può essere definito da regole e precetti, non può vivere sempre
scandalizzandosi dei limiti propri e stracciandosi le vesti di fronte a
quelli altrui, perché così diventa disperato. L’Io
cambia se è totalmente afferrato da quel “Tu che mi fai”. La moralità
di un uomo si vede se è felice, ed è felice quando il suo Io è definito
dal nesso con l’infinito. L’uomo morale è colui che vive cosciente che
“Io sono Tu che mi fai”. È l’uomo che in ogni momento vive un inizio di
pienezza, di corrispondenza, il cui segno visibile è la letizia.
Recentemente alcuni religiosi mi hanno chiesto: «Perché molti abbandonano la propria vocazione?». Perché non
sperimentano in ogni momento quella soddisfazione che il cuore
desidera, e un cuore vuoto o a metà non può reggere l’urto del mondo.
Il cristianesimo è l’incontro con un Uomo che si è fatto carne, perciò è
incontrabile oggi, e il cuore di chi lo incontra trabocca di letizia.
Il moralista al contrario è l’uomo “castrato” nel suo desiderio di
felicità, mortificato e scandalizzato dal limite, che cerca
farisaicamente di vivere aggrappato alle regole finendo per restarne
soffocato. È l’uomo che vive colpevolizzando gli altri, che a loro volta
lo soffocano con le loro miserie ripugnanti. Il cristianesimo felice è invece l’ironia e il sorriso di Dio che cambia la vita.
Le bellissime mostre su sant’Agostino e sulle riduzioni gesuitiche
presenti al Meeting di quest’anno ci testimoniano che il cristianesimo è
un fatto. È l’ironia, è il sorriso di Dio fatto carne… Sì, fatto carne solo ed esclusivamente per noi pubblicani, peccatori umilmente coscienti di ciò che ontologicamente siamo.
Che bello alzarsi ogni giorno e gridare “Io sono Tu che mi fai”, o ripetere insieme al profeta Geremia: «Di un amore eterno ti ho amato, per questo ho pietà del tuo niente». Scandalizzarci
del peccato e condannare il peccatore è davvero l’eliminazione non solo
dell’umano, ma anche del divino, che per il mio peccato sì è umiliato
facendosi uomo, per ridare a me e ad ogni uomo (“creatura divina”) il
sorriso e l’ironia dell’inizio dei tempi, quando «creò l’uomo a Sua
immagine e somiglianza». Dolorosamente, quando l’uomo elimina la
ferita lacerante del cuore che brama vedere il volto di Dio, si
appiattisce e cade vittima del fariseismo, schiacciato dalle regole e
dai precetti. I
Guaraní chiamavano Dio con la parola “Tupa”: “Tu”, cioè bellezza,
meraviglia; “Pa”, cioè chi ha fatto queste cose belle? Il riaccadere di
questo stupore, di questa domanda, è la fine del moralismo e l’inizio
della libertà, cioè della felicità.
Non esiste niente di più concreto capace di scrollarci di dosso il
polverone mediatico di questi giorni, che non il riaccadere di questo
sguardo, “Io sono Tu che mi fai”, in cui consiste la bellezza della
vita, e quindi in fondo anche la moralità.
Solitudine e desiderio
Il “cristianesimo felice” del Muratori, o il
“paradiso in Paraguay”, come ha definito Chesterton l’esperienza dei
gesuiti tra gli indios, ci dice che la spada e la croce in questo mondo
non si possono separare, così come il peccato e la Grazia, il santo e il
peccatore. È di questa consapevolezza, di questa libertà, che il mondo,
perdutosi nel gioco farisaico del puritanesimo e dell’idolatria delle
regole, ha estremo bisogno. Non si diventa cristiani a forza di
scrupoli, ma grazie a un incontro che è sempre presente nell’orizzonte
della vita, come un bellissimo sorgere del sole.
I
miei malati terminali me lo ricordano ogni giorno, loro, vittime delle
peggiori nefandezze cui può giungere la libertà umana… Eppure,
incontrando un uomo che si inginocchia davanti a loro abbracciandoli, il
loro sguardo diventa luminoso. «Padre,
ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della
vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo
ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù
me stessa», mi ha scritto in questi giorni Fabiana, una ragazza di appena diciannove anni, madre di una bambina di due. Chi
è più morale? Lei, peccatrice, o il borghese, il fariseo con il cuore
rinsecchito dalle sue false sicurezze e con il dito sempre puntato per
condannare, sempre dimentico di quanto ci ha detto Gesù: con la misura
con cui misuriamo saremo noi stessi giudicati?
