CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


sabato 4 febbraio 2012

Caparra

 ***

Unita 

Eugenio Corti racconta Caprara: dall'ideologia alla scoperta del vero bisogno umano

da Il Sussidiario (17/06/2009)

Massimo Caprara, l’ex segretario di Togliatti, il fondatore de Il Manifesto, è morto ieri all’età di 87 anni lasciando un’enorme testimonianza storica e un’eredità culturale che ancora dev’essere pienamente compresa. Abbandonato il Partito Comunista Italiano per abbracciare il cattolicesimo ha trascorso il resto della propria vita a combattere l’ideologia a lungo sostenuta, denunciandone i crimini e, come lui stesso disse, “la mancanza di umanità”. Abbiamo chiesto a Eugenio Corti, anch’egli diretto testimone delle tragedie che le ideologie del secolo passato scatenarono sul mondo e amico di Caprara, di raccontarci quale fosse la statura umana di questo eccezionale personaggio.

«La Verità è una cosa povera, umile, il Vangelo è stato scritto con pochissime parole, ma dal grande significato, è la storia dell’uomo e dell’umanità intera: “Perché mi hai abbandonato?”. È Dio che vive la povertà dell’uomo: la mia povertà è la verità, la mia verità è povera, non posso raccontare null’altro che questo. E tutto quello che ti accade nella vita, il lavoro, gli amori, diventa secondario rispetto all’avvenimento che ti è capitato, necessario ma secondario. Adesso mi sento di essere veramente rivoluzionario, adesso che non sono più comunista sono veramente rivoluzionario».

Eugenio Corti, come commenta questa frase di Massimo Caprara?
Dà l’idea dell’uomo che era. C’è in questa frase tutta la persona di Caprara, trascinato nel comunismo dall’amore per i poveri e per gli esseri umani si è reso conto che la loro salvezza non è quella prevista da Karl Marx, ma quella segnata da Gesù Cristo. Ha scoperto questa cosa semplice e al contempo profondissima trovando in lui stesso la povertà. Ossia non considerandosi come il ricco distributore di una dottrina da impartire ai poveri, ma come egli stesso povero e quindi partecipe realmente dei bisogni umani. Questa è la vera rivoluzione.

Che uomo era a livello personale Massimo Caprara?
L’ho incontrai più volte nel corso della mia vita, ho avuto questo grande onore. Ebbi modo di ammirare in lui soprattutto la dirittura morale, oltre a un’innata gentilezza. Era un uomo passato attraverso un’immane tragedia nell’ordine dello spirito e della cultura. Caprara aveva fermamente creduto in un ideale che gli si era rivelato addirittura mortifero. Non solo negativo, non solo sbagliato, ma produttore di morte. Una scoperta che lo segnò nel profondo, ma che non lo spense. Nel corso dei rimanenti anni della sua esistenza ha sempre cercato di spendere la propria intelligenza e il proprio tempo in un’opera di recupero umano. La sua partecipazione ad azioni che poi dovette giudicare come negative non fu per lui causa di un ritiro dal mondo da trascorrere fra i rimorsi e l’inazione, bensì rappresentò una spinta inesorabile e controcorrente alla riparazione del male compiuto.  E questo soprattutto in ambito culturale. Non è da tutti riuscire a rinnegare un’intera vita spesa per un ideale e ancor di più impiegare le proprie restanti energie per fare marcia indietro.

Qual è stato il fattore decisivo del suo cambio di orientamento politico e ideale?
La mia impressione è che Massimo Caprara sia stato al centro di una progressiva scoperta della Verità. A partire da un’intuizione sulle contraddizioni intrinseche alla storia del suo partito, dovuta forse all’estrema coerenza morale che l’ha sempre caratterizzato, un po’ alla volta è emersa in lui, sempre più chiaramente, la coscienza dell’errore di fondo dell’ideologia nella quale si rispecchiava. E sempre più cominciò a mettersi al servizio della Verità. La sua apertura e il suo cammino al servizio della verità lo hanno portato alla conversione al Cattolicesimo. Gli effetti di questo rinnovato rapporto con la religione furono altrettanto radicali nei giudizi espressi sul PCI.

