La tecnica
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Uno dei mali della nostra epoca consiste nel fatto che l’evoluzione del pensiero non riesce a stare al passo con la tecnica, con la conseguenza che le capacità aumentano ma la saggezza svanisce.
(Bertrand Russell)
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Postato da: giacabi a 14:53 |
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scienza - articoli
L' amore nella conoscenza
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«Il desiderio e l'attesa della verità nella sua interezza sono amore nella conoscenza. Questo amore nella conoscenza è il vero ispiratore e motore della ricerca di tutte le verità particolari e della loro trasmissione;
è questo amore a far sapere che queste verità particolari non
racchiudono la verità e spingono a rimettersi in marcia. Proprio come
leggiamo al paragrafo 30 dell'Enciclica: “C'è
sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella
verità. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle
conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c'è
l'intelligenza e poi l'amore:ci sono l'amore ricco di intelligenza e
l'intelligenza piena di amore”».
Laurent Lafforgue
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Postato da: giacabi a 09:38 |
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benedettoxvi, scienza - articoli
La scienza
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"La scienza ha radici nell'immanente,
ma porta l'uomo verso il trascendente".
Papa Giovanni Paolo II
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Postato da: giacabi a 21:55 |
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giovanni paoloii, scienza - articoli
Robert Spaemann:
la scienza è un bene,
ma l’uomo non smetta mai di contemplare
INT.
Robert Spaemann (Berlino, 1927) e' uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, erede della Cattedra che fu di Hans G. Gadamer, ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo del dibattito sull'etica contemporanea, in sintonia con gli studi dell'amico Joseph Ratzinger.
venerdì 18 dicembre 2009
Ieri
era l’ateismo materialista, nelle sue varie colorazioni ideologico
politiche. Più tardi è stato l’indifferentismo religioso ad attaccare
la credenza dell’uomo in Dio. Ma la persona non ha mai smesso di
interrogarsi sul senso di tutto. Senza credere in Dio, dice il filosofo tedesco Robert Spaemann,
l’uomo ci perde: è meno libero. Perché ne va della ricerca della
verità e del suo fine e dunque dell’io stesso che domanda. Ma è il cristianesimo la risposta definitiva alla ricerca, «non solo perché ipotesi di un altro mondo o di un'altra visione della realtà - dice Spaemann - ma perché la Verità si è fatta carne».
Da chi viene oggi il vero attacco contro Dio e la religione?
In
ogni tempo della storia ci sono state cause e motivi diversi che
hanno provocato le più svariate domande circa l’esistenza di Dio.
Sebbene in molti lo sostengano, oggi il problema non mi sembra che
riguardi come l’uomo possa venir liberato dagli obblighi della
religione. In realtà la maggior parte delle persone, più o meno inconsapevolmente, fa esperienza di una minaccia della propria libertà da parte della scienza e della tecnologia. Le scienze naturali hanno sempre di più espanso il loro dominio negli ambiti della vita delle persone.
Il progresso delle scienze sperimentali non è “innocente”?
Purtroppo i mezzi di questo dominio sono anche mezzi di potere sull’uomo e, soprattutto, del potere di uomini su altri uomini.
Tale dominio sull’uomo ha raggiunto oggi confini enormi e minacciosi,
come la possibilità che abbiamo, o presto avremo, di incidere
geneticamente sul profilo biologico di una persona. Oppure pensiamo alle neuroscienze il cui principale intento è quello di dimostrarci che la nostra libertà e il nostro libero arbitrio sono un’illusione. Le
estreme conseguenze di questa logica potrebbero portarci a
imprigionare tutti coloro il cui profilo genetico e neurologico
descrive come potenziali criminali.
E come entra in gioco Dio?
La fede in Dio in questo contesto equivale alla libertà dell’uomo. Libertà intesa come ricerca della verità. In questa ricerca l’Illuminismo ha cercato di sostituire totalmente la fede con la ragione, ma proprio qui risiede il grande errore dell’Illuminismo: l’aver negato a priori la validità della fede come elemento per raggiungere la verità. Come ultima conseguenza lo scientismo
ha contestato poi il fatto che la ragione abbia a che fare con la
verità, circoscrivendo la ragione a un ambito puramente empirico. Mentre è la fede, come apertura alla realtà, l’unica vera compagna della ragione.
In queste sue risposte si avverte l’eco della critica che Horkheimer e Adorno fecero nei confronti dell’Illuminismo (cfr ilsussidiario.net 18-3-2009). Come spiega però la coesistenza dei dogmi dello scientismo e dell’assenza di verità proclamata dal relativismo?
Come dicevo, lo scientismo
riduce la ragione a un solo ambito circoscritto. Una verità che valga
per tutti è negata anche dallo scientismo. In questo modo lo
scientismo si può conciliare con il relativismo. Nietzsche è stato il primo a portare agli estremi la conseguenza di questo ragionamento. Se non c’è Dio e non c’è la Verità possono esistere solo le prospettive di ogni singola persona. Non esiste una prospettiva “universale”. E Rorty, neopragmatico, lo ha ribadito sinteticamente: “desiderare la verità significa credere in Dio, infatti non c’è la verità”. Naturalmente è vero che lo scientismo pretende per sé che le proprie tesi siano verità. Il suo successo viene nutrito dai passi avanti che quotidianamente fa la scienza. Utilizza i progressi scientifici per propagandare l’illusione che la scienza sappia totalmente definire l’uomo.
Nel
suo recente discorso al convegno della Cei lei si domanda «di quale
tipo è la realtà del passato, l’eterno essere vera di ogni verità». E
pone la questione come obiezione al relativismo. Potrebbe spiegare la
centralità di questo ragionamento?
Il passato rimane vero così come questa intervista è stata fatta e rimarrà tale per milioni di anni, per sempre.
Questa di primo acchito è una risposta al relativismo. Perché nessuno
potrà negare che ci sia stata: c’è stata punto e basta. Ma qui scatta
il vero problema dell’interpretazione soggettiva. Oggi siamo propensi come mentalità comune a pensare che un evento è accaduto per come lo si è vissuto.
Se si fosse conseguenti una persona potrebbe dichiarare «ho mal di
testa» e quindi un’altra iniziare a contraddire dicendo: «per come ti
sento io, non hai mal di testa». In realtà perdiamo così di vista il
fatto in sé, l’evento. In questo senso la mia domanda punta alla verità innegabile sulla natura di un evento, di qualcosa che è accaduto.
A
proposito di mentalità comune. Nel suo ultimo libro lei punta il dito
in particolare contro Rousseau nell’evidenziare gli errori della
modernità.
In realtà la mia opinione su Rousseau non è del tutto negativa. In lui indico piuttosto la sintesi dell’uomo moderno, l’esaltazione della soggettività di cui parlavo anche prima. E la stessa figura di Rousseau è percepita soggettivamente. Egli
è sia un eroe della rivoluzione sia della controrivoluzione; per
qualsiasi lato lo si prenda può essere insignito come paladino. In
questo senso Lévi-Strauss, recentemente scomparso, ha giustamente
detto che Rousseau è il padre di tutti.
Quindi un modello, ma certamente non un’origine. A quali cause lei fa invece risalire il pensiero moderno?
Gli aspetti sono naturalmente molteplici. Se devo trovare però una radice comune sarei propenso a indicare l’abbandono totale della visione teleologica della realtà, la disillusione dal fatto che la realtà abbia un fine. Questa
visione comincia già nel tardo Medioevo. Francis Bacon è il primo ad
affermare che il considerare le cose per il loro fine non ci serve
assolutamente a nulla. Thomas Hobbes sostiene che conoscere un oggetto
significa sapere cosa ne dobbiamo fare se lo possediamo. Di
qui è derivato l’abbandono del rapporto contemplativo con la realtà e
il conseguente tentativo di dominarla da parte dell’uomo.
La scienza non ha alcun merito?
Tutt’altro. I
meriti della scienza e della visione scientifica sono innegabili,
hanno alleggerito di molto il lavoro e le sofferenze dell’uomo. Ma la
pretesa scientistica di assurgere a unico tipo di conoscenza
possibile ha messo da parte un altro tipo di rapporto con la realtà,
altrettanto fondamentale.
Per
quale motivo lei vede nella Chiesa Cattolica l’unica risposta alle
minacce dell’epoca moderna nei confronti dell’umanità?
Bisogna fare chiarezza. Credo che molte
persone vivano l’esperienza di un enorme malessere nei confronti del
dominio della tecnica, nella perdita di valori e del senso
dell’esistenza. Prima abbiamo
parlato di Horkheimer. Ebbene io sono totalmente d’accordo con la
critica da lui mossa nei confronti dell’Illuminismo, sposo quasi in
tutto la sua visione. Il problema è che nel pensiero di Horkheimer non
c’è terapia, non c’è soluzione. C’è l’“hotel abisso” a Francoforte,
come diceva Ernst Bloch. La critica riguarda solo l’aspetto distruttivo. Il
cristianesimo è la risposta non solo perché ipotesi di un altro mondo
o di un'altra visione della realtà, ma perché la Verità si è fatta
carne. È un fatto di cui la Chiesa rende testimonianza e che rende unica l’esperienza di risposta alle domande dell’uomo.
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Postato da: giacabi a 08:00 |
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ragione, cristianesimo, spaeman, scienza - articoli
Lo scoprire
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Lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato.
Albert Szent-Györgyi von Nagyrapolt
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Postato da: giacabi a 14:27 |
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scienza - articoli
La scienza non può stabilire dei fini ***
La scienza non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici.
Albert Einstein
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Postato da: giacabi a 21:43 |
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einstein, scienza - articoli
Il senso religioso
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Abbiamo una spiegazione per tutto. Abbiamo una scienza per ogni come e una per ogni perché. Eppure qualcosa manca. Le grandi intelligenze del nostro tempo lasciano in calce ai loro libri, una pagina bianca: la consapevolezza di una domanda rimasta senza risposta. Chi non riesce ad annegare la propria ansia di altro, nell’abitudine del muoversi, del rivaleggiare, del contare i successi o i fallimenti, sente
che qualcosa sfugge. Non c’è risposta plausibile alla disperazione
della morte, alla radicale ingiustizia dell’offesa, agli squilibri del
dolore e del sopruso, della solitudine e della malattia. Le grandi
scienze, la fisica, la matematica offrono informazioni parziali che
rinviano a nuovi punti neri. Gli
uomini, dopo aver rinunciato alla strada della religione, sentono con
chiarezza un deficit di conoscenza e c’è in molti il desiderio di un di
più. Infatti
sappiamo sempre di più ma questo sapere, non esaudisce alcun definitivo
perché. Oggi nessun onesto pensatore vorrà affermare la falsità
dell’ipotesi religiosa. Si limiterà eventualmente a sostenerne l’inutilità. Esplorati
alcuni risultati della scienza contemporanea, è lecito chiedersi se
oggi non sia più plausibile,cercare oltre i limiti, la risposta ai
perché nella riscoperta di Dio .
Gaspare Barbiellini Amidei - La riscoperta di Dio
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Postato da: giacabi a 17:46 |
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senso religioso, scienza - articoli
Non fare dell’intelletto il nostro dio
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In
tutte le cose umane, sino ad ora, l’audacia ha avuto sempre l’ultima
parola. Ma modificare la natura biologica dell’uomo è ben più grave che
sostituire la pittura informale a quella figurativa. Penso che occorrerà
ad ogni modo mostrarsi circospetti nell’accettare frontiere che ci vengono proposte dai Picasso del laboratorio. L’uomo
non può giocare con il proprio essere come fa con le creazioni del suo
spirito. Io non so e nessuno sa e probabilmente nessuno saprà mai, che
cosa è l’uomo. Dobbiamo avere un po’ di riguardo per questo sconosciuto che è in noi.
Jean Rostand I miracoli della biologia
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Postato da: giacabi a 21:34 |
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scienza - articoli
Non fare dell’intelletto il nostro dio
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La nostra epoca è orgogliosa del progresso che ha
fatto compiere allo sviluppo intellettuale dell’umanità. La ricerca e
la lotta per la verità e per la conoscenza sono fra le più alte qualità
dell’uomo. Certamente dovremo badare a non fare dell’intelletto il nostro dio. Esso ha sì dei muscoli potenti, ma nessuna personalità. Esso non può guidare, può solo servire. L’intelletto ha una vista acuta quanto ai metodi e agli strumenti, ma è cieco quanto ai fini e ai valori.
Così non c’è da meravigliarsi che questa fatale cecità sia passata dai
vecchi ai giovani e oggi affligga una intera generazione. Il fattore più
importante nella formazione dell’esistenza umana è la creazione di un
fine: quello di una comunità libera e di essere umani felici che con
continuo sforzo interiore, lottino per liberarsi dall’eredità di istinti
antisociali e distruttiviAlbert Einstein , Pensieri degli anni difficili |
Postato da: giacabi a 21:22 |
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einstein, scienza - articoli
La scienza
che non sa spiegare l’uomo ***
Pubblicato il giorno: 27/08/09
Il paradosso della scienza odierna è che è sempre più esatta, ma sempre meno interessante. Mi spiego con una distinzione fra tre significati della parola “interessante”.
Il primo significato è quello di ciò che ci fa guadagnare qualcosa.
Questo qualcosa può darsi che siano i soldi, come quando si parla
dell’interesse di un capitale. Ma quello che guadagniamo può essere più
importante, per esempio la felicità, o la stessa esistenza.
Il secondo significato di “interessante” è quello di fascinoso, attraente, avvincente.
Un paesaggio o un’opera d'arte sono interessanti, ma questo tipo di
interesse non è lo stesso di quello definito in precedenza. Kant, nella
sua terza Critica, quella in cui sviluppa la sua estetica, parla del
piacere estetico, di ciò che sentiamo davanti al bello, come di un
piacere disinteressato .
Il terzo significato di “interessante” è, secondo me, il più autentico. Esso corrisponde a una possibile etimologia. Il
verbo latino interesse vuole dire partecipare, essere in mezzo a
qualcosa. L’interessante è ciò che si deve attraversare per giungere a
se stessi. L’arte al suo apice è interessante. Come esempio,
possiamo pensare al teatro. Una commedia può essere molto buffa, può
affascinarci, ma non ci dice niente su noi stessi. Non accade lo stesso
in una grande tragedia. In questo caso, si può sempre dire: de te fabula
narratur, la storia che si racconta è la tua. Quello che si svolge
sulla scena non è un oggetto, ma costringe il soggetto a un esame di coscienza. Questo accade quando si leggono la Divina Commedia, il Don Quijote, il Faust, i Fratelli Karamazov, ecc.
Allora, per la concezione pre-moderna della conoscenza, cioè quella antica o medievale,
la natura era interessante nel senso più autentico di questa parola. La
contemplazione della natura ci insegnava quello che siamo e quello che
dobbiamo fare per essere più umani. Lo scrive per esempio
Seneca nella prefazione alle sue ricerche di fisica: lo studio
dell’astronomia permette all’anima umana di scoprire il suo vero luogo
d’origine nei corpi celesti.
Il grande paradosso
Altri dicevano, con il Timeo platonico: dobbiamo imitare l’ordine splendido dei fenomeni celesti per porre ordine anche noi nelle nostre vite.
Questa concezione è irrimediabilmente tramontata. E rimane l’uomo moderno davanti a un grande paradosso: la
conoscenza della natura che gli dà la scienza moderna è mille volte più
vera e più efficace di quella pre-moderna; ma non è per niente affatto
più interessante nel senso che ho appena detto.
La scienza moderna, alleata alla tecnologia che essa rende possibile, è sommamente redditizia. Un solo esempio: la vaccinazione, a cui molti in questo auditorium devono la vita stessa. Questa conoscenza scientifica è anche sommamente affascinante.
Si pensi agli spazi dell’infinitamente grande o dell’infinitamente
piccolo, a tutto ciò che ci mostra il telescopio o il microscopio, per
non parlare di strumenti ancora più precisi.
Tuttavia, questa conoscenza non è interessante.
Prendiamo le scoperte che riguardano l’uomo, per esempio quelle della
paleontologia o della preistoria, o di tutti i rami dell’antropologia.
Tutto questo è affascinante, ma non ci dice niente sui problemi che abbiamo da affrontare nella vita.
Non ci dice niente del “senso della vita”. Più semplicemente, benchè ci
dica moltissime cose sull’uomo come specie vivente, non dice niente su
quello che dice “io”. Non dice nulla di quello che io dovrei fare.
Davanti a questo problema, ci sono due tentazioni opposte:
a) Possiamo conservare la scienza e scordarci del desiderio di capire.
Fare come se l’uomo potesse vivere senza la brama di senso. La scienza
deve essere l’unica sorgente di verità. Questa tesi non la sostiene la
scienza, che non dice niente di sé. La sostiene l’uso ideologico della
scienza, secondo cui potremo guarire l’uomo dal desiderio vano di senso.