Nei
giorni del Meeting ho incontrato un popolo di peccatori, cioè di santi
che si avvicinano a me non per parlarmi degli scandali dei politici –
che non interessano all’uomo d’oggi – ma per chiedermi: «Padre, sto
male, sono depresso, ho perso un figlio, mio marito mi ha abbandonato…
Per favore, può aiutarmi?». Ho
visto una grande solitudine, e nello stesso tempo un desiderio umano di
un senso ultimo per cui vivere, di poter incontrare qualcuno sul cui
volto si rifletta “il volto del Mistero”. Ho visto ancora una volta il
cuore dell’uomo mendicante di Cristo, e Cristo mendicante del cuore
dell’uomo.
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Postato da: giacabi a 08:28 |
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cattolico, pseudo recensioni, padre trento
BESTSELLER/
“L’eleganza del riccio”
e la fortuna di fare incontri felici
*** Laura Cioni sabato 6 giugno 2009
L’eleganza del riccio è un romanzo del tutto francese,
non solo perché l’autrice, Muriel Barbery, è francese, non solo perché è
ambientato in una Parigi dall’atmosfera raffinata, anche se osservata
per lo più dalla guardiola di una portineria. Di francese ha l’aria
sofisticata e la sottigliezza intellettuale che trascorre con
disinvoltura dalla filosofia alla letteratura alla musica passando
attraverso la psicanalisi, tanto che la sua abile leggerezza può
diventare a un certo punto persino lievemente irritante. Insomma, è un
bell’articolo venuto d’oltralpe, caso letterario del 2007, record di
vendite nella madrepatria e in seguito anche da noi. Ma, verso la fine,
c’è una sorpresa. Non solo nella storia. I fatti cambiano anche la
scrittura, che non perde affatto la sua raffinata eleganza, ma acquista
il calore degli affetti.
La
storia è ambientata in un bel palazzo al numero 7 di rue de Grenelle e
racconta, a capitoli alterni, le vicende e le riflessioni di Renée, la
portinaia di mezza età, dall’aspetto sciatto, ma coltissima autodidatta
all’insaputa di tutti, e di Paloma, la dodicenne figlia di un ministro
lì residente, geniale e fin troppo lucida per la sua età, la quale ha
deciso di suicidarsi il giorno del suo tredicesimo compleanno, per
protesta contro la vacuità della sua famiglia. Le loro vite asimmetriche
si intrecciano perché entrambe, pur così diverse per età e condizione
sociale, possiedono uno sguardo disincantato sulla vita, che permette
loro il distacco dalla mediocrità del loro ambiente e un giudizio molto
acuto su ciò che succede nelle famiglie e in genere nella città, dal
rito dello shopping alle automobili incendiate nella banlieu.
La
novità è portata dall’arrivo di un nuovo inquilino nel palazzo di rue
Grenelle, monsieur Kakuro Ozu, un compitissimo giapponese.
Basta la sua naturale attenzione ad ogni particolare della casa e
innanzitutto a ogni persona che vi abita per fare della sciatta
portinaia intelligente e infelice una donna che ritorna a vivere. La
piccola Paloma, che trova rifugio nella misera guardiola dalla fredda
ricchezza della sua famiglia, raccoglie la storia dolorosa che ha
portato Renée a nascondersi e la svela a monsieur Ozu…. Ma capisce anche
qualcosa per sé.
E
poi, soprattutto, ho provato un’altra cosa, un sentimento nuovo – e nel
metterlo nero su bianco mi sono proprio commossa, tanto che ho dovuto
poggiare la penna due minuti, il tempo di piangere. Ecco
cos’ho provato: ascoltando madame Michel, vedendola piangere e
specialmente intuendo quanto le facesse bene raccontare a me tutte
quelle storie, ho capito una cosa: ho
capito che soffrivo perché non potevo fare del bene a nessuno attorno a
me. Ho capito che ce l’avevo con papà, con la mamma e in particolare
con Colombe perché non so come essere utile, perché non posso fare
niente per loro. La loro malattia è a uno stadio troppo avanzato e io
sono troppo debole. Io vedo i loro sintomi, ma non sono capace di
curarli, e così anch’io sono malata quanto loro, ma non lo vedo. Invece,
tenendo la mano di madame Michel mi sono accorta che anch’io sono
malata. Comunque sia, una cosa è certa: non posso curarmi punendo quelli
che non posso guarire. Forse devo ripensare a tutta la storia del
suicidio. Tra l’altro devo proprio ammetterlo: non ho più tanta voglia
di morire, ho voglia di rivedere madame Michel, Kakuro e Yoko, la sua
nipotina così imprevedibile, e chiedere aiuto a loro. Beh, certo non mi
presenterò dicendo: please, help me. Sono una bambina con tendenze
suicide. Al contrario, ho voglia di lasciare che siano gli altri a farmi
del bene: dopotutto sono solo una bambina infelice, e anche se sono
estremamente intelligente fa lo stesso, no? Una bambina che nel momento
peggiore ha avuto la fortuna di fare degli incontri felici.
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