A questo proposito. Caprara ha spesso denunciato il tentativo del PCI di appropriarsi ambiguamente di alcuni riferimenti culturali cattolici anche mediante particolari “amicizie” in ambito ecclesiastico. È d’accordo con questo tipo di osservazione?
Sono perfettamente d’accordo. Caprara ha disposto per gran parte della sua vita di un osservatorio straordinario, quello conferitogli dal ruolo di segretario di Togliatti. Aveva quindi sott’occhio il “capo” e tutto il mondo che lo circondava, giorno per giorno. Fu testimone delle azioni di Togliatti e della sua incredibile spregiudicatezza, anche nei riguardi del Cattolicesimo. Ed in effetti Caprara, anche da militante, ha sempre malvisto l’ambiguo rapporto fra il PCI e i cattocomunisti alla Franco Rodano. Non tollerava il connubio di “diavolo e acqua santa”, sebbene lo stesso Togliatti fosse anch’egli dell’idea di tener ben separate le “fazioni”. Il giudizio negativo sull’ambiguità nei confronti della Chiesa non si limitava dunque al solo capo, ma a tutta la schiera dei luogotenenti che lo attorniavano, assai più desiderosi di accaparrare sostenitori fra i cattocomunismi, di fare “tutt’uno” con loro.

Fu dunque un’accusa che non risparmiò nessuno.
Fu un’accusa ferma verso l’ideologia e le persone che la incarnavano in Italia e all’estero. Va detta però una cosa molto importante: nel rinnegare il proprio passato non fu mai una sola volta aggressivo o astioso contro alcuno. Individuò con grande chiarezza l’errore di fondo che risiedeva nel Partito Comunista e nella sua intellighenzia, ma non rinnegò mai nessuna amicizia. Questo è un concetto difficile da esprimere in occasione di un ricordo, perché di un morto solitamente non si può parlare che bene. È però oggettivo riconoscere la grande nobiltà d’animo con la quale Caprara trattò le persone con cui era stato in stretti rapporti per lunghissimi anni. Una nobiltà che non fa di lui né un crociato né un fanatico, ma solo un uomo al servizio della verità.

Oltre ai membri del PCI denunciò atteggiamenti scorretti anche da parte dei rappresentanti del mondo cattolico di sinistra?
Altroché. C’è stato tutto un circondare Togliatti da parte di servili personaggi della cultura cattolica. Fra i “migliori” si può pensare a De Luca per esempio o allo stesso Rodano. Ma ricordo, e parlo a titolo personale, personaggi che non voglio citare che si sono letteralmente sbracati nel seguire Togliatti, sostituendolo praticamente alla figura del Papa. Persone che si comportarono davvero con grande ignobiltà e il cui atteggiamento Caprara condannò al pari, se non peggio, di quello dei suoi compagni.

Come commenta l’isolamento che Massimo Caprara subì da parte del partito comunista una volta venuto alla luce il suo “cambio di rotta”?
Era inevitabile che venisse isolato. Ma devo dire che nel suo caso non è stato attaccato con violenza e virulenza. Certamente è stato “dimenticato”, “vaporizzato”, ma non si è voluto infierire contro di lui. Probabilmente temevano, attaccandolo con più forza, che egli affondasse ancor di più la lama nell’esame dei loro comportamenti sbagliati. Una paura meschina, se si giudica quanto ho detto di questo personaggio. Si sono limitati a considerarlo un uomo perduto, un individuo negativo, ma non c’è stata l’aggressione che avrebbe potuto esserci: hanno avuto paura del vecchio maestro e della sua miniera di ricordi.

***


L’ultimo sguardo di Massimo Caprara, nel racconto di un amico


di Stefano Nembrini,
da Il Sussidiario (17/06/09)


L’ultima volta che l’ho incontrato, Massimo Caprara non poteva più parlare. Entrando nel suo studio avevo provato una stretta al cuore, pensando a quanto dovesse essere difficile per lui. Aveva consacrato la sua vita alla testimonianza del miracolo che gli era accaduto. E adesso faticava perfino a salutare un amico. Mi ero chiesto, quasi irritato, perché il Signore lo stesse privando proprio dello strumento con cui aveva conquistato i cuori di centinaia di persone, compreso il mio. Eppure, quel giorno, non avevo potuto fermarmi alla rabbia. Un istante dopo lo avevo guardato negli occhi. E quello sguardo, lo sguardo in fondo con cui ci siamo congedati, mi si è piantato nel cuore. In quel volto di ottantenne erano due occhi da bambino che mi sorridevano, pieni di letizia.