Si produce così una specie di mutilazione.
b) Possiamo conservare il desiderio di senso e scordarci della scienza.
Il ritorno a una visione pre-moderna del mondo, superata nel campo
della scienza, ma finora presente nel campo del mito. Si produce una
specie di schizofrenia: si difende una visione del mondo che sappiamo
essere illusoria. Esempio: la Terra era per il mito greco una dea; per
la scienza moderna è un pianeta. Dopo la modernità, non possiamo vederla
più come una dea. Purtroppo, possiamo illuderci e idolatrare Gaia, la
Terra. Questo lo faceva già Auguste Comte, alla fine della sua vita.
Chiamava la Terra il “grande feticcio” .
La
terza via sarebbe una conciliazione tra la conoscenza scientifica
dell’universo e l’interesse vitale. La potremmo cercare nel campo della
fede.
Appare
interessante che né l’uso ideologico della scienza, né l’illusione del
mito, accettano la fede, e specialmente quella cristiana.
Cadute ideologiche
Per
l’ideologia scientista, “credere” è soltanto un modo debole o scarso
del sapere. Da qui la concezione positivistica della religione come
spiegazione primitiva dei fenomeni naturali, una concezione che non
corrisponde a quello che ci dice l’etnologia. La visione mitica del
mondo non accetta la fede. La fede sa quello che crede. Il mito crede di
sapere, o si illude sulla verità di quello che crede. La fede si
sviluppa dove abbiamo a che fare con cose interessanti nel senso che ho
appena delineato. La fede non si oppone alla ragione; la fede è la ragione che prende come oggetto le sue condizioni di possibilità.
La
fede non ci dice nulla sulla costituzione della realtà naturale. Quindi
non si muove nello stesso piano della scienza. Per esempio la fede
nella creazione non ci dice come è fatto il creato, neppure come venne
fatto. Ci lascia liberi di cercare e di costruire modelli di
intelligibilità.
Ma ci dice qualcosa di più fondamentale: ci dice che c’è una intelligibilità delle cose.
Ci dice che il mondo è immerso in una dimensione di carattere
razionale: all’inizio, dice il quarto Vangelo, c’era il Logos, il Verbo,
la ragione. Ci dice
inoltre che questa intelligibilità si radica in una libertà che è la
sorgente della nostra e a cui la nostra libertà può avere accesso, con
cui può entrare in dialogo.
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Postato da: giacabi a 14:05 |
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scienza - articoli
MEETING/
Il Nobel Townes:
dal Laser a Dio, una ricerca accomunata dallo stupore
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INT.
mercoledì 26 agosto 2009
da: http://www.ilsussidiario.net/
Nel
1964 ha vinto il premio Nobel per la fisica, per la scoperta della
tecnologia del maser e del più noto laser; nel 2005 gli è stato
assegnato il premio Templeton per i suoi contributi sulla tematica del
rapporto tra scienza e fede. Tra l’uno e l’altro una catena di altri
premi e riconoscimenti nazionali e internazionali. Così si presenta
Charles Townes alla platea del Meeting di Rimini, dove interverrà oggi
all’incontro clou della giornata sul tema: “L’esperienza umana della
scoperta”, insieme con Yves Coppens, professore Emerito al Collège de
France, con l’astrofisico John Mather, anch’egli Premio Nobel per la
Fisica (nel 2006) e col coordinamento di Marco Bersanelli.
Townes, dall’alto dei suoi 94 anni, è ancora pienamente attivo in campo scientifico tanto che nel giugno scorso è apparso su The Astrophysical Journal Letters
un articolo con i risultati dello studio da lui condotto insieme a un
gruppo di colleghi e relativo ai cambiamenti di dimensione di
Betelgeuse, una supergigante rossa, una delle stelle più luminose del
cielo.
È
inevitabile, nel suo caso, partire da un richiamo alla grande scoperta
che l’ha lanciato, negli anni Cinquanta del secolo scorso, sulla ribalta
scientifica internazionale.
Le
avranno chiesto più volte di raccontare come è arrivato alla scoperta
del maser e poi del laser. Cosa ancor oggi la colpisce di quella
esperienza?
L’aspetto
più impressionante di questa esperienza è stato avere avuto l’idea. Era
l’aprile del 1951 ed ero seduto su una panchina nel Franklin Park di
Washington, nell’intervallo di un convegno sulle microonde e cercavo di
capire come realizzare degli oscillatori ad alta frequenza. Avevo
lavorato su questo problema per molti anni. Avevo provato molte cose, ma
nessuna funzionava e non capivo perché. Il problema era complicato,
perché, secondo le leggi della termodinamica devi rompere le molecole
per avere abbastanza energia e non si poteva disobbedire alla
termodinamica. Improvvisamente mi venne un’idea: provare a realizzare
una specie di cassa di risonanza per la radiazione prodotta dal salto
degli elettroni da un livello energetico più alto a uno più basso.
Riflettendo la radiazione, si poteva innescare una emissione con una
lunghezza d’onda costante. Era l’idea del maser (Microwave Amplification
by Stimulated Emission Radiation). Tirai fuori dalla tasca un pezzo di
carta, scrissi alcune equazioni e mi resi conto che avrebbe potuto
funzionare. Pochissime persone però erano convinte di questo: io avevo
uno studente e un post-doc che lavoravano al sistema cercando di farlo
partire. Dopo due anni, il direttore del dipartimento entrò nel mio
ufficio dicendo: questo non funzionerà… lo sai, vero? Ma solo due mesi
dopo avevamo il primo prototipo: a questo punto tutti volevano lavorare
con noi e diventò molto interessante sia in ambito accademico che in
ambito industriale.
E per arrivare al laser?
A
questo punto iniziai a studiare come raggiungere lunghezze d’onda più
corte: ho scritto le equazioni e mi sono reso conto che si potevano
raggiungere le lunghezze d’onda visibili. Il mio primo obiettivo era
operare sulle alte frequenze, ma ho iniziato con le microonde perché era
la strada più semplice: fin dal principio, volevo usare questo
strumento per la spettroscopia ottica. Con la spettroscopia delle
microonde, avevamo ottenuto risultati estremamente precisi, per cui
volevo muovermi nell’ambito del visibile. Allora ero un consulente ai
Bell Telecom Laboratories, dove lavorava anche mio cognato, Arthur
Schawlow, che era stato mio studente e decise di aiutarmi in questa
impresa. Schawlow ebbe l’idea di usare due specchi paralleli per
riflettere la radiazione avanti e indietro (io avevo pensato di usare
una cavità quadrata). Il fatto interessante, che mostra come le idee
nuove non sempre vengono accettate, è che ho proposto ai Bell
Laboratories di brevettare l’invenzione: ci hanno risposto che non erano
interessati, perché la luce non era mai stata usata nelle
telecomunicazioni (“potete brevettarlo per voi stessi, se siete
interessati”). Per il brevetto, il laser venne denominato “maser ottico”
(il maser era una tecnica molto nota ormai). Sapevo che se avessi
iniziato a lavorare sul sistema, moltissime persone avrebbero tentato di
competere con me: quando avevo costruito il maser, nessun altro era
interessato, per cui avevamo potuto prenderci tutto il tempo necessario.
Per questo motivo, io e Schawlow decidemmo di scrivere un articolo
teorico su come costruire un maser ottico e molti gruppi furono
entusiasti all’idea di lavorare in questa direzione. I primi laser
vennero tutti costruiti in ambito industriale.
Gli
studi che hanno portato al laser sono stati importanti solo per le
applicazioni tecnologiche più note o ci fanno capire meglio qualche
aspetto del comportamento della natura?
Mi
sono reso conto che il laser sarebbe stato importante in moltissimi
modi: per misurare distanze, per misurare linee rette, per tagliare e
saldare (era uno strumento molto potente, con un’altissima
concentrazione di energia). Ma non fui capace di riconoscere le
molteplici applicazioni mediche del laser: per curare gli occhi, per
esempio. Moltissime scoperte scientifiche sono state ottenute tramite
l’uso del laser e questo era il motivo per cui l’avevo inventato, per
studiare problemi scientifici. Finora, una dozzina di premi Nobel sono
stati attribuiti a ricerche effettuate con questa mia invenzione, che
comprendono importantissimi contributi in diversi ambiti della scienza,
specialmente dove sono necessarie misure di altissima precisione o
misure spettrali.
Papa
Benedetto XVI nel messaggio inviato a questo Meeting 2009 ha parlato
del coinvolgimento personale con l’oggetto conosciuto come conditio sino qua non per la conoscenza, contro l’idea di una astratta oggettività. Quanto conta la passione nella scoperta scientifica?
La
passione e l’interesse sono importantissimi per fare delle scoperte:
per essere un buono scienziato, devi essere molto interessato. Fare
scienza è affascinante e divertente, mi piace raccontare che io non ho
mai lavorato nella mia vita: faccio ricerca e mi diverto un sacco. Da
sempre faccio le cose che mi piacciono: ho seguito il mio interesse per
le lunghezze d’onda corte e ho lavorato su questo problema in diversi
modi, finché ho avuto l’idea giusta.
Qual
è stata la sua reazione all’annuncio che le avevano assegnato il premio
Templeton? Le era già capitato di esprimere pubblicamente la sua
posizione di credente?
Fui molto felice e orgoglioso di ricevere il Premio Templeton. Sono
molto interessato alle idee religiose e penso che la religione sia
molto importante per tutti gli esseri umani. Credo in Dio e credo che la
spiritualità sia molto importante per me. Nello stesso
anno del conferimento del Nobel, fui invitato dal Men’s Bible study
Group del Manhattan’s Riverside Church (vicino a Columbia) a parlare del
rapporto tra scienza e religione. Ero
stato selezionato perché ero l’unico scienziato da loro conosciuto che
andava regolarmente in chiesa. Sulla base di questa prima conferenza sul
rapporto fra scienza e religione, nel 1966 scrissi l’articolo La convergenza tra scienza e religione, che venne pubblicato sull’IBM Journal Think
e, in seguito, sul Massachuttes Institute of Technology (MIT) Alumni
Journal e in molte altre pubblicazioni, in cui mi dichiaravo sostenitore
dell'affinità tra le due discipline. Sono stato uno dei primi
scienziati a parlare pubblicamente del rapporto fra scienza e religione
in termini positivi.
Cos’hanno detto i suoi colleghi quando hanno saputo che lei è un devoto cristiano?
In
realtà ci sono molti più scienziati credenti di quanto si pensi.
Certamente alcuni dei miei colleghi pensavano che fossi pazzo: mi
tolleravano ma pensavano che fossi un po’ pazzo.
In questi anni è cambiata la posizione degli scienziati sul possibile costruttivo dialogo tra scienza e fede?
Penso
che quello che ho detto e scritto abbia contribuito, in questi anni, a
migliorare questa situazione: gli scienziati cercano di avere una
mentalità molto più aperta verso la religiosità e c’è un dialogo molto
costruttivo in entrambe le direzioni.
Quando la interrogano sulla sua esperienza di scienziato credente, su quali punti preferisce soffermarsi?
La
religione è stata molto importante nella mia vita. Sono sempre stato
ispirato e guidato dalla religione. La religione mi ha aiutato a capire
meglio la scienza? È difficile da dire, non lo so ma credo di sì.
Certamente la religione mi ha offerto un punto di vista, una posizione
circa il modo di lavorare e così via. Ha formato e influenzato la mia
vita in moltissimi modi: certamente nella mia famiglia, ma sicuramente
anche nel come faccio scienza. E mi ha insegnato a sostenere le mie
idee, mi ha dato il coraggio di essere me stesso quando la gente mi dice
che ho torto: devo credere a quello che penso, non a quello che mi
dicono. Mi ha insegnato a rischiare per le mie idee, quando altra gente
non era d’accordo con me.
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Postato da: giacabi a 21:00 |
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scienza - articoli
Fede fra ragione e sentimento
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1. La crisi della fede nel mondo contemporaneo
Nei
suoi dialoghi «sulla fìsica atomica» Werner Heisenberg racconta di un
incontro che ebbe luogo nel 1927 a Bruxelles con alcuni giovani fisici,
al quale oltre allo stesso Heisenberg partecipavano anche Wolfgang Pauli
e Paul Dirac. Si venne a parlare del fatto che Einstein faccia spesso
menzione di Dio e che Max Planck sia dell’idea che non esista nessun contrasto tra scienza e religione; entrambe sarebbero – ciò che allora era un concetto abbastanza sorprendente – molto ben conciliabili fra loro. Heisenberg
interpretava questa nuova apertura dello scienziato alla religione a
partire dalle esperienze della propria casa paterna. Al fondo vi è la
concezione che nella scienza e nella religione si tratti di due sfere
completamente diverse, senza interferenze reciproche: nella scienza si
tratta del vero o del falso; nella religione del buono e del cattivo, di
ciò che ha valore o non ha valore. I due ambiti vengono riferiti
separatamente all’aspetto oggettivo e a quello soggettivo del mondo.
«La scienza è per così dire il modo, con cui noi affrontiamo la
dimensione obiettiva della realtà... La fede religiosa è invece
l’espressione di una decisione soggettiva, con la quale stabiliamo per
noi i valori, secondo i quali ci regoliamo nella vita»[1]. Questa
decisione avrebbe naturalmente diversi presupposti nella storia e nella
cultura, nell’educazione e nell’ambiente, ma sarebbe – Heisenberg
descrive ancora sempre l’immagine del mondo dei suoi genitori e quella di
Max Planck – in ultima analisi soggettiva e pertanto non esposta al
criterio «vero o falso». Planck si sarebbe in questo modo deciso
soggettivamente per il mondo dei valori cristiani; i due ambiti –
aspetto oggettivo e soggettivo del mondo – rimanevano però accuratamente
distinti. A questo punto Heisenberg aggiunge: «Devo
confessare che a me questa separazione è causa di disagio. Dubito che
comunità umane possano vivere a lungo con questa netta spaccatura fra
scienza e fede»[2]. A questo punto prende la parola Wolfgang Pauli e rafforza il dubbio di Heisenberg, elevandolo addirittura a certezza: «La
totale separazione fra scienza e fede è certamente un espediente per un
tempo molto limitato. Nell’ambiente culturale occidentale ad esempio in
un futuro non troppo lontano potrebbe giungere il momento, in cui le
metafore e le immagini della religione finora dominante non avranno più
nessuna forza di convinzione neppure per la gente semplice; allora, così
temo, anche l’etica finora vigente crollerà in brevissimo tempo ed
accadranno cose di un’atrocità, che oggi noi non ci possiamo ancora
neppure immaginare» [3].
Nel
frattempo il crollo delle antiche certezze religiose che allora, 70
anni fa, si stava solo preannunciando è divenuto ampiamente realtà, ed
il timore di un crollo ad esso inevitabilmente connesso dell’etica
intera diviene più forte e generale.
Non vorrei qui soffermarmi ulteriormente a descrivere come Heisenberg
con i suoi amici tanto nel dialogo del 1927 come in uno analogo del
1952, tenti di aprire una via per uscire da questa schizofrenia della
modernità, cerchi a partire da un pensiero scientifico che si interroga
sui suoi fondamenti di giungere ad una visione generale ed organica, che
divenga punto di riferimento del nostro agire e allo stesso tempo
appartenga sia all’ambito soggettivo che oggettivo [4]. Infatti questo è il problema, che il tema di questa conferenza pone.
Cerchiamo pertanto innanzitutto di riassumere e di precisare che cosa è emerso fino ad ora. L’illuminismo
aveva perseguito l’ideale della «religione all’interno dei confini
della ragion pura». Ma questa religione della ragione pura si è presto
sgretolata, e soprattutto non aveva nessuna forza che sostenesse la
vita: una religione, che deve diventare la forza portante per tutta la
vita, necessita infatti di una certa evidenza. La decadenza delle
antiche religioni come la crisi del cristianesimo nell’epoca moderna
rivelano questo: quando la religione non può più armonizzarsi con le
certezze elementari di una determinata visione del mondo, essa si
dissolve. Ma d’altra parte la religione ha bisogno di un’autorevolezza,
che vada al di là di ciò che si può pensare da se stesso, infatti solo
così è accettabile l’istanza assoluta, che essa pone agli uomini.
Così dopo la fine dell’illuminismo a partire dalla consapevolezza
dell’irrinunciabilità della dimensione religiosa si è andati alla
ricerca di un nuovo spazio per la religione, nel quale essa al riparo
per così dire dalle continue scoperte della ragione, doveva poter vivere
in una costellazione non più raggiungibile, da quella non minacciata.
Perciò le si era attribuito il «sentimento» come l’ambito dell’esistenza
umana ad essa proprio. È divenuta classica la risposta di Faust alla domanda di Margherita sulla religione: «Il sentimento è tutto. Il nome è suono e fumo...». Ma
la religione, per quanto sia anche necessaria la sua distinzione dal
piano della scienza, non si può ridurre ad un ambito particolare. Essa
esiste proprio per questo, per integrare l’uomo nella sua totalità, per
unire reciprocamente in modo organico sentimento, ragione e volontà e
per dare una risposta alla provocazione della totalità, alla sfida della
vita e della morte, della comunità e dell’io, del presente e del
futuro. Non deve avere la presunzione di risolvere quei problemi, che
hanno le loro proprie leggi interne, ma deve rendere capaci di decisioni
ultime, nelle quali è in gioco sempre la totalità dell’uomo e del mondo.
E proprio di qui deriva in verità la nostra situazione di difficoltà,
dal fatto che oggi dividiamo il mondo in modo settoriale e così in un
modo finora mai visto possiamo disporne nel pensiero e nell’azione, ma
gli interrogativi non rinviabili circa la verità ed i valori, circa la
vita e la morte diventano così sempre più irresolubili.
La
crisi dell’epoca presente deriva proprio dal fatto che è venuta meno la
mediazione fra l’ambito soggettivo e quello oggettivo, ragione e
sentimento si allontanano sempre più l’uno dall’altra e così perdono
entrambi di vigore e di vitalità.
Infatti la ragione settorialmente specializzata è sì incredibilmente
forte e capace di risultati, ma a motivo della standardizzazione di un
unico tipo di certezza e di ragionevolezza non permette più uno sguardo
che penetri le questioni fondamentali dell’essere umano. Ne
segue un’ipertrofia nell’ambito della conoscenza tecnico-pragmatica,
alla quale si contrappone un’atrofizzazione nell’ambito delle questioni
di fondo e così un disturbo dell’equilibrio generale, che può divenire
mortale per l’umanità. Da
parte sua per altro la religione oggi non è affatto scomparsa. Esiste
anzi da molteplici punti di vista un aumento della richiesta religiosa,
che però si sgretola nel particolarismo, si distacca dal suo grande
contesto spirituale e, invece di innalzare l’uomo, gli promette un
aumento di potere e una soddisfazione di bisogni. L’irrazionale, il
superstizioso, il magico viene ricercato; incombe la minaccia di un
ritorno a forme anarchico-distruttrici di interazione con potenze e
forze occulte. Si potrebbe essere tentati di dire che oggi non vi è
nessuna crisi della religione, ma piuttosto una crisi del cristianesimo.
Io però non sarei d’accordo. Infatti il semplice diffondersi di
fenomeni religiosi o parareligiosi non è ancora una fioritura della
religione. Quando si assiste ad un aumento di forme morbose del fenomeno
religioso, ciò dimostra sì che la religione non va scomparendo, ma
rivela che essa è di fatto in una condizione di seria crisi. Anche il
fenomeno apparente, secondo cui al posto del cristianesimo ormai allo
stremo siano ora in ascesa le religioni asiatiche o l’Islam, inganna. È
evidente che in Cina e in Giappone le grandi religioni tradizionali non
riescono a fare fronte o solo in modo insufficiente alla pressione delle
ideologie moderne. Ma anche la vitalità religiosa dell’India non toglie
nulla al rilievo, che anche là non è finora riuscito un felice incontro
fra i nuovi problemi e le antiche tradizioni. Quanto il nuovo slancio
del mondo islamico sia nutrito da forze autenticamente religiose, resta
ugualmente da chiederselo. Sotto molti aspetti – lo vediamo – è in
agguato anche qui la minaccia di un’autonomizzazione patologica del
sentimento, che rafforza soltanto la minaccia di quelle atrocità, di cui
Pauli, Heisenberg ed altri ci hanno parlato.
Non
c’è alternativa: ragione e religione devono ritornare insieme, senza
dissolversi l’una nell’altra. Non è in questione la tutela degli
interessi di antiche corporazioni religiose. È in questione l’uomo, è in
questione il mondo. Ed entrambi non sono evidentemente salvabili, se
Dio non si rende visibile in un modo convincente. Nessuno può avere la
presunzione di conoscere una soluzione perfetta, per come risolvere
questa situazione di difficoltà. Questo non è possibile già per il fatto
che in una società libera la verità non può e non deve cercare altri
mezzi per affermarsi se non la forza della convinzione, ma la
convinzione si forma solo a fatica nella molteplicità delle impressioni e
delle istanze che premono sugli uomini. Un tentativo di trovare la via
d’uscita deve però essere fatto, anche per ridare plausibilità,
attraverso convergenze che si manifestano, a ciò che per lo più si trova
molto al di là dell’orizzonte dei nostri interessi.
2. Il Dio di Abramo
Non
è mia intenzione riprendere qui il tentativo di Heisenberg di trovare a
partire dalla logica propria del pensiero scientifico l’autosuperamento
della scienza e l’approdo ad una «visione generale ed organica», per
quanto utile e indispensabile tale ricerca sia. Il mio tentativo in
questa conferenza tende a mettere in luce, per così dire, l’interiore
razionalità del fatto cristiano. Questo si realizzerà nel senso che ci
chiederemo che cosa ha propriamente dato al cristianesimo nel crollo
delle religioni del mondo antico quella forza di convinzione, per cui
esso da una parte ha arrestato l’affondare di quel mondo e allo stesso
tempo fu in grado di trasmettere in tal modo le sue risposte alle nuove
forze che stavano entrando sulla scena della storia del mondo, i germani
e gli slavi, che di qui nonostante molte trasformazioni e crolli è nata
una forma di comprensione della realtà che è durata oltre un millennio e
mezzo, nel quale antico e nuovo mondo poterono fondersi.
Cercherò
quindi di mostrare brevemente l’interiore razionalità del
cristianesimo. Ma la religione cristiana non è un sistema, è una storia,
un cammino. L’essenza del cristianesimo appare solo nella logica del
suo cammino storico. Perciò cercherò di mostrare la logica, che si
dischiude nell’evolgersi storico della fede, sperando che così appaia
una razionalità profonda, che ha il suo valore anche oggi, proprio oggi.
Quel cammino che ebbe il suo inizio con Abramo. Naturalmente non posso e
non intendo qui entrare nel groviglio delle molteplici ipotesi circa
ciò che negli antichi racconti può essere considerato come storico e ciò
che non può esserlo. Qui si tratta solo di chiedersi come vedono quel
cammino quei testi stessi che alla fine sono stati decisivi per la
storia.
Chi
era quest’uomo Abramo, al quale si riferiscono ebrei, cristiani,
musulmani? Qui vi è allora da dire che Abramo era un uomo, che aveva la
consapevolezza di essere stato interpellato da un Dio e che conformò la
sua vita a partire da questa parola. Si potrebbe pensare per qualcosa di
simile a Socrate, al quale un «daimonion», una singolare forma di
ispirazione, pur non rivelando di fatto niente di positivo, tuttavia
sbarrava la strada, se egli voleva abbandonarsi solo alle sue proprie
idee o accodarsi all’opinione generale [5]. Quale interesse può avere
per noi questo Dio di Abramo? Questo Essere, che parla ad Abramo, non si
presenta ancora con la precisa fisionomia monoteistica dell’unico Dio
di tutti gli uomini e di tutto il mondo, ma ha però una fisionomia molto
specifica. Questo
Essere, questa voce non è il Dio di una determinata nazione, di un
determinato territorio; non il Dio di un determinato ambito, ad esempio
dell’aria o dell’acqua, ecc., che nel contesto religioso di allora erano
alcune delle più importanti forme di manifestazione del divino. Egli è
il Dio di una persona, e cioè di Abramo. Questa particolarità di non
appartenere ad una terra, ad un popolo, ad un ambito vitale, ma di
associarsi ad una persona, ha due conseguenze degne di menzione.
La
prima conseguenza era che questo Essere, questo Dio può esercitare
ovunque il suo potere in favore di colui che gli appartiene, della
persona da lui eletta. Il suo potere non è vincolato a determinati
limiti geografici o di altro tipo, ma egli può accompagnare, proteggere,
guidare quella persona, ovunque egli vuole e ovunque questa persona si
rechi. Anche la promessa della terra non lo rende il Dio di un
territorio, che poi diverrebbe quello soltanto suo. Essa mostra
piuttosto che egli può distribuire terre, come vuole. Possiamo quindi
dire: II Dio-di-una-per-sona opera prescindendo dal luogo. A ciò si
aggiunge come secondo elemento che egli opera anche transtemporalmente,
anzi, la sua forma di parlare e di agire è essenzialmente il futuro. La
sua dimensione sembra – a prima vista in ogni caso –principalmente
essere il futuro, e meno il presente. Tutto l’essenziale è dato nella
categoria della promessa di ciò che verrà – la benedizione, la terra.
Ciò significa che manifestamente egli può disporre del futuro, del
tempo. Per la persona interessata ciò comporta un atteggiamento di forma
del tutto particolare. Essa deve sempre vivere al di là del presente,
una vita verso qualcosa di altro, di più grande. Il presente viene
relativizzato. Se infine – questo potrebbe essere un terzo elemento – si
indica la proprietà particolare di un Dio, il suo essere altro rispetto
agli altri e all’altro con il concetto di «santità», allora diviene
visibile che questa sua santità, il suo essere stesso ha qualcosa a che
fare con la dignità dell’uomo, con la sua integrità morale, come la
storia di Sodoma e Gomorra mostra. In essa viene messa in luce da una
parte la provvidenza, la bontà di questo Dio, che a motivo di alcuni
buoni è disposto anche a risparmiare i cattivi; ma viene messo in luce
anche il no alla distruzione della dignità umana, che si esprime proprio
nel giudizio sulle due città.
3. Crisi e allargamento della fede di Israele nell’esilio
Nello
sviluppo successivo fino all’alleanza delle dodici tribù, con
l’occupazione della terra, la nascita della monarchia, la costruzione
del tempio ed una legislazione cultuale ampiamente differenziata la
religione di Israele sembra immergersi largamente nel modello religioso
del vicino Oriente. Il Dio dei padri, il Dio del Sinai, è ora divenuto
il Dio di un popolo, di una terra, di un determinato ordinamento di
vita. Che questo non sia tutto, che qualcosa di specifico resti e che in
tutti i mutamenti della vita religiosa in Israele la particolarità, la
diversità della sua fede in Dio si apra un varco, anzi si ampli
ulteriormente, si rivela nel momento dell’esilio. Normalmente un Dio che
perde la sua terra, lascia il suo popolo sconfitto e non è stato in
grado di difendere il suo santuario, è un Dio detronizzato. Non ha più
nulla da dire. Scompare dalla storia. Nell’esilio
di Israele sorprendentemente avviene il contrario. Emerge la grandezza
di questo Dio, la sua totale alterità rispetto alle divinità delle altre
religioni, la fede di Israele acquista soltanto ora la sua vera
grandezza. Questo Dio può permettersi di lasciare ad altri la sua terra,
perché non è legato a nessuna terra. Può lasciare che il suo popolo sia
vinto, per risvegliarlo proprio così dai suoi falsi sogni religiosi.
Non dipende da questo popolo, ma non lo lascia affondare nella
sconfitta. Non dipende dal tempio e dal culto ivi celebrato, secondo
quella che è la concezione comune: gli uomini nutrono gli dei, e gli dei
sostengono il mondo. No, non ha bisogno di questo culto, che celava
sotto un certo aspetto la sua essenza. Così insieme ad una approfondita
immagine di Dio si fa luce anche una nuova idea di culto. Certamente già
dal tempo di Salomone si era verificata l’equiparazione del Dio
personale dei padri con il Dio di tutti, il creatore, che tutte le
religioni conoscono, ma generalmente escludono dal culto come Dio non
competente per le proprie necessità. Questa identificazione compiutasi
in linea di principio, anche se fino allora nella coscienza
verosimilmente poco efficace diviene ora la forza della sopravvivenza:
Israele non ha un Dio particolare, ma adora semplicemente l’unico Dio
esistente. Questo Dio ha parlato ad Abramo ed ha scelto Israele, ma in
realtà egli è il Dio di tutti i popoli, il Dio comune, che guida tutta
la storia. Ne consegue la purificazione dell’idea di culto. Dio non ha
bisogno di nessun sacrificio, egli non deve essere mantenuto dagli
uomini, perché tutto gli appartiene. Il vero sacrificio è l’uomo che è
divenuto conforme al piano di Dio. 300 anni dopo l’esilio, nella crisi
altrettanto grave della soppressione ellenistica del culto del tempio,
il libro di Daniele così si esprime: «Ora non abbiamo più né principe né
profeta..., né sacrificio, né oblazione... né luogo per presentarti le
primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore
contrito e con lo spirito umiliato» (Dn 3,38s). Con il venir meno di un
presente conforme alla potenza e alla bontà di Dio emerge anche
nuovamente in modo più forte la dimensione del futuro nella fede di
Israele, ovvero diciamo forse meglio: si fa strada la relativizzazione
del presente, che può essere correttamente padroneggiata e compresa solo
in un orizzonte più ampio, che superi il momento attuale, anzi tutto
quanto il mondo.
4. Il cammino verso la religione universale dopo l’esilio
I
500 anni dopo l’esilio fino all’arrivo di Cristo sono caratterizzati
soprattutto da due fattori nuovi. Vi è innanzitutto il nascere della
cosiddetta letteratura sapienziale e il movimento spirituale che è alla
sua base. Accanto alla legge ed ai profeti, dai cui libri lentamente
cominciò a formarsi un canone delle Scritture come normativo della
religione di Israele, appare
un terzo pilastro - appunto la sapienza [6]. Essa viene dapprima
influenzata soprattutto dalle tradizioni sapienziali egiziane, ma poi
lascia trasparire sempre più anche i contatti con la cultura greca. Qui
viene soprattutto approfondita la fede in un solo Dio e radicalizzata la
critica degli idoli, che già si manifestava presso i profeti. Il
monoteismo viene ulteriormente chiarito e guadagna in forza razionale
attraverso il collegamento con il tentativo di una comprensione
razionale del mondo. L’elemento di unione fra la concezione di Dio e la
spiegazione del mondo viene trovato nel concetto di sapienza. La
razionalità, che si manifesta nella struttura del mondo, viene compresa
come un riflesso della sapienza creatrice, dalla quale esso deriva. La
visione della realtà, che ora si va formando, corrisponde press’a poco
alla questione, che formula Heisenberg nei
dialoghi sopramenzionati, quando dice: «È dunque completamente
insensato pensare dietro alle strutture ordinanti del mondo nel suo
insieme una "coscienza", di cui esso sarebbe lo "scopo"?» [7]. Nel
dibattito contemporaneo sul rapporto fra natura e spirito, in
particolare nell’uomo, viene sollevata la questione della unità della
realtà e la questione delle origini. La scienza suppone oggi la priorità
della materia come origine di tutto; rimane tuttavia la domanda: il
fenomeno spirito è riducibile totalmente alla materia o si deve rilevare
una sporgenza inspiegabile? [8] Se la priorità della materia determina
oggi il modo di porre la questione, nella riflessione della sapienza
biblica e greca si trova la posizione opposta: Si suppone la priorità
dello spirito, che lo spirito sia in condizione di suscitare la materia e
sia da considerare come il vero punto di partenza della realtà; resta
quindi il problema inverso: Esiste eventualmente una sporgenza oscura,
che non si lascia più ricondurre allo spirito creatore? La domanda deve
essere ammessa se una tale visione ha di per sé meno verosimiglianza
della visione moderna formulata in modo radicale da Monod, il quale
dice: Tutto il concerto della natura è il risultato di stonature, non
suppone nessuna razionalità precedente [9]. La
visione dei libri sapienziali vede il mondo come riflesso della
razionalità del creatore e permette così anche la connessione di
cosmologia e antropologia, di comprensione del mondo e di moralità,
perché la sapienza, che edifica la materia ed il mondo, è allo stesso
tempo una sapienza morale, che indica le direzioni essenziali
dell’esistenza. Tutta quanta la Torah, la legge di vita di Israele,
viene ora concepita come autorappresentazione della sapienza, come la
sua traduzione in discorso ed in indicazioni umane. Da tutto questo
scaturisce una evidente vicinanza con la cultura greca, da una parte con
i motivi del platonismo, dall’altra con la connessione stoica di
spiegazione divina del mondo e morale.
La
questione della sporgenza del non divino, dell’irrazionale nel mondo,
che abbiamo prima toccato, assume nella letteratura sapienziale con la
questione della teodicea la forma di una lotta drammatica: il grande
tema diviene l’esperienza del dolore nel mondo - di un mondo, nel quale
il diritto, il bene, la verità perdono continuamente di fronte alla
mancanza di scrupoli dei potenti. Questo comporta a partire ora da un
punto di vista totalmente altro un approfondimento della morale, che si
distacca dal problema del successo e cerca un senso proprio nella
sofferenza, nella sconfitta della giustizia. Alla fine appare in Giobbe
al di fuori dei confini di Israele la figura del pio esemplare ed allo
stesso tempo del sofferente esemplare [10].