“Come può un uomo nascere quando è già vecchio?”. Forse è proprio lo stupore di Nicodemo che meglio descrive la mia amicizia con Massimo. In fondo è stato il rinnovarsi, ogni volta con maggiore intensità e coscienza, di questa domanda.

Fin dal primo incontro, quando con alcuni amici lo ascoltammo ad un convegno a Milano: ci colpì fin da subito la nettezza del giudizio rispetto al suo trascorso nel Partito Comunista, (“inconsapevole prigioniero di una terribile ideologia”). E nello stesso tempo il coraggio e l’energia di un uomo che non solo si era lasciato quel passato alle spalle, ma che viveva ora una grande domanda: “Adesso sono solo un uomo in cerca della verità”. Insomma, ci aveva incuriositi. Fu così che lo invitammo al liceo scientifico di Trescore, frequentato da alcuni di noi; il consiglio d’istituto aveva approvato il progetto all’unanimità, orgoglioso di ospitare un così degno rappresentante del Partito. Si erano persi qualche passaggio della vita di Caprara. Ma non fu tanto l’incontro, pur entusiasmante, a sconvolgerci quel giorno. Fu il pranzo che seguì, a casa di uno degli organizzatori. Quando Massimo parlò di sé, del suo cammino degli ultimi anni, del paziente risvegliarsi di quell’anelito religioso rimasto sopito per tanto tempo, ma mai scomparso del tutto, custodito nel tenero ricordo della madre. Quando Massimo, di fronte a tutti noi, si commosse, pronunciando il nome dell’unico che poteva offrire quella verità tanto desiderata: “Cristo”. Ma che uomo era costui? Non potevamo abbandonarlo.

Così con i primi anni di università incominciarono anche le visite a casa Caprara, un appartamento seminascosto in centro a Milano. Io, Amir, Elena, insieme a Gianni Mereghetti, e poi altri ancora. Prima con il sacro timore di chi si accostava ad un monumento, ad un’autorità: uno che aveva vissuto spalla a spalla con Togliatti, che aveva stretto la mano a Stalin, che aveva scritto la nostra Costituzione; e poi, col passare del tempo, con sempre maggior familiarità e cordialità. Si moltiplicavano così gli incontri, i pomeriggi passati con lui e la sua devotissima moglie Iolanda. Sui divanetti del suo studio, a dialogare di storia e politica, o per l’Italia, accompagnandolo in alcuni dei suoi innumerevoli incontri.

E poi quel pomeriggio, scioccante. Io e Amir stavamo uscendo dal suo appartamento dopo una delle consuete visite; sulla soglia Massimo ci guarda e scoppiando a piangere ci dice: “Grazie, voi siete le mie colonne”. Tornammo a casa in silenzio, sconvolti: cosa stava accadendo? Cosa avevano due ventenni da insegnare ad un uomo così? Non ce ne eravamo ancora accorti. Semplicemente eravamo di fronte ad un miracolo. Lentamente, attraverso l’amicizia con noi, attraverso quel primo Meeting a Rimini, attraverso l’incontro con don Giussani nei suoi testi, Massimo stava iniziando la sua Vita Nova, come la definì. L’uomo che aveva pianto solo di fronte a Stalin, ma per il freddo di Mosca, adesso si commuoveva non di fronte a noi, ma di fronte alla tenerezza della presenza di Cristo, nella nostra e nella sua vita.

La sera stessa gli scrissi, ringraziandolo per la promessa che la sua vita mi aveva testimoniato. La sua risposta fu impressionante, come sempre: “Siamo uniti da una fruttifera amicizia che si fonda sull’Avvenimento, sull’Incontro, sull’Annunzio. Non vi sono, in questo, gerarchie, anzianità, qualifiche, ma solo una comune letizia per la Scoperta [...] l’inesauribile capacità non del passato, né dell’utopia, ma dell’attualità incondizionata della Presenza”.

Abbiamo così avuto in questi otto anni, semplicemente, una grande grazia: godere dell’amicizia di uno che, incontrando Cristo, si è riscoperto uomo. E ci ha aiutato a riscoprirci tali.

Si può nascere quando si è già vecchi? Sì. Ed è una promessa per tutti.


***


L'ex segretario di Togliatti che sfidò il comunismo

di Mario Cervi,
da Il Giornale (17/06/09)

Se n’è andato, con Massimo Caprara, uno dei grandi testimoni delle vicende politiche italiane nel secolo scorso. Caprara è stato uno dei personaggi esemplari di quella stagione insieme drammatica e affascinante del nostro Paese in cui uomini di grande levatura intellettuale e morale compirono un percorso tortuoso e difficile tra le ideologie e le eresie: fino al traguardo d’un distacco ironico o diffidente dalle une e dalle altre, per alcuni. E per altri al traguardo d’una nuova solida fede. Caprara è stato, come attivista politico e come giornalista, un privilegiato. Lo è stato come segretario particolare, per vent’anni, di Palmiro Togliatti. Del leader comunista ha saputo e capito tutto quel che c’era da sapere e da capire, sul piano personale e sul piano politico.

Al Migliore ha dedicato moltissime pagine, tutte interessanti. Le ha scritte senza mai aver l’aria di volersi avventare contro il capo rinnegato. Ha scelto piuttosto la strada dell’analisi ragionata e del racconto sobrio, acuto, efficace. Manteneva lo stesso tono anche quando, a quattr’occhi, si ragionava della sua
lunga militanza nel PCI che lo fece sindaco di Portici, per quattro legislature lo mandò a Montecitorio, gli affidò compiti delicatissimi. Sì, la conoscenza con Togliatti - Caprara era un intelligente ragazzo di buona famiglia napoletana subito preso in simpatia dal leader comunista appena rientrato in Italia - rappresentò la prima svolta decisiva della sua esistenza. Diligente, efficiente, abile, capace di tacere, Caprara riuscì a conquistare la totale fiducia del suo capo.

La seconda svolta venne nel 1969, quando insieme agli altri fondatori del Manifesto - in particolare Luigi Pintor, Valentino Parlato, Rossana Rossanda - Caprara si mise in rotta di collisione con il segretario del PCI, Enrico Berlinguer. Era stato spiegato a Berlinguer che la nuova pubblicazione non aveva «intenzioni frazioniste», voleva solo fare «ricerca teorica». Ma quando il Manifesto uscì fu chiaro che andava ben al di là. Il PCI veniva scavalcato a sinistra da ribelli che non ammettevano cedimenti borghesi, ma che nel contempo avevano criticato l’intervento sovietico in Cecoslovacchia con toni ben diversi da quelli felpati della dirigenza comunista.
Questi comunisti dell’ala sinistra avevano dissentito dallo stalinismo più per le caratteristiche conservatrici che per quelle dispotiche e guardavano alla Cina maoista come a un nuovo, praticabile modello. Con durezza furono tutti radiati dal PCI.

Caprara si rimproverò sempre per non aver lasciato il partito nel 1956, dopo l’invasione dell’Ungheria, e per avere assistito, allora, all’umiliazione di Giuseppe Di Vittorio che aveva deplorato l’attacco all’Ungheria e che fu costretto da Togliatti a una umiliante ritrattazione. «Imre Nagy - ha scritto Caprara - attirato fuori dalla legazione jugoslava dove si era rifugiato, fu deportato, proditoriamente processato e impiccato dai russi nel 1958. Nonostante simili gravissimi eventi io allora non uscii dal partito... Non mi assolvo. Porto il peso dei miei errori e della colpa della mia ideologia». Imboccato il difficile cammino dei dubbi, Caprara non s’acquetò nemmeno nel Manifesto. Già molto prima che eventi di portata storica sgretolassero l’Unione Sovietica e relegassero il comunismo nei ripostigli della storia, Caprara aveva visto crescere le sue diffidenze. Le utopie svanivano, avveniva in lui una conversione politica che fu anche una conversione religiosa. Raccontò d’essere stato afferrato «dalla mano dolce e potente di Cristo tramite don Luigi Giussani, che pure non ho mai visto di persona». Anche gli ambienti del Manifesto erano toccati dalla parola di don Giussani: «Giussani diceva cose più interessanti. In lui vedevano qualcosa che non vedevamo in nessun altro. Non siete rivoluzionari, diceva, voi non cambiate affatto la persona, non cambiate né la vita né la persona».

In questo tragitto s’avvicinò al Giornale, o piuttosto s’avvicinò a Indro Montanelli che dei fasti e nefasti comunisti era curiosissimo, e che aveva sempre letto con attenzione ciò che Caprara andava narrando e commentando. E poi a Indro piacevano i convertiti - essendolo stato lui stesso - quando erano in buona fede e sapevano presentare il