All’avvicinamento
inferiore al mondo culturale greco, al suo illuminismo ed alla sua
filosofia, corrisponde quindi logicamente un secondo passo importante:
il trapasso del giudaismo nel mondo greco, che si è compiuto soprattutto
in Alessandria come luogo centrale dell’incontro delle culture.
L’evento più importante in questo processo fu la traduzione dell’Antico
Testamento in greco, il cui blocco fondamentale - i cinque libri di Mosè
- era già completato nel terzo secolo avanti Cristo. Fino al primo
secolo si formò quindi un canone greco dei libri sacri, che fu assunto
dai cristiani come il loro canone dell’Antico Testamento [11]. La
denominazione di questa traduzione greca della Bibbia
veterotestamentaria come «Septuaginta» (libro dei 70) si fonda
sull’antica leggenda, secondo cui la traduzione sarebbe stata l’opera di
70 sapienti. 70 secondo Dt 32,8 era il numero dei popoli del mondo.
Così questa leggenda potrebbe significare che con questa traduzione
l’Antico Testamento esce da Israele e giunge ai popoli della terra. Ciò
fu di fatto l’effetto di questo libro, che nella sua traduzione sotto
molti aspetti accentuò ulteriormente il tratto universalistico nella
religione d’Israele - non da ultimo nell’immagine di Dio, se ora il nome
divino JHWH non appare come tale, ma viene sostituito dalla parola
Kyrios - Signore. Così la concezione spirituale di Dio dell’Antico
Testamento viene ulteriormente approfondita, ciò che era del tutto
conforme all’orientamento interno dello sviluppo sopra accennato.
La
fede d’Israele, come si rispecchiava nei suoi libri sacri, ora tradotti
in greco, divenne immediatamente elemento affascinante per lo spirito
illuminato degli antichi, le cui religioni dopo la critica socratica
avevano perduto sempre più la loro credibilità. Nel
mondo ellenistico, accanto a correnti di cinismo o puro pragmatismo,
era emersa la nostalgia di una religione compatibile con la nuova
razionalità che nondimeno superasse le possibilità proprie della
ragione. Così da una parte si va alla ricerca delle promesse dei culti
misterici, che giungono dall’Oriente, dall’altra la fede giudaica appare
come la risposta attesa. Qui, nella fede giudaica presentata
nell’Antico Testamento, vi è infatti un collegamento fra Dio ed il
mondo, fra razionalità e rivelazione, che rispondeva esattamente ai
postulati della ragione ed al più profondo anelito religioso. Qui vi è
il monoteismo, che non deriva da speculazione filosofica restando quindi
religiosamente privo di efficacia, perché non si possono adorare le
proprie ipotesi fìlosofiche. Questo monoteismo proviene da esperienze
religiose originarie e conferma ora dall’alto, per così dire, ciò che il
pensiero aveva cercato a tentoni. La religione di Israele deve aver
avuto per i circoli più eletti della tarda antichità un fascino analogo a
quello, che il mondo della Cina ebbe nel tempo dell’illuminismo per
l’Europa occidentale, quando si pensava (a torto, come oggi sappiamo) di
aver finalmente trovato una società senza rivelazione e misteri, una
religione della morale e della ragione pura. Così si era formata in
tutto il mondo antico una rete di cosiddetti timorati di Dio, che si
appoggiavano alla Sinagoga ed al suo puro culto della Parola,
consapevoli nell’appoggiarsi alla fede di Israele di essere in contatto
con l’unico Dio. Questa rete di timorati di Dio secondo la fede di
Israele divenuta greca fu il presupposto della missione cristiana: il
cristianesimo fu quella figura del giudaismo allargatasi all’universale,
nella quale era ora pienamente donato quanto l’Antico Testamento non
era finora riuscito a dare.
5. Cristianesimo come sintesi di fede e ragione
La
fede di Israele rappresentata nella Settanta manifestava la consonanza
di Dio e mondo, di ragione e mistero. Dava indicazioni morali, ma
nondimeno qualcosa mancava: il Dio universale era pur sempre legato ad
un determinato popolo; la morale universale era collegata con forme di
vita molto particolari, che non potevano affatto essere vissute al di
fuori di Israele; il culto spirituale era pur sempre legato a rituali
del tempio, che si potevano interpretare in modo simbolico, ma che in
fondo erano stati superati dalla critica profetica e non erano più
appropriabili per lo spirito critico. Un non giudeo poteva sempre solo
collocarsi in un cerchio esterno di questa religione. Rimaneva
«proselita», perché la piena appartenenza era collegata alla discendenza
di sangue da Abramo, ad una comunità etnica. Restava anche il dilemma
di quanto ora in realtà lo specifico giudaico era necessario per poter
servire questo Dio correttamente ed a chi spettava tracciare i confini
fra l’irrinunciabile e ciò che era storicamente accidentale o superato.
Una piena universalità non era possibile, perché non era possibile una
piena appartenenza. Solo
il cristianesimo ha portato qui il superamento delle frontiere, ha
«abbattuto il muro» (Ef 2,14), e questo in un triplice senso: i legami
di sangue con il padre della stirpe non sono più necessari, perché
l’unione con Gesù opera la piena appartenenza, la vera parentela. Ognuno
può ora appartenere totalmente a questo Dio, tutti gli uomini devono
essere ammessi e poter diventare il suo popolo. Gli ordinamenti
particolari del diritto e della morale non obbligano più; sono divenuti
una prefigurazione storica, perché nella persona di Gesù Cristo tutto è
stato riassunto e chi lo segue, porta ed adempie in sé tutta l’essenza
della legge. L’antico culto è decaduto e superato nell’autodonazione di
Gesù a Dio e agli uomini, che ora si manifesta come il vero sacrificio,
come il culto spirituale, nel quale Dio e uomo si abbracciano e vengono
riconciliati, e per tutto ciò sta come reale ed in ogni tempo presente
certezza la Cena del Signore, l’Eucaristia. Così il movimento
spirituale, che era riconoscibile nel cammino di Israele, era giunto al
suo scopo, la universalità senza limitazioni era ora possibilità
pratica. Ragione e mistero si incontravano; proprio l’unificazione del
tutto in un’unica persona aveva aperto le porte per tutti: a partire
dall’unico Dio tutti gli uomini possono essere fratelli. Ed anche il
tema della speranza e del presente assume una nuova forma: il presente
va verso il risorto, verso un mondo, nel quale Dio sarà tutto in tutti.
Ma proprio a partire di qui anche come presente esso diviene
significativo e importante, perché esso ora è già impregnato della
vicinanza del risorto e la morte non ha più l’ultima parola.
6. Alla ricerca di una nuova evidenza
Può
questa evidenza, che allora colpì in modo così profondo e trasformò il
mondo antico, essere nuovamente ripristinata? Oppure essa è
irrimediabilmente perduta? Che cosa le è di ostacolo? Vi sono molte
cause della sua attuale decadenza, ma direi che la più importante
consiste nell’autolimitazione della ragione, che paradossalmente si
fonda sui suoi successi: le norme metodologiche, che hanno permesso il
suo successo, con la loro generalizzazione sono divenute una prigione.
Le scienze della natura, che hanno costruito il nuovo mondo, si fondano
su di una base filosofica, che ultimamente è da ricercare presso Platone
[12]. Copernico, Galilei, anche Newton erano platonici. Il
loro presupposto di fondo era che il mondo è strutturato
matematicamente, spiritualmente e che lo si può decifrare e rendere
comprensibile e utilizzabile nell’esperimento a partire da questo
presupposto. La novità consiste nell’unione di platonismo ed empiria, di
idea ed esperimento. L’esperimento si fonda su di una precedente idea
interpretativa, che poi nella prova pratica viene esplorata, corretta e
dischiusa per ulteriori problemi. Solo questa anticipazione matematica
permette poi generalizzazioni, la conoscenza di leggi, che rendono
possibile un’adeguata azione. Tutto il pensiero scientifico e tutte le
applicazioni tecniche si fondano sul presupposto che il mondo è ordinato
secondo leggi spirituali, porta in sé uno spirito, che può essere
riprodotto dal nostro spirito. Ma nello stesso tempo la sua percezione è
collegata alla verifica tramite l’esperienza. Ogni pensiero, che non
tenesse conto di questa connessione, e considerasse resistenza di uno
spirito in se stesso o che preesiste al mondo presente, contraddice la
disciplina metodica della scienza ed è pertanto ostracizzato come forma
di pensiero prescientifica, non scientifica. Il Logos, la sapienza,
della quale da una parte i Greci, dall’altra Israele hanno parlato, è
ridotta nel mondo materiale e non più rintracciabile al di fuori di
esso. All’interno del cammino specifico della scienza della natura
questa limitazione è giusta e necessaria. Se però essa viene proclamata
come forma insuperabile del pensiero umano, il fondamento stesso della
scienza diviene contraddittorio. Infatti essa allo stesso tempo afferma e
nega lo spirito. Soprattutto però una ragione così autolimitantesi è
una ragione amputata. Se l’uomo non può più interrogarsi ragionevolmente
sulle cose essenziali della sua vita, sulla sua origine e sul suo
destino, su quello che deve e può fare, sulla vita e sulla morte, ma
deve lasciare questi problemi decisivi ad un sentimento separato dalla
ragione, allora egli non innalza la ragione, ma le toglie dignità. La
disintegrazione dell’uomo, così introdotta, fa insorgere allo stesso
tempo la patologia della religione e la patologia della scienza. Che
oggi nella separazione della religione dalla responsabilità davanti alla
ragione si producano in misura crescente forme patologiche di
religione, è manifesto. Ma se si pensa a progetti scientifici
spregiativi dell’uomo come la clonazione di uomini, la produzione di
feti, cioè di esseri umani allo scopo di utilizzare gli organi per la
produzione di prodotti farmaceutici o anche semplicemente per
utilizzazioni commerciali o anche se ricordiamo la strumentalizzazione
della scienza per la produzione di mezzi di distruzione dell’uomo e del
mondo sempre più spaventosi, allora è evidente che esiste anche una
scienza che è divenuta patologica: la scienza diviene patologica e
pericolosa per la vita, laddove essa si distacca dal contesto
dell’ordine morale dell’essere umano e riconosce soltanto ancora
autonomamente le sue proprie possibilità come suo unico criterio
ammissibile.
Questo
vuol dire che il raggio della ragione deve di nuovo allargarsi.
Dobbiamo nuovamente uscire dalla prigione che ci si è costruiti e
riconoscere nuovamente altre forme di accertamento, nelle quali tutto
l’uomo è in gioco. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di analogo a
quello che troviamo in Socrate: una disponibilità che attende, che si
tiene aperta e guarda al di fuori di se stessi. Questa disponibilità ha a
suo tempo unito insieme i due mondi culturali - Atene e Gerusalemme -
ed ha reso possibile una nuova ora della storia. Abbiamo bisogno di una
nuova disponibilità della ricerca ed anche l’umiltà, che si lascia
trovare. Il rigore della disciplina metodologica non può essere solo
volontà di risultati, essa deve essere anche volontà di verità,
disponibilità per essa. Il rigore metodologico, continuamente
necessario, nel sottomettersi a ciò che si va scoprendo e non
nell’imporre i propri desideri, può formare una grande scuola
dell’essere uomo e preparare uomini capaci di verità. L’umiltà, che si
inchina alla scoperta e non la manipola, non può però divenire falsa
modestia, che toglie il coraggio della verità. Tanto più essa deve
contrapporsi alla ricerca di potere, che vuole soltanto dominare il
mondo e non più scoprirne la logica interna propria, che pone limiti
alla nostra volontà di dominio. Le catastrofi ecologiche potrebbero qui
divenire un avvertimento per vedere dove la scienza non diviene più
servizio alla verità, ma distruzione del mondo e dell’uomo. La capacità
di mettersi in ascolto di tali avvertimenti, la volontà di lasciarsi
purificare dalla verità, è indispensabile. E vorrei aggiungere: la
capacità mistica dello spirito umano dovrebbe essere nuovamente
rafforzata. La capacità di sapersi ritirare in se stessi, una maggiore
apertura interiore, una disciplina, che si sottrae a ciò che è rumoroso
ed appariscente, devono nuovamente apparirci come mete cui tendere, che
appartengono alle nostre priorità. In Paolo si trova l’ammonizione
secondo cui l’uomo interiore deve rafforzarsi (Ef 3,16). Dobbiamo essere
onesti: esistono oggi una ipertrofia dell’uomo esteriore ed un
preoccupante indebolimento della sua forza interiore.
Per
non rimanere troppo astratto, vorrei a conclusione illustrare quanto
sono venuto esponendo con una immagine, che è desunta da una esperienza
storica. Papa Gregorio Magno (+ 604) racconta nei suoi dialoghi degli
ultimi giorni di San Benedetto. Il fondatore dell’ordine benedettino si
era coricato per dormire al piano superiore di una torre, alla quale
conduceva dal basso «una scala diritta». Si era poi alzato prima del
tempo della preghiera notturna, per un momento di veglia. «Stava alla
finestra e supplicava Dio onnipotente. Mentre guardava fuori nel cuore
della notte oscura, vide improvvisamente una luce, che si riversava
dall’alto e dissipava tutta l’oscurità della notte... Qualcosa di
meraviglioso si verificava in questa visione, come egli stesso più tardi
raccontava: tutto quanto il mondo gli fu presentato davanti agli occhi,
come raccolto in un unico raggio di sole»[13]. A questo racconto
l’interlocutore di Gregorio fa obiezione, con la medesima domanda che si
impone anche all’ascoltatore di oggi: «Ciò che tu hai detto, che
Benedetto poté vedere avanti agli occhi tutto quanto il mondo raccolto
in un unico raggio di sole, io non l’ho ancora mai sperimentato e non me
lo posso neanche immaginare. Come infatti potrebbe mai un uomo vedere
il mondo come un tutto?». La frase essenziale nella risposta del Papa
suona: «Se egli... vide tutto quanto il mondo come unità davanti a sé,
ciò non avvenne perché il cielo e la terra si erano ristretti, ma perché
l’anima di colui che guardava si era dilatata...».[14]
In
questa narrazione tutti i particolari sono significativi: la notte, la
torre, la scala, la stanza al piano superiore, lo stare in piedi, la
finestra. Tutto questo al di là della descrizione topografica e
biografica ha una grande profondità simbolica: quest’uomo attraverso un
cammino lungo e faticoso, che ebbe inizio in una grotta presso Subiaco, è
salito sulla montagna e finalmente nella torre. La sua vita fu
un’ascesa interiore, gradino dopo gradino sulla «scala diritta».
Egli è giunto nella torre e più propriamente nella «stanza al piano
superiore», che a partire dagli Atti degli Apostoli ha il valore di
simbolo del raccoglimento verso l’alto, dell’uscire dal mondo dell’agire
e del fare. Sta alla finestra - ha cercato il luogo per guardare fuori e
lo ha trovato, ove il muro del mondo è rotto e lo sguardo si apre verso
lo spazio aperto. Sta in piedi. Lo stare in piedi è nella tradizione
monacale simbolo dell’uomo che si è raddrizzato dal suo ripiegamento,
non più incurvato su se stesso può guardare solo per terra, ma ha
recuperato la posizione eretta e così lo sguardo libero verso l’alto15.
Così egli diventa un veggente. Non il mondo si restringe, ma la sua
anima si dilata, perché egli non è più assorbito dal singolo oggetto,
dagli alberi, che gli impediscono di vedere la foresta, ma ha acquisito
lo sguardo verso la totalità. Ancor meglio: egli può vedere l’insieme,
perché guarda dall’alto, ed a questo è giunto, perché si è dilatato
interiormente. Sembra qui risuonare l’antica tradizione dell’uomo come
microcosmo, che abbraccia il mondo intero. Ma l’essenziale è proprio
questo: l’uomo deve imparare ad ascendere, egli deve dilatarsi. Egli
deve stare in piedi davanti alla finestra. Egli deve cercare con gli
occhi. E allora la luce di Dio può toccarlo, egli la può riconoscere e
acquisire così il vero sguardo panoramico. Lo sguardo alla terra non può
diventare così esclusivo, da divenire incapaci di ascendere, di
assumere una posizione eretta. I grandi uomini, che con paziente ascesa e
con sofferta purificazione della loro vita sono divenuti veggenti e
quindi maestri di tutti i secoli, interessano anche noi oggi. Ci
indicano come anche nella notte si può trovare la luce e come possiamo
affrontare le minacce che salgono dall’abisso dell’esistenza umana e
andare incontro con speranza al futuro.
Note
1. W. Heisenberg, Der Teil und das Ganze. Gespräche im Umkreis der Atomphysik, Műnchen 1969, p. 117
2. Ibid., p. 117
3. Ibid., p. 118, cf. p. 295
4. Loc. cit. pp. 288ss
5.Il carattere negativo di questa voce viene chiaramente sottolineato ad es. in Apologia 31d «foné tís ghenoméne
… aéi apotrépei … prostrépei de oudépote». Cf sulla configurazione di
questa voce R. Guardini, Der Tod des Sokrates, Mainz-Paderborn 19875,
pp. 87ss.
6.
Fondamentale per la comprensione della letteratura sapienziale
dell'Antico Testamento è ancora G. von Rad, Weisheit in Israel,
Neukirchener Verlag 1970; cf anche L. Bouyer, Cosmos, Paris 1982, pp.
99-128
7. Loc. cit., 290
8. Una buona informazione sull'attuale dibattito du questo tema offre G. Beintrup, Das Leib-Seele-Problem. Eine
Einführung, Stuttgart 1996. Cf anche O.B. Linke - M. Kurthen,
Parallelität von Gehirn und Seele. Neurowissenschaft und
Leib-Seele-Problem, Stuttgart 1998.
9.
J. Monod, Zufall und Notwendigkeit. Philosphisce Fragen der modern
Biologie (tradotto dal francese. Piper, Munchen 19735), p. 149; cf pp.
141s: «so folgtdaraus mit Notwendigkeit, daß einzig und allein der
Zufall, jeglicher Neuerung, jeglicher Schopfung in der belebten Natur
zugrunde liegt. Der Reine Zufall, nichts als der Zufall, die absolute,
blinde Freiheit als Grundlage des
wunderbaren Gebäudes der Evolution - diese zentrale Erkenntnis der
modernen Biologie ist heute nicht mehr nur eine unter möglichen oder
wenigstens denkbaren Hypothesen; sie ist die einzig vorstellbare, da sie
allein sich mit den Beobachtungs - und Erfahrungstatsachen deckt». Cf
J. Ratzinger, Im Anfang schuf Gott, Einsiedeln - Freiburg 19962, pp.
53-59.
10.
Su Giobbe si veda innanzitutto il grande Commentario, che approfondisce
anche i mderni sviluppi filosofici e teologici di questa figura, di G.
Ravasi, Giobbe. Traduzione e commento, Borla, Roma 19913.
11.
Sul problema del rapporto fra canone ebraico e greco e sull'Antico
Testamento dei Cristiani cf Chr.Dohmen, Der Biblische Kanon in der
Diskussion, in «Theol. Revue» 91 (1995) 451-460; A. Schenker, Septuaginta und christliche Bibel, ibidem 460-464.
12.
Sull’origine platonica della scienza moderna cf N.Schiffers, Fragen der
Physik an die Theologie, Düsseldorf 1968; W. Heinsenberg, Das Naturbild
der heutigen Physik, Rowohlt, Hamburg 19597. Cf anche Monod, loc. cit.
ad es. p. 133, ove egli presenta esplicitamente la moderna biologia come
debitrice del platonismo: con le moderne scoperte, così egli dice, le
speranze dei platonici più convinti furono più che realizzate. Una certa
vicinanza della fisica moderna con le intuizioni di Platone e di
Plotino riconosce anche B. D’Espagnat, La physique actuelle et la
philosophie, in “Revue des sciences morales e politiques”, 1997, n. 3,
pp. 29-45.
13.
Gregorio Magno, Dialoghi II 35, 1-3. Utilizzo qui l’edizione
latino-tedesca della conferenza degli abati di Salzburg: Gregor D. Gr.
Der hl.Benedikt Buch II der Dialoge (St. Ottilien 1995). La mia
interpretazione si basa largamente sull’eccellente introduzione, che ivi
si trova, in particolare pp. 53-64.
14. II, 35, 5 e 7.
15. Cf l’interpretazione nel volume citato alla nota 16, in particolare pp. 60-63.
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benedettoxvi, scienza - articoli
La morale cosiddetta laica non è ragionevole
***
Nel
suo libro Fede, Verità, Tolleranza, l’allora cardinale Ratzinger
riferisce un episodio – narrato da Werner Heisenberg – molto
significativo, accaduto a Bruxelles nell’ambito di una discussione tra
scienziati.
«Ci si trovò a discutere del fatto che Einstein parlava spesso di Dio e Max Planck sosteneva l’opinione che non ci sia alcuna contraddizione tra scienze della natura e religione [...]. Secondo Heisenberg, a fondamento di tale apertura [di Planck] stava la concezione che scienze
naturali e religione sono due sfere totalmente diverse, che non sono in
concorrenza reciproca: quel che conta nelle scienze naturali è
l’alternativa tra vero e falso, nella religione l’alternativa tra bene e
male, tra valore e disvalore.
[...] “Le scienze naturali sono, in certo senso, il modo con cui
andiamo incontro al lato oggettivo della realtà [...]. La fede
religiosa,
viceversa, è l’espressione di una decisione soggettiva, con la
quale stabiliamo quali debbano essere i nostri valori di riferimento nella vita”. [...] A questo punto Heisenberg aggiunge: “Devo
ammettere che non mi trovo a mio agio con questa separazione. Dubito
che, alla lunga, delle comunità umane possano convivere con questa netta
scissione tra sapere e credere”. A un certo punto interviene Wolfgang Pauli e rafforza
il dubbio di Heisenberg, addirittura lo eleva al grado di certezza: “La
separazione completa tra sapere e credere è soltanto un espediente
d’emergenza per un tempo molto limitato. Per esempio, nell’ambito
culturale occidentale, potrebbe venire in
un futuro non troppo lontano il momento in cui le parabole e le
immagini della religione qual è stata finora non possiederanno più
alcuna forza di persuasione neppure per la gente semplice; allora, temo,
anche l’etica finora vigente in breve tempo crollerà e accadranno cose di una atrocità che non ci possiamo neppure immaginare”».
Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 145-146.
don Carron
Da: ESE R C I Z I D E L L A F R A T E R N I T À d i C O M U N I O N E E L I B E R A Z I O N E 2009
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einstein, benedettoxvi, carron, plank, scienza - articoli
da Avvenire del 22 aprile 2009
L’uomo-macchina, idolo della scienza di Pietro Barcellona
***
Non
c’è dubbio che oggi ci troviamo di fronte a un mutamento radicale del
funzionamento mentale e della configurazione lessicale del mondo, che
richiederebbe un approccio completamente nuovo alla strategia d’analisi
della realtà e dei modi dell’apprendimento. Non riesco a parlare con un
giovane immerso nella logica dell’istantaneità sui temi della tradizione
storica, della lettura per successione di eventi. C’è uno scarto
linguistico che rischia la rottura della comunicazione fra generazioni.
In realtà noi
non parliamo coi nostri figli perché essi vivono in un altro universo
linguistico, perché la società si è disintegrata sotto l’azione dei
mutamenti epocali che vengono rappresentati come globalizzazione e
pensiero unico, ma che ancora non sono compresi in una adeguata
rappresentazione del mondo. L’uomo
ha dimenticato di essere un granello infinitesimale rispetto
all’immensità sconosciuta dell’universo e si è arrogato il potere di
creare la vita senza la vita.
Certo,
i frutti del sapere razionale sono enormi e le tecnologie consentono
prestazioni prima inimmaginabili. Il progresso scientifico è stato il
traguardo di sforzi inauditi e in esso sono state riposte le speranze di
un mondo migliore. Il prezzo pagato per questo vero e proprio delirio
di onnipotenza è, però, che la razionalità si è trasformata in una
macchina costruita secondo principi logico-matematici che consentono di
calcolare funzioni e prestazioni producendo continuamente strutture
idonee a operare secondo impulsi codificati in appositi programmi
operazionali. Il mondo è sistema e gli uomini sono inclusi nella logica
sistemica: macchine per sopravvivere senza vivere. La
ragione ha disintegrato l’uomo e ne ha fatto oggetto di studio. La
psicologia, l’economia, la politica e via via il cuore, il fegato, i
polmoni, il pancreas, gli occhi, sono diventati oggetto di sapere,
guidati dall’unico metodo scientifico che si conosce: il riconoscimento
della stessa comunità degli scienziati. Umberto Veronesi, sul Corriere della Sera
di qualche mese fa, ha scritto che nel giro di qualche generazione la
differenza sessuale fra uomini e donne perderà ogni significato, che
l’umanità si riprodurrà senza bisogno dell’accoppiamento di un uomo e di
una donna, ma attraverso l’inseminazione artificiale e la clonazione,
che l’evoluzione naturale della società ci porta oltre i confini dei
tradizionali comportamenti sessuali e ci destina a nuove forme di
relazioni interpersonali.
Così, in una qualsiasi pagina di giornale, viene
annunciata senza alcun clamore la fine delle leggi che hanno fin qui
governato il problema della riproduzione sociale, del ruolo della
generazione, della responsabilità verso il futuro. Nel
proclama di Veronesi, di una umanità senza differenze, è lo spazio, lo
spazio della memoria e del sogno, che viene negato e distrutto. Nell’universo
indifferente ciascuno vive per se stesso, per il proprio godimento
immediato che è garantito dalle nuove possibilità offerte dalla scienza,
dalle biotecnologie, dalla chimica, dalla fisica e dalle neuroscienze.
Veronesi non annuncia il futuro della libertà umana, ma la morte
dell’immagine dell’uomo che è stata faticosamente costruita nella storia
dell’Occidente. L’indifferenza
sessuale non è un progetto di umanizzazione della società e della
natura, non è un progetto di sviluppo della consapevolezza del
significato del nostro essere al mondo, ma la cancellazione di ogni
spazio mentale, non riducibile a sinapsi e a neuroni, dove possa
svilupparsi la domanda umana sul senso della vita, sul valore
squisitamente umano del sogno di un futuro diverso, sulle speranze di un
avvenire di salvezza dall’ingiustizia e dalla sofferenza.
Oggi
la scienza e la filosofia non sopportano il mondo delle passioni e dei
sentimenti (a meno che non si riducano a formule chimiche o a errori
logici) perché esso ci porta dentro una dimensione che non riesce a
conciliarsi con la loro pretesa di assoluto e di eternità: la
temporalità caduca e divoratrice. Per la scienza come per tutti gli
assoluti non esiste il tempo, il tempo della nascita né il tempo della
morte, il tempo della gioia né il tempo del dolore. Ciò che accade,
accade per caso o per necessità. Non è un problema di coscienza, né una
questione che riguarda soltanto ogni singolo individuo, ma la stessa
domanda del chi siamo e del perché viviamo. Non si tratta soltanto di
rievocare le grandi storie che ci hanno appassionato e formato: le
passioni terribili che hanno scatenato le guerre antiche e moderne, gli
amori tragici di Paolo e Francesca, di Tristano e Isotta, di Giulietta e
Romeo, ma l’intero clima culturale in cui si è venuto sviluppando
nell’Occidente lo spazio specifico dell’essere umano combattuto fra le
forze primordiali della natura, fra la implacabile legge dell’Eros senza
limiti, e il bisogno di un ordine che sanzioni anche la responsabilità
verso la progenie chiamata a raccogliere il testimone della vita. Gli
dei greci, il Dio del cristianesimo, hanno reso possibile agli uomini
istituire lo spazio mondano dell’interrogazione sulla verità come
domanda sul senso della vita.
In
questo spazio sono apparse "figure" che non hanno nulla a che fare col
divino, né col naturale: la tenerezza dei corpi che si stringono, la
bellezza di un neonato dalla pelle rosata, la coscienza del tramonto del
vigore giovanile, la nostalgia e la memoria, il sapere e la speranza,
la sofferenza e la gioia, l’estasi e il tormento. Attraverso di essi
l’uomo ha cercato di sfuggire ad ogni statuto di necessità e di assumere
sempre più la responsabilità della propria esistenza. Tutti
sono bravi a descrivere la globalizzazione, i mercati finanziari, il
problema delle borse, i nuovi orizzonti interculturali, la scoperta
delle cause di tutte le malattie, ma nessuno
è più capace di parlare a un bambino mutilato da una bomba americana
caduta per caso su un villaggio pacifico o ai superstiti di un attentato
kamikaze che ha stroncato la vita di giovani in festa in un piccolo
centro israeliano. Perché abbiamo perduto il senso della vita, le
domande tragiche che nascono dal dolore senza spiegazioni? Perché
abbiamo confuso, forse intenzionalmente, la ragione con il pensiero e la
conoscenza con la comprensione. Questa è un’epoca in cui la ragione ha
distrutto il pensiero e la cognizione ha soppresso l’intesa affettiva.
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Postato da: giacabi a 17:41 |
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barcellona, ateismo, scienza - articoli
La scienza nasce dal Cristianesimo
***
Mi
spiace moltissimo perché non posso parlarvi nella vostra lingua,
peraltro bellissima. Però ci sarà la traduzione man mano che procedo
nella mia presentazione. Sono particolarmente lieto di essere qui oggi,
insieme a tutti voi, per parlarvi di un argomento che secondo me ha
un'estrema importanza, il rapporto tra la scienza e la fede. Molto
spesso, nei libri di testo, si può leggere che c'è un conflitto tra la
fede e la scienza. Questo è ciò che molte persone dicono. Quindi, la
cosa più importante che devo dirvi oggi, in breve, è che c'è
un rapporto di tipo organico tra la fede e la scienza, vale a dire che
la fede costituisce la base di tantissime cose, però è anche alla base
della scienza, quindi c'è un rapporto diretto tre fede e scienza. Questo in breve è il sunto di quello che voglio trasmettervi.
Quindi, se per un attimo pensiamo alle grandi civiltà che si sono succedete nella storia, se pensate per esempio alla civiltà di Babilonia, a quella degli Egizi, dei Greci, alla civiltà dell'India, della Cina, e poi alle civiltà americane - gli Atzechi, gli Incas, i Maya -, in quelle civiltà si vedono parecchi trionfi dello spirito umano. Si vedono esempi di architettura splendida, si vede un'enorme capacità di lavorare il metallo, la ceramica, il legno, la pietra. In queste civiltà, soprattutto in quelle greche, si trovano grandi esperti di matematica e anche, in un certo qual modo, di fisica. Però nessuna di queste civiltà ha una qualsiasi delle caratteristiche della scienza moderna. Quando parliamo di scienza moderna, occorre distinguere tra quella che io chiamo la scienza primitiva, vale a dire le conoscenze che si acquisiscono con strumenti empirici, e la scienza moderna, che invece si basa su una comprensione dettagliata, specifica, di come funziona la materia attraverso le equazioni differenziali. E praticamente questa è una scoperta unica nel suo genere, conseguita dalla nostra civiltà dell'Europa occidentale. Abbiamo visto questi dati storici e con voi, a questo punto, vorrei che ci soffermassimo un attimo sullo sviluppo della scienza nella nostra civiltà occidentale. Quali sono le condizioni che servono a una civiltà perché si sviluppi una scienza? Possiamo vedere, mediante un lavoro di introspezione, molte delle condizioni necessarie per lo sviluppo della scienza. In primo luogo, occorre che la società sia sviluppata in modo che molti di noi, più fortunati, possano passare tempo a pensare a determinate cose senza preoccuparci se avremo o meno qualcosa da mangiare quel giorno. Poi, oltre a una struttura sociale sviluppata, abbiamo bisogno di un linguaggio, della scrittura, della matematica. Per elaborare le cose, abbiamo bisogno di strumenti, di metodi di comunicazione, la scrittura, quindi. Tutte queste cose sono quelle che io definisco i pre-requisiti materiali per la scienza. Se si pensa che tutte queste condizioni sono state presenti nelle civiltà antiche, allora non sono solo queste, quelle necessarie per lo sviluppo della scienza nelle civiltà occidentali. Manca ancora qualcosa a questa struttura. Cosa manca? Mancano convinzioni necessarie perché abbia inizio la scienza. Pensando a queste convinzioni, a cosa bisogna credere per diventare uno scienziato? Che la materia sia bene e che valga la pena passare la vita, dal punto di vista dello scienziato, a capire la materia nella sua complessità. Dobbiamo anche credere che la materia sia ordinata, cioè si comporti in maniera costante, coerente. Quindi, che quello che arrivo a scoprire un giorno vale anche il giorno successivo e anche in altri luoghi. E che quello che altre persone possono scoprire in altri momenti e luoghi, tutto contribuisce a formare un unico corpus di conoscenze ordinate. In terzo luogo, dobbiamo anche ritenere che la materia sia accessibile alla mente umana, cioè bisogna cercare di comprendere la materia in un compito che abbia una qualche garanzia di successo. Magari, diverse persone cercano di fare esperimenti di laboratorio. Nella consapevolezza che qualcosa va sempre storto, bisogna perseverare per ottenere un risultato, anche buono. Quindi, bisogna essere convinti che l'impresa che si è incominciata valga la pena di essere portata a termine. Bisogna anche credere che le conoscenze che si ottengono dagli studi della materia siano valide per se stesse. Però, successivamente si può scoprire che queste conoscenze possono avere anche delle implicazioni pratiche utili. Questo è un fatto importante, perché se la scienza ha delle applicazioni utili allora tutta la società avrà una considerazione positiva della scienza e sarà disposta a sostenere gli scienziati nel loro lavoro. Tutte queste convinzioni sono necessarie - lo vediamo se svolgiamo questo lavoro di introspezione - perché si sviluppi la scienza. Guardando le antiche civiltà, si vede che molte di queste convinzioni, quasi tutte, non ci sono state. Ecco perché la scienza in queste antiche civiltà non si è sviluppata. Diamo ora uno sguardo alla storia dello sviluppo della scienza. In primo luogo, bisogna riconoscere l'enorme contributo che è stato dato alla storia dello sviluppo della scienza dagli antichi greci e, prima di loro, anche dai babilonesi, che hanno effettuato importanti osservazioni astronomiche e calcoli matematici. In particolar modo, gli antichi greci hanno avuto degli importantissimi filosofi e il loro contributo è stato quello di porsi le domande giuste, vale a dire che per avere una risposta bisogna porsi la domanda giusta, e questa è stata la più grande conquista degli antichi greci. Si sono chiesti, per esempio: come possiamo comprendere il mondo che ci circonda? Forse tutto quello che vediamo è il risultato della combinazione di determinate particelle fondamentali di un tipo o dell'altro. E cercando di scoprire queste particelle, possiamo vedere come è nata la complessità del mondo. Quindi, hanno fatto determinate ipotesi e si sono domandati: esiste una realtà microscopica? Cioè, se continuo a tagliare una cosa in pezzi sempre più piccoli, mi posso fermare a un certo punto o no? Si sono posti le domande giuste senza ancora trovare una risposta definitiva. Aristotele, uno dei maggiori filosofi greci, riteneva semplicemente, pensando alle cose, di poter scoprire la loro natura, semplicemente pensandoci. Però, per esempio davanti a un triangolo in geometria, si conosce cos'è un triangolo, si possono calcolare le sue proprietà: quindi, è un oggetto aperto per la mente umana. Invece la materia non è un oggetto aperto alla mente umana, dobbiamo osservare attentamente le cose, condurre esperimenti e gradualmente cominciare a capirla. Aristotele ha utilizzato argomentazioni, dicendo che i pianeti e le stelle sembrano essere corpi incorruttibili che si muovono secondo una forma perfetta. La forma più perfetta è il cerchio, quindi si spostano in cerchio: e ha fatto una distinzione tra la materia celeste e quella terrestre, dove quest'ultima è soggetta al cambiamento e l'altra no. Pensava a un universo dove tutto avesse un fine, per esempio le pietre scendono verso il basso perché cercano il loro luogo naturale che è la terra, mentre il fuoco ha la tendenza ad andare verso l'alto. Abbiamo i quattro elementi che sono combinati in natura in diversi modi, secondo lui. La terra, al centro con i pianeti attorno, che si muovevano in cerchi perfetti. Era uno schema perfetto, questo, che seguiva molte intuizioni sensate e ragionevoli. Però purtroppo era un approccio sbagliato, quindi, malgrado tutta la gloria della scienza greca, questa non si è mai perpetuata nel tempo. Occorreva un nuovo inizio, un nuovo punto di partenza per allontanarsi da questi principi, da queste idee. E il nuovo inizio è avvenuto da una zona inattesa. C'erano i grandi imperi - Siria, Egitto, Babilonia -, però, tra questi grandissimi imperi c'era una tribù, quella degli israeliti, che migrava qui e là, e che praticamente era stata separata dai suoi vicini perché credeva in un Dio, mentre i vicini credevano in diverse divinità. Gli israeliti hanno conservato il loro credo in un unico Dio, che aveva creato tutto, aveva creato tutto esattamente nel modo in cui voleva che fosse. E questo ha rappresentato l'inizio di idee che alla fine, nel corso di diversi secoli, hanno portato allo sviluppo della scienza. Essi ritenevano che la materia fosse buona e, nel primo capitolo della Genesi, leggiamo che "Dio vide ciò che aveva fatto ed era buono". Dio è un essere razionale, quindi tutto ciò che crea automaticamente è razionale, ne condivide la razionalità. Crediamo anche che il mondo sia aperto alla mente umana, perché sempre nel primo capitolo della Genesi all'uomo viene ordinato di riempire la terra e conquistarla: questo implica che l'uomo possa capire il mondo. Il mondo è prezioso e la sapienza, la conoscenza del mondo è più dell'oro e dell'argento. Si legge appunto che la sapienza più dell'oro e dell'argento dev'essere liberamente condivisa, e poi Cristo ordina di dare da mangiare agli affamati e dare da bere agli assetati. Queste sono state le premesse della scienza, quello che ha portato al fondamento della scienza. Poi è arrivato l'evento centrale della storia, l'incarnazione di Cristo che ha ulteriormente nobilitato la materia perché si pensava che la materia fosse adatta a formare il corpo e il sangue di Cristo. L'incarnazione di Cristo è stato un evento unico nel suo genere, che immediatamente ha spezzato, ha posto fine, a un'idea presente in tutte le antiche civiltà. Adesso è un po' difficile per noi capire come potessero crederci, ma tutte le civiltà antiche, inclusi i greci, ritenevano che il tempo fosse ciclico, vale a dire che tutto quello che succede fosse già successo prima nel passato e che si ripeterà di nuovo nel futuro. Questa è, credo, una convinzione molto scoraggiante perché uno si chiede: se è già successo, perché dobbiamo preoccuparci di quello che succederà? Però l'incarnazione di Cristo ha rotto questa credenza, e quindi ha spezzato l'idea che il tempo fosse ciclico, che ci fosse sempre l'inizio da un'alfa fino a un'omega. In questo modo, l'incarnazione di Cristo ha fornito ulteriori convinzioni per la scienza. All'inizio del Medioevo, nei primi anni della Chiesa, si è discusso molto sulla natura del Cristo e, per esempio, molto spesso dovevano essere risolte delle controversie in atto su questo argomento. È stato convocato per esempio, nel 325, il Concilio di Nicea, che ha definito praticamente gli elementi essenziali della fede cattolica che poi vengono ripresi ogni domenica durante la Messa. Oltre ad aver fornito gli elementi fondamentali della fede, vengono anche definite diverse condizioni e convinzioni essenziali per la scienza, cioè che, praticamente, Dio creò tutto. All'inizio Dio ha creato tutto, in cielo e in terra, quindi la creazione è alla base di tutte le nostre convinzioni e credenze. Poi, un altro credo di Nicea è quello secondo cui solo Cristo fu generato, solo Cristo è della stessa sostanza del Padre, creato grazie a proprietà conferitegli da Dio. Questo è importante, perché ha eliminato il concetto del panteismo: la materia è creata e non generata, questo esclude il panteismo. Un altro credo è che tutto è creato attraverso Cristo. Questo credo esclude il dualismo che si trova in alcuni filosofi antichi: ci sono forze del bene e forze del male che si combattono. Invece, il credo di Nicea dice che tutto è creato attraverso Cristo, quindi tutto è bene. In questo modo, le convinzioni che vengono dagli ebrei nel Vecchio Testamento e da Cristo nel Nuovo Testamento rappresentano le convinzioni necessarie per lo sviluppo della scienza. Naturalmente c'è voluto tempo perché tutto ciò avvenisse, queste idee richiedono molto tempo per essere assorbite dalla coscienza umana e anche per diffondersi in tutta la società. All'inizio, i cristiani erano una minoranza oggetto di persecuzioni, quindi a quel tempo non si poteva avviare una vera e propria scienza, anche se c'erano molti filosofi, per esempio, che avevano cominciato già nel VI secolo a sviluppare idee che poi avrebbero portato importanti frutti. Soltanto nel Medioevo la società era permeata da credenze cristiane ed è stato solo in quel momento che la scienza ha potuto avere inizio. Gli insegnamenti, nel Medioevo, si basavano molto sugli insegnamenti dei filosofi greci Aristotele e Platone. Nuove università vennero fondate in Europa dalla Chiesa per facilitare la discussione e la diffusione della teologia e della filosofia. Le prime università sono state aperte qui in Italia, a Bologna e Padova, poi oltre le Alpi sono state fondate le università di Parigi e Praga, quindi molte altre, andando sempre più a Nord, tra le quali anche la mia di Oxford. Queste università erano centri di intensa discussione e argomentazione. L'insegnamento veniva fatto sulla base dei testi di Aristotele, elaborandoli, leggendoli, cercando di capirne il significato. Quando però Aristotele era in disaccordo coi principi cristiani, veniva abbandonato. Per esempio, Aristotele pensava che il mondo fosse eterno, noi invece sappiamo che è stato creato, quindi da questo punto di vista veniva lasciato perdere quello che diceva. C'è stato un importante filosofo parigino, Giovanni Buridano, che pensava ai problemi del moto e quindi ha avuto inizio la scienza, la fisica, con lo studio del moto. Buridano si è chiesto: perché se, per esempio, prendo su qualcosa da terra e lo getto, continua a muoversi? Secondo Aristotele, tutto ciò che viene mosso si muove perché c'è un elemento che lo muove. Buridano si è chiesto: cos'è che permette all'oggetto di continuare a muoversi, una volta che ha lasciato la mia mano? I greci avevano avuto alcune ipotesi in questo senso, relativamente al movimento dell'aria che spingeva l'oggetto. Buridano ha pensato a questa cosa nel contesto della creazione: Dio, creando le cose, non le ha create in modo statico, ha creato le cose in movimento e quindi ha dato loro un impeto. Quindi, ha avuto questa idea dell'impeto secondo cui, una volta che noi gettiamo un oggetto, gli forniamo un impeto, che adesso è noto come movimento. Ha così formulato quella che poi sarebbe diventata la prima legge del moto di Newton: tutto quello che viene gettato continua a muoversi per propria forza interna. Quindi, gradualmente, secondo questo processo, sono state ipotizzate diverse cose e le idee di Aristotele che avevano impedito lo sviluppo di una vera e propria scienza per due millenni, sono state modificate e hanno aperto la strada al Rinascimento. Non soltanto a livello di scienza, ma anche ad altri livelli, il Medioevo ha dato un importante contributo. Per esempio, anche a livello di tecnologia, nonostante questo non sia sempre riconosciuto. La tecnologia è l'applicazione della scienza, con l'obiettivo di rendere più semplice il lavoro. I pionieri di tutto questo si ritrovano nei monasteri. Nei monasteri si trovano moltissime nuove idee dal punto di vista tecnologico, idee che provenivano da altre civiltà, alcune di esse dalla Cina; però nei monasteri c'erano mulini ad acqua, a vento, c'erano sistemi per macinare il grano, per tagliare il legno. Per riuscire a conservare le ore di preghiera importanti per il monastero, e rispettarle, sono stati realizzati degli orologi meccanici, i primissimi orologi meccanici sono stati proprio realizzati nei monasteri. Nella bellissima mostra che dovete andare a visitare, vedrete immagini e riproduzioni di questi antichissimi orologi ritrovati nei monasteri. Dopodiché, gli orologi sono stati installati anche nel centro delle città per regolare il commercio, però l'idea è venuta proprio dai monasteri. Dunque, non soltanto la scienza, ma anche la tecnologia viene dalla rivoluzione che è stata portata avanti da queste convinzioni cristiane. Una volta spianata la strada, come dice il titolo di questa mostra, vediamo che nel Rinascimento si è incominciato a costruire sulle spalle dei giganti del Medioevo, rendendo possibile lo splendore della scienza nel Rinascimento grazie a Brahe, a Keplero e a Newton, che ha formulato le leggi del moto e ha avviato e portato a maturità tutta la scienza moderna. Queste sono le idee fondamentali che volevo trasmettervi oggi. Come vedrete, nella mostra che vi invito ad andare a visitare, le radici della nostra conoscenza scientifica, della tecnologia, sono da ricercarsi nella fede cristiana. Grazie.
Peter Hodgson
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Postato da: giacabi a 15:08 |
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hodgson peter, scienza - articoli
L'inutilità nella sperimentazione
delle cellule embrionali
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Angelo Vescovi: pronti per la sperimentazione umana contro la Sclerosi laterale amiotrofica
Angelo Vescovi, 46 anni, docente di Biologia applicata alla Bicocca di Milano, è condirettore dell’Istituto di ricerca sulle cellule staminali al San Raffaele, direttore dell’Istituto di ingegneria dei tessuti e del progetto «Officina del cervello» all’ospedale Niguarda, direttore scientifico del Consorzio italiano per la ricerca sulle cellule staminali, coordinatore della Banca di staminali cerebrali a Terni e direttore scientifico della Fondazione Neurothon.
Per la sua esperienza è consulente del governo italiano e della Camera
dei Lords inglese. Pur essendo agnostico, si oppone da sempre
all’impiego di embrioni nella ricerca.
Professor
Vescovi, pare che il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama,
possa cambiare politica rispetto al suo predecessore e accordare il
finanziamento federale alla ricerca sulle staminali embrionali. Secondo
lei è un’ipotesi plausibile?
Anzitutto occorre chiarire
che il cambiamento di politica potrebbe riguardare nello specifico la
ricerca sugli embrioni umani. Detto questo, credo sia una risposta
tardiva a un problema che non c’è più da almeno tre anni. Le tecniche messe a punto nel 2006 dallo scienziato giapponese Shinya Yamanaka,
infatti, permettono di generare e addirittura clonare cellule staminali
embrionali umane senza dover ricorrere agli embrioni, ma derivandole
artificialmente da una cellula somatica adulta (si parla di Induced
pluripotent stem cell, Ips). Il problema della sperimentazione sugli
embrioni, dunque, è già stato risolto alla base. Le cellule Ips vengono
ottenute trasferendo nelle cellule adulte, con appositi vettori virali,
quattro geni normalmente associati alle staminali. Il problema è
che uno di questi geni è risultato cancerogeno. Un mese fa, per fortuna,
anche questo inconveniente è stato superato e le Ips sono ora del tutto
sicure. Poiché pare che il nuovo Presidente Usa sia una persona
intelligente, ritengo di poter dire che la sua è una dichiarazione “di
facciata” e che sicuramente, al momento opportuno, valuterà con
attenzione il problema. Fatta questa premessa, penso che possa essere
ammissibile un uso regolato degli embrioni sovrannumerari già esistenti.
Lei dice che il problema non si pone più. Allora perché qualcuno continua a premere per fare sperimentazione con gli embrioni?
A questo punto credo che non
si tratti più di una lobby di tipo politico-ideologico, ma economica.
Per 15-20 anni, infatti, il mondo anglosassone ha investito in ricerche e
tecnologie che, ovviamente, hanno portato alla registrazione di
brevetti. La scoperta di
Yamanaka, che consente di riprogrammare le staminali adulte portandole
allo stadio embrionale, rischia di mandare in fumo i miliardi di euro
investiti finora nella ricerca sugli embrioni. Credo che sia questo il
problema di fondo. Comunque è bene riflettere su un altro dato:
il governo giapponese ha fatto un investimento strategico sulla
riprogrammazione delle cellule, manifestando lo stesso atteggiamento
lungimirante avuto in passato con i microchip e l’elettronica.
Quali risultati ha prodotto finora la ricerca sulle staminali embrionali?
Ha dato ottimi risultati in
termini di conoscenze e informazioni scientifiche, almeno per quanto
concerne la ricerca su modelli animali. Il problema è che raramente
queste conoscenze sono state traslate all’uomo e, soprattutto, a fini
terapeutici. Si tenga presente un fatto: per procedere a un trapianto di
staminali embrionali autologo, che scongiuri cioè il rigetto, bisogna
aver clonato l’embrione umano in origine. Questa operazione ha
un’efficienza di uno su duecento e nessuno c’è ancora riuscito. La
tecnica dell’Ips riesce, invece, a ottenere staminali embrionali
autologhe tutti i giorni e in qualunque laboratorio del mondo.
Viene veramente da chiedersi quale sia la logica dietro a certe
pressioni... La ricerca sulle staminali embrionali, dunque, è la
benvenuta purché sia fatta nel rispetto di un’etica, che è quella
naturale della specie. E lo dico, come è ormai noto, da agnostico.
E riguardo alla ricerca sulle cellule staminali adulte, quali sono le speranze principali?
Ci sono numerose terapie che
già vengono usate in clinica, soprattutto in ambito ematologico, per
curare e guarire determinati tipi di leucemie e malattie rare. Ora
grandi sforzi sono rivolti alle terapie cellulari ricostruttive che, al
pari delle altre, avranno un utilizzo molto mirato e dunque non potranno
essere usate su qualsiasi paziente. Si tratta, in generale, di pratiche
estremamente complesse, volte a rigenerare tessuti in cui miliardi di
cellule intrattengono tra loro numerose relazioni. Il meccanismo è molto
complicato e dunque occorre tempo per comprenderlo e padroneggiarlo.
Detto questo, grandi speranze giungono proprio dalla cronaca recente: mi
riferisco al caso della donna di Barcellona, alla quale è stato
praticato un trapianto di trachea da donatore, “ricolonizzata” con
cellule staminali della stessa paziente; in questo modo è stato
possibile evitare la somministrazione di farmaci antirigetto. Mi
pare che i progressi fatti siano enormi, soprattutto a fronte di
finanziamenti ridicoli rispetto ad altri settori (si pensi, ad esempio,
agli armamenti).
Il 1° dicembre a Roma, l’associazione onlus Neurothon
(dedicata alla ricerca sulle malattie neurodegenerative) ha organizzato
un convegno internazionale per fare il punto sul possibile impiego
delle cellule staminali per la cura della Sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Quali opportunità terapeutiche esistono?
Nel giro di pochi mesi
dovremmo poter partire all’ospedale Niguarda di Milano con la prima
sperimentazione umana a livello europeo. Iniziamo con una decina di
malati di Sla, selezionati da un’apposita Commissione clinica, che
valuterà con attenzione i casi che garantiscono il massimo approccio
etico e, allo stesso tempo, risultati misurabili. Poi dovremmo estendere
lo studio ad altri tipi di malattie metaboliche. Ma bisogna vedere
anzitutto come va con i primi. La certezza non ce l’ha nessuno.
Quando pensate di partire?
Dare un’indicazione esatta
dei tempi è impossibile per una serie di ostacoli tecnico-burocratici:
non sappiamo quando verrà concessa la certificazione Gmp [Good manifacturing practice,
pre-requisito fondamentale per le attività di tipo farmaceutico, ndr]
alla Banca di cellule staminali cerebrali di Terni, dove produrremo le
cellule da utilizzare nella sperimentazione; inoltre dobbiamo ancora
completare il protocollo clinico. Peraltro finora ho sempre dovuto
spostare la data prevista anche per la mancanza di finanziamenti.
Comunque ritengo che ormai si tratti di mesi e non più di anni. Stiamo
preparando questa sperimentazione con la massima onestà intellettuale e
secondo i criteri della scienza occidentale, dunque dobbiamo rispettare
tutte le regole dalla prima all’ultima. Peraltro saremmo già qui a
guardare i risultati, se ci fossero stati i soldi: avremmo potuto fare
tutto in sei mesi e, invece, siamo in ballo da tre anni e mezzo. Però
questa è la logica del nostro Paese. Ho voluto rimanere, ho voluto la
bicicletta, e ora pedalo.
Non a caso il gruppo
di ricercatori che a Barcellona ha ottenuto il brillante risultato sulla
trachea è guidato da un “cervello in fuga” italiano, Paolo
Macchiarini...
Eh sì. E, purtroppo, come lui
ce ne sono tanti altri. Ho un grande rispetto per loro. Io stesso ho
lavorato per cinque anni in Canada e poi sono tornato. Forse ho
sbagliato, ma ora sono qui e devo lavorare a queste condizioni. Fuori
dall’Italia, onestamente, è tutto più facile: non si perde tempo in
pratiche pletoriche e intoppi procedurali fantasiosi. Solo l’altro
giorno scorrevo gli importi delle borse di studio che verso ai giovani
del mio laboratorio. C’è poco da fare: il 45 per cento del compenso
lordo va in tasse. Quindi il finanziamento per le borse di ricerca è, in
realtà, già decurtato quasi della metà. Senza contare le sovvenzioni
per i reagenti di laboratorio, che dobbiamo acquistare negli Stati Uniti
e dunque ci costano tre volte di più. Credo che questo Paese debba
smettere di guardare ai ricercatori come se fossero tutti ladri, per cui
occorre controllare il singolo centesimo che hanno in tasca. Devono
metterci nelle condizioni di lavorare e chiederci un rendiconto dei
risultati dopo cinque anni: non possono fare le pulci ai bilanci ogni
sei mesi, domandandoci cosa abbiamo fatto di ogni tranche di
finanziamenti. Cosa volete che facciamo con 20 mila euro in sei mesi?
Non bastano nemmeno per tre esperimenti.
I
giovani ricercatori italiani continuano ad avere contratti a tempo
determinato e a vivere in condizioni di assoluta precarietà fino a età
relativamente “avanzata”...
L’ho detto in tempi non
sospetti, prima cioè delle recenti proteste di piazza. Ed è uno dei
motivi per cui oggi alcuni sostengono che io abbia un brutto carattere,
mentre ho solo il temperamento di chi reagisce quando vede i soprusi. Il
nostro sistema è pieno di nepotismi, angherie e violenze psicologiche
contro i più giovani: è una totale e assoluta vergogna. L’ho denunciato
già dieci anni fa e continuo farlo oggi. Non diamo ai ragazzi la
possibilità né di imparare né di produrre. Così a un certo punto se ne
vanno. E capisco bene quelli che non tornano. Perché più di una volta
anche io, che tutto sommato ho avuto “fortuna”, ho pensato che non mi
dispiacerebbe andare via. E le occasioni certo non mi mancano: l’ultima
risale alla settimana scorsa. Poi resto qui perché comunque sono
cresciuto e mi sono formato in questo Paese e desidero che vada avanti.
Però tante cose devono cambiare. In ogni caso, credo che il sistema non
possa essere risanato, ma vada rifondato ex abrupto, con un massiccio ricambio generazionale.
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Postato da: giacabi a 14:22 |
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embrione, scienza - articoli
Scienza e Cristianesimo
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“Ci sono ancora persone che guardano con sospetto il suggerimento che la fede di un Newton o di
un C. Maxwell possa aver avuto un’influenza sui punti fondamentali della formazione delle loro
teorie scientifiche. Eppure, la
storia del pensiero occidentale mostra che in realtà lo sviluppo della
scienza naturale non si può separare da idee fondamentali che derivano
dalla tradizione giudeocristiana.
C’è un’interazione più profonda tra la teologia e la scienza di quanto ci si renda conto di
solito”
T. Torrance, Senso divino e scienza moderna, LEV,
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Postato da: giacabi a 15:11 |
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scienza - articoli
La materia è fatta di vuoto!
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G.B. -Fermiamoci su un fatto così sconcertante: il paradosso di una moltitudine di elementi che alla fine si risolvono nel vuoto, nell'inafferrabile. Per capire, supponiamo di voler contare tutti gli atomi contenuti in un granello di sale. E supponiamo anche di essere sufficientemente veloci da poterne contare un miliardo al secondo. Malgrado questa notevole prestazione, ci
vorrebbero più di cinquanta secoli per effettuare il censimento
completo della popolazione di atomi contenuti in questo minuscolo
granello di sale. Vediamo un'altra immagine: se ogni atomo del nostro granello di sale fosse grande come la capocchia di uno spillo, l'insieme degli atomi che lo compongono ricoprirebbe tutta l'Europa di uno strato uniforme dello spessore di venti centimetri. …….
J.B. -Tuttavia, un vuoto immenso regna tra le particelle elementari. Se rappresento il protone di un nucleo d'ossigeno con una capocchia di spillo qui sul tavolo davanti a me, allora l'elettrone che gli gravita intorno descrive una circonferenza che passa dall'Olanda, la Germania e la Spagna. È questa la ragione per cui se tutti gli atomi che compongono il mio corpo dovessero avvicinarsi fino a toccarsi, voi non mi vedreste più. Nessuno d'altra parte potrebbe vedermi a occhio nudo: misurerei solo qualche millesimo di millimetro, come una polvere finissima.
Jean Guitton, Grichka Bogdanov - Igor Bogdanov
da:Dio e la scienza ed. Bompiani
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Postato da: giacabi a 08:50 |
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guitton, scienza - articoli
Ascolta Dio
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“Studia pure le cose di questo mondo, ma guardale con un occhio solo; con l’altro occhio guarda costantemente la luce eterna. Ascolta gli scienziati, ma ascoltali con un orecchio solo: l’altro sia sempre pronto ad ascoltare Dio”
A. M. Ampère, Lettera al figlio
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Postato da: giacabi a 20:48 |
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scienza - articoli
La scienza
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" Con Galilei nasce quella attività dell’intelletto cui diamo il nome di Scienza. E cioè lo studio della Logica del Creato ottenuta non limitandosi a riflettere e pensare, ma realizzando esperimenti. Nel
corso dei dieci millenni che separano Galilei dall’alba della civiltà,
l’intelletto di questa forma di materia vivente detta specie umana era
riuscito a inventare il linguaggio scritto (da cui nasce la memoria
collettiva permanente) e a scoprire la Logica.
La
memoria collettiva affascinava Galilei. Con il linguaggio però è
possibile dire tutto e il suo contrario. Nasce così — duemila anni prima
di Galilei — il bisogno di capire su quali basi costruire strutture
rigorose. Non discorsi che portano a conclusioni totalmente opposte.
Mettiamoci d’accordo sulle verità da cui intendiamo partire. Ad esse
diamo il nome di assiomi. Stabiliamo inoltre le regole con le quali, da
quelle verità, è possibile dedurre determinate conclusioni. L’esempio
più spettacolare di logica che affascinò i nostri antenati fu la
geometria euclidea.
Ci sono però tante logiche possibili. Qual è quella che regge il mondo
in cui viviamo e di cui siamo parte? E’ possibile venirne a capo?
E’ qui che interviene il contributo straordinario di Galileo
Galilei il quale dice: per scoprire la Logica del Creato c’è una sola
strada, chiederlo all’Autore. Come? Non limitandosi a osservare le
Stelle, come era stato fatto per migliaia e migliaia di anni, ma
facendo, qui sulla Terra, esperimenti usando pietre, spaghi e legna.
Bastava legare una pietra a uno spago, per scoprire le leggi del piano
inclinato. Pendolo e piano inclinato li chiameremmo invenzioni
tecnologiche. C’era bisogno di rigore per descrivere i risultati degli
esperimenti. Galilei fu il primo uomo al mondo a usare la matematica per
descrivere i risultati sperimentali.
Era anche necessario dare ai risultati un’interpretazione teorica. In termini moderni diremmo che Galilei
era simultaneamente fisico sperimentale, teorico e inventore di nuove
tecnologie. Uno strumento indispensabile per gli esperimenti galileiani
era l’orologio. Esso era stato a portata di mano, da sempre. Ma da
nessuno mai utilizzato. L’orologio che Galilei usò per realizzare i suoi
esperimenti fu il ticchettio del suo polso. Spesso gli strumenti sono a
portata di mano”
Antonino Zichichi
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Postato da: giacabi a 19:09 |
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zicchichi, scienza - articoli
Lo scienziato alla ricerca della verità
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Il compito dello scienziato è scoprire la verità nell'ambito del mondo reale. Premessa essenziale per questo compito è che egli possa fin dall'inizio poggiare saldamente su molte convinzioni fondamentali. Deve credere che esiste una verità da scoprire, che il mondo ha caratteristiche immutabili che sono le stesse in ogni tempo e in ogni luogo, o perlomeno che, se cambiano, lo fanno in modo regolare. Deve inoltre credere di essere in grado di scoprire almeno parte della verità sulla natura. Queste
convinzioni sono essenzialmente di carattere giudaico - cristiano e
derivano dalla credenza fondamentale in un Dio che ha creato tutte le
cose "in misura, numero e peso" (1) e conferendo ad esse caratteristiche proprie (2).
Potremmo porci innanzitutto la domanda di Pilato "che cos'è la verità?" Pilato
non si aspettava una risposta, ma si potrebbe definire vera una
convinzione (credenza) che corrisponda alla realtà. Gli scienziati sono
realisti. Gilson affermava: "Prima
di tutto bisogna rendersi conto che l'uomo per sua natura è realista,
secondo bisogna avere consapevolezza del fatto che per quanto egli si
sforzi di pensare diversamente, non arriverà mai da nessuna parte;
terzo, bisogna rendersi conto che quando l'uomo pensa diversamente,
torna a pensare da realista non appena dimentica di recitare. La
principale differenza tra l'idealista e il realista è che l'idealista
pensa, mentre il realista conosce".
La verità oggi è minacciata da un una vasta gamma di pressioni politiche ed ideologiche. I mezzi di comunicazione sono saturi di propaganda disonesta che rende estremamente difficile capire quale sia la verità. Il postmodernismo e il costruttivismo sociale, affermando che la verità è relativa e socialmente condizionata, minano il concetto stesso di verità. La ragione è attaccata da quanti affermano che non esiste una verità oggettiva e che ciò in cui diciamo di credere non si basa sull’accettazione della realtà, ma deriva da un condizionamento sociale. La scienza ci può venire in aiuto, dimostrando che esiste una verità oggettiva e che dimenticare questo ha conseguenze disastrose. Si
può ignorare la realtà per un po’, ma quanto più a lungo la si ignora
tanto più tremenda sarà la resa dei conti. È nostra responsabilità
combattere queste idee perverse. Solgenitsin, che ha avuto il coraggio di denunciare i mali del sistema sovietico, disse: “Il
semplice atto di un uomo comune coraggioso è di non partecipare alla
menzogna, non appoggiare azioni false. Una parola di verità pesa più del
mondo intero”
Peter E. Hodgson
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Postato da: giacabi a 14:25 |
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verità, scienza - articoli
I positivisti
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“"veramente io li ammiro, tutti questi grandi filosofi di quei sistemi nichilisti oggi così prosperi. Noialtri, pazienti scrutatori della natura, ricchi delle scoperte dei nostri predecessori muniti
degli strumenti più delicati,armati del severo metodo sperimentale
incespichiamo in ogni passo alla ricerca della verità, e ci accorgiamo
che il mondo materiale fin nella sua minima manifestazione,è quasi sempre diverso da quelle che avevamo presentito. Ed essi, completamente in balia dello spirito del sistema, come fanno a sapere?”
L. Pasteur discorso per l’elezionae all’accademia di Francia
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Postato da: giacabi a 12:19 |
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L’infinito bisogno di Dio
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“Nelle mie scoperte scientifiche ho appreso più con il concorso della Divina Grazia che con i telescopi”.
Galileo
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Postato da: giacabi a 11:54 |
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dio, scienza - articoli
L’infinito bisogno di Dio
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Si narra che l’illustre fisico inglese Farady, nelle lezioni che faceva all’Istituzione reale di Londra, non
pronunciasse mai il nome di Dio, sebbene fosse profondamente religioso.
Un giorno, eccezionalmente, questo nome gli sfuggì e improvvisamente si
manifestò un movimento di simpatica approvazione. Accorgendosene Farady interruppe la lezione con queste parole: «Vi ho sorpreso pronunciando il nome di Dio. Se
ciò non mi è ancora accaduto dipende dal fatto che io sono, mentre
tengo queste lezioni, un rappresentante della scienza sperimentale. Ma
la nozione e il rispetto di Dio arrivano al mio spirito attraverso vie
tanto sicure quanto quelle che conducono alla verità dell’ordine fisico.
Il
positivismo non pecca solo nel metodo… esso non tiene conto della più
importante delle nozioni positive, quella dell’infinito. Al
di là di questa volta stellata, che cosa c’è? Nuovi cieli stellati. Sia
pure! E al di là ancora? Lo spirito umano, spinto da una forza
irresistibile, non smetterà mai di chiedersi: che cosa c’è al di là?
Vuole esso fermarsi, sia nel tempo, sia nello spazio?
Poiché
il punto dove esso si ferma è solo una grandezza finita, soltanto più
grande di tutte quelle che l’hanno preceduta, non appena egli comincia
ad esaminarlo ritorna la domanda implacabile senza che egli possa far
tacere il grido della sua curiosità. Non
serve nulla rispondere: al di là ci sono degli spazi, dei tempi o delle
grandezze senza limiti. Nessuno comprende queste parole.
Colui
che proclama l’esistenza dell’infinito, e nessuno può sfuggirvi,
accumula in questa affermazione più sovrannaturale di quanto non ce ne
sia in tutti i miracoli di tutte le religioni… Io vedo ovunque
l’inevitabile espressione della nozione dell’infinito nel mondo.
Attraverso essa, il soprannaturale è in fondo a tutti i cuori.
L’idea
di Dio è una forma dell’idea di infinito. La metafisica non fa che
tradurre dentro di noi la nozione dominatrice dell’infinito. Dove sono
le fonti genuine della dignità umana, della libertà e della democrazia,
se non nella nozione di infinito di fronte alla quale gli uomini sono
tutti uguali?».
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Postato da: giacabi a 11:25 |
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scienza - articoli
La bellezza del creato
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«Lo scienziato non studia la natura perché sia utile farlo. La studia perché ne ricava piacere, non fosse bella, non varrebbe la pena di sapere e la vita non sarebbe degna di essere vissuta. [...] Intendo riferirmi a quell'intima bellezza che deriva dall'ordine delle parti e che può essere colta da un'intelligenza pura. Proprio perché la
semplicità e la verità sono belle noi cerchiamo di preferenza fatti
semplici e fatti vasti; e troviamo piacere ora a guardare il corso
immenso delle stelle ora dall'osservare al vastità, e ora dal ricercare
nelle ere geologiche quei segni del passato che ci attraggono per la
loro lontananza.»
Henri Poincaré |
Postato da: giacabi a 07:13 |
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Scienza e religione
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«Credo che Planck ritenga religione e scienza del tutto compatibili perché si occupano di due aspetti diversi del reale. La scienza,
studiando il mondo oggettivo e materiale, esige una grande accuratezza
nelle affermazioni che facciamo sulla realtà oggettiva e
nell’individuazione dei rapporti che intercorrono tra le diverse
manifestazioni di questa realtà. La religione invece si occupa del mondo dei valori: tratta del mondo come dovrebbe essere, e non del mondo come è. La scienza si applica a distinguere il vero dal falso; la religione distingue invece il bene dal male, l’azione buona da quella cattiva. La scienza è il fondamento della tecnologia, la religione è la base dell’etica. In
poche parole, mi sembra che il conflitto tra scienza e religione, che
scoppia essenzialmente nel Settecento, nasca da un equivoco: o, più
esattamente, dal fatto che si è voluto attribuire alle immagini e alle
parabole della religione il valore di enunciati scientifici. È evidente
che si tratta di un’operazione priva di senso. Io ho imparato dai miei
genitori a distinguere tra aspetti soggettivi e aspetti oggettivi del
mondo: degli uni si occupa la religione, degli altri la scienza. La scienza è per così dire il modo in cui affrontiamo e discutiamo il lato oggettivo del reale. La fede religiosa
è invece l’espressione delle decisioni soggettive con cui scegliamo i
criteri mediante i quali ci proponiamo di agire e di vivere. È
vero che normalmente prendiamo queste decisioni a seconda degli
atteggiamenti del gruppo — famiglia, nazione o cultura — cui
apparteniamo. I fattori ambientali hanno dunque un peso decisivo, ma si
tratta pur sempre di decisioni soggettive e dunque non rette dal
criterio di ‘verità’ o ‘falsità’. Planck, mi pare, ha fatto uso di questa libertà finendo per schierarsi a fianco della tradizione cristiana. Ciò
significa che i suoi pensieri e le sue azioni, che soprattutto
attengono alla sfera delle scelte personali, s’inquadrano perfettamente
nell’alveo di questa tradizione: nessuno si sogna di criticarlo, per
questo. Planck, insomma, ritiene che l’aspetto soggettivo del reale sia nettamente distinto da quello oggettivo.
In quanto a me, devo confessare che questa distinzione così rigida mi
lascia perplesso: non credo che una distinzione così netta tra fede e
conoscenza si possa mantenere anche sul piano del pensiero collettivo.»
W. Heisenberg Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965. Boringhieri, Torino 1984, pp. 92-103.
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Postato da: giacabi a 15:38 |
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plank, scienza - articoli
Fede,ragione e scienza
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“Giovanni Paolo II sottolinea invece l’importanza di coniugare fede e ragione nella loro reciproca relazione, pur nel rispetto della sfera di autonomia propria di ciascuna. Con questo magistero, la Chiesa si è fatta interprete di un'esigenza emergente nell'attuale contesto culturale. Ha voluto difendere la forza della ragione e la sua capacità di raggiungere la verità, presentando ancora una volta la fede come una peculiare forma di conoscenza, grazie alla quale ci si apre alla verità della Rivelazione (cfr Fides et ratio,
13). Si legge nell’Enciclica che bisogna avere fiducia nelle capacità
della ragione umana e non prefiggersi mete troppo modeste: "È
la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a
rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si
fa così avvocato convinto e convincente della ragione"
(n. 56). Lo scorrere del tempo, del resto, manifesta quali traguardi la
ragione, mossa dalla passione per la verità, abbia saputo raggiungere.
Chi potrebbe negare il contributo che i grandi sistemi filosofici hanno
recato allo sviluppo dell’autoconsapevolezza dell’uomo e al progresso
delle varie culture? Queste, peraltro, diventano feconde quando si
aprono alla verità, permettendo a quanti ne partecipano di raggiungere
obiettivi che rendono sempre più umano il vivere sociale. La ricerca della verità dà i suoi frutti soprattutto quanto è sostenuta dall'amore per la verità. Ha scritto Agostino: "Ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, ma nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente" (De diversis quaestionibus 35,2).
Non
possiamo nasconderci, tuttavia, che si è verificato uno slittamento da
un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimentale. La ricerca si è volta soprattutto all’osservazione della natura nel tentativo di scoprirne i segreti.
Il desiderio di conoscere la natura si è poi trasformato nella volontà
di riprodurla. Questo cambiamento non è stato indolore: l'evolversi dei
concetti ha intaccato il rapporto tra la fides e la ratio con la conseguenza di portare l'una e l'altra a seguire strade diverse. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l'antico concetto di ratio;
in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità
ultima delle cose per fare spazio ad una ragione paga di scoprire la
verità contingente delle leggi della natura. La ricerca scientifica ha
certamente il suo valore positivo. La scoperta e l'incremento delle
scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto
della ragione ed esprimono l'intelligenza con la quale l'uomo riesce a
penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua, non teme
il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conducono le sue
conquiste quando queste sono finalizzate all'uomo, al suo benessere e al
progresso di tutta l'umanità. Come ricordava l'ignoto autore della Lettera a Diogneto: "Non l'albero della scienza uccide, ma la disobbedienza. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera" (XII, 2.4).
Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi.
Il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sostituirsi al
Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. E’ questa una forma
di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d'altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie. La
filosofia e la teologia diventano, in questo contesto, degli aiuti
indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza
proceda da sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo
di rischi.
Ciò non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire
alla tecnica di produrre strumenti di sviluppo; consiste, piuttosto, nel mantenere
vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono
nei confronti della scienza, perché permanga nel solco del suo servizio
all'uomo.
La lezione di sant’Agostino è sempre carica di significato anche nell'attuale contesto: "A che cosa perviene - si domanda il santo Vescovo di Ippona - chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non
è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che
cercano quanti usano la ragione... Confessa di non essere tu ciò che è
la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa
non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la
disposizione della mente" (De vera religione, 39,72). Come dire: da
qualsiasi parte avvenga la ricerca della verità, questa permane come
dato che viene offerto e che può essere riconosciuto già presente nella
natura. L'intelligibilità della creazione, infatti, non è frutto dello
sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di
scoprire la verità in essa presente. "Il ragionamento non crea queste verità - continua nella sua riflessione sant'Agostino - ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e una volta scoperte ci rinnovano" (Ibid.,
39,73). La ragione, insomma, deve compiere in pieno il suo percorso,
forte della sua autonomia e della sua ricca tradizione di pensiero.
La
ragione, peraltro, sente e scopre che, oltre a ciò che ha già raggiunto
e conquistato, esiste una verità che non potrà mai scoprire partendo da
se stessa, ma solo ricevere come dono gratuito. La
verità della Rivelazione non si sovrappone a quella raggiunta dalla
ragione; purifica piuttosto la ragione e la innalza, permettendole così
di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca
insondabile come il mistero stesso. La verità rivelata, nella "pienezza dei tempi" (Gal 4,4), ha
assunto il volto di una persona, Gesù di Nazareth, che porta la
risposta ultima e definitiva alla domanda di senso di ogni uomo.
La verità di Cristo, in quanto tocca ogni persona in cerca di gioia, di
felicità e di senso, supera di gran lunga ogni altra verità che la
ragione può trovare. E' intorno al mistero, pertanto, che la fides e la ratio trovano la possibilità reale di un percorso comune.
In
questi giorni, si sta svolgendo il Sinodo dei Vescovi sul tema "La
Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Come non vedere
la provvidenziale coincidenza di questo momento con il vostro Congresso.
La passione per la verità ci spinge a rientrare in noi stessi per
cogliere nell'uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una
vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire
quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità
della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua
fino a quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo
carattere di risposta definitiva. Una Parola di rivelazione che diventa
vita e che chiede di essere accolta come sorgente inesauribile di
verità.
Benedetto XVI Da: Discorso ai partecipanti ad un Congresso Internazionale nel decimo anniversario della pubblicazione della Fides et ratio, Roma, 16 ottobre 2008
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Postato da: giacabi a 12:02 |
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fede, ragione, benedettoxvi, scienza - articoli
LA PARTICELLA DI DIO
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Postato da: giacabi a 14:21 |
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scienza - articoli
Quando il genio crede in Dio
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di Claudio Damioli
Stando
a quel che dice il Papa, possono e devono coabitare: fede e ragione non
si escludono a vicenda, l'una aiuta l'altra a conoscere la verità su
Dio e sull'uomo. Il succo della recente Lettera Enciclica di Giovanni
Paolo II, Fides et ratio, può essere sintetizzato in questa semplice,
profonda consapevolezza. Non tutti, ovviamente, concordano con il
pensiero del Santo Padre. Non manca chi lo contesta, sostenendo che dove
trionfa la ragione deve sloggiare la fede. Ma è la storia, sono i fatti
innanzitutto a dar ragione al Papa. E questi fatti, bisogna conoscerli.
Chi crede in Dio può star tranquillo. Da
sempre, ininterrottamente fino ai nostri giorni, i più grandi
"cervelli" dell'umanità dimoravano nel cranio di uomini di fede. Molti
di coloro che sono universalmente riconosciuti come geni, credevano in
Dio e pregavano il Creatore. Non risulta che abbiano mai riscontrato
dissidi insuperabili tra la fede che professavano e la ragione che
utilizzavano alla massima potenza. E tutto questo sia detto con
buona pace degli scettici, pronti a sentenziare "aut fides aut ratio", o
fede o ragione, certi che per far posto alla fede bisogna mettere a
riposo la ragione. Tranquilli, cattolici: la storia, i fatti,
l'esperienza, come vedremo, sono di tutt'altro parere. Troppo facile
parlare dei filosofi. I più grandi credevano in Dio. Platone e Aristotele, due geni del pensiero, erano certi della sua esistenza, senza avere mai letto un solo rigo delle Sacre Scritture. Credenti, e santi, i sommi Agostino, Anselmo d'Aosta, Alberto Magno e Tommaso. Santo è anche Bonaventura. Pascal e Vico erano cattolici. E avevano fede pensatori
del calibro di Cartesio e Leibniz, di Rosmini e Kierkegaard, di Bergson
e Solovev, di Gilson e Del Noce. E anche Kant credeva in Dio (ma
quanti errori in questo filosofo). Dalla filosofia alla scienza, il
discorso non cambia. Anche in questo campo, il pensiero del Papa trova
innumerevoli conferme nei fatti. Ed è un fatto innegabile che i più
grandi scienziati di tutti i tempi erano, o sono impregnati di profonda
religiosità. Gli esempi abbondano. Copernico
era un religiosissimo canonico; Newton passava dagli studi sulla
gravitazione universale alle pratiche di religione e di carità; saltava
pasti e dormiva pochissimo, ma non tralasciava mai di pregare. Galileo
Galilei era cattolico convinto, al punto di lasciar scritto che
"in tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di
cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa". Keplero
era credente; Boscovich, che era astronomo, fisico, matematico,
architetto, storico e poeta, un vero genio universale, era anche
gesuita. Credeva in Dio Ampere, e cosi Pasteur, il fondatore della
microbiologia e della immunologia, che era una vera, autentica anima
religiosa; Mendel, lo scopritore delle leggi che regolano l'ereditarietà dei caratteri, era frate agostiniano e sacerdote. I modernissimi Plank, Einstein e Bohr credevano in Dio. Il Nobel Rubbia, scienziato di prim'ordine e credente in Dio, ha dichiarato: "Noi [i Fisici] arriviamo a Dio, percorrendo la strada della ragione, altri seguono la strada dell'irrazionale". Non dimentichiamo, infine, un altro illustre italiano, Antonino Zichichi,
uomo di fede e scienziato a tutto tondo. E questi sono soltanto una
piccola parte Prendiamo dunque atto che l'idea che scienza e fede siano
tra loro incompatibili, come per anni ci hanno insegnato a scuola, è
totalmente falsa. Non dunque "aut fides aut ratio", ma "fides et ratio",
come insegna il Papa nella sua ultima Enciclica. Ne era convinto anche
il tedesco Max Plank (1858-1947), uno dei padri universalmente riconosciuti della fisica del nostro secolo, premio Nobel, che scriveva nel 1938: "Per
quanto si voglia guardare, non troviamo da nessuna parte, tra religione
e scienza, una contraddizione, ma precisamente, nei punti più decisivi,
perfetta concordanza. La religione e le scienze naturali non si
escludono a vicenda, come molti oggi credono o temono, ma si completano e
si connettono reciprocamente". Gli fa eco, ai nostri
giorni, un altro fisico di spessore internazionale, l'italiano Antonino
Zichichi, direttore del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana,
di Erice, in Sicilia: "L'antitesi
scienza-fede e la più grande mistificazione di tutti i tempi. La
scienza studia l'immanente, le cose che si toccano. Come ha già detto
Galilei, 1'immanente non entrerà mai in conflitto con il trascendente
che appartiene alla fede. Mondo materiale e mondo spirituale hanno la
stessa origine dal Creatore". Lo scrittore Vittorio Messori, dichiara nel suo Qualche ragione per credere (Mondadori,1997): "Bisogna
stare attenti a non cascare nel trappolone che vorrebbe convincerci di
un divorzio irreparabile e unanime tra scienza e fede, non appena si
entra nell'epoca moderna. Prendi, ad esempio, uno dei simboli e dei
fattori più potenti della "modernità": l'energia elettrica. Alessandro Volta era un uomo da messa e da rosario quotidiani; Andre-Marie Ampere scrisse addirittura delle Prove storiche della divinità del Cristianesimo; Michael Faraday alternava straordinarie invenzioni a predicazioni del vangelo sulle strade inglesi; Luigi Galvani era devoto terziario francescano; Galileo Ferraris un austero, esemplare cattolico praticante; Leon Foucault,
il primo che calcolò la velocità della luce, un convertito.. Come vedi,
mi sono limitato al campo "elettrico", ma potrei tediarti dandoti liste
analoghe per ogni altra disciplina scientifica" . Certo, non
tutti gli scienziati soprannominati erano, o sono cattolici. Ma tutti
erano e sono convinti dell'esistenza di Dio, ed e quanto basta per
dimostrare concretamente, contro chi lo nega, che Fides et ratio, fede e
ragione possono convivere benissimo. A meno di voler ammettere una
assurdità: e cioè che i summenzionati luminari, quando si occupavano di
Dio, pensionavano la ragione. Dai geni della scienza a quelli della letteratura e della poesia, la storia non cambia. Il sommo Dante in testa a tutti, e poi Petrarca, ma anche Shakespeare, Milton, Dostojevski, Manzoni, il Nobel Grazia Deledda ("cattolica a tutte lettere", la definisce il gesuita Sommavilla) per arrivare a Claudel e poi Lewis, Bernanos, il Nobel Mauriac, Julien Green, Tolkien, Peguy, Chesterton, Elliot. Stessa musica nel campo dell'arte. Giotto, il Beato Angelico (era un frate), Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Bramante, Rembrandt,
per citare solo alcuni tra i talenti più noti, non si spiegherebbero
senza la fede. Tutto il loro genio è emerso in dipinti e sculture a
sfondo religioso. Fede e ragione convivono, insegna la storia. A chi lo
nega, vien bene suggerire quel che diceva Gustave Thibon, il francese autodidatta, un genio della umana saggezza: "Chi rifiuta di essere l'immagine di Dio, sarà in eterno la sua scimmia".
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Postato da: giacabi a 07:48 |
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scienza - articoli
La religione
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Senza la religione l’umanità si troverebbe oggi ancora allo stato di barbarie...
E’ stata la religione che ha permesso all’umanità di progredire in tutti i campi ".
"non ho trovato una parola migliore di religione per definire la fiducia nella natura razionale della realtà, per quanto sia accessibile alla ragione. Ogni volta che questo sentimento è assente, la scienza degenera in un piatto empirismo."
Einstein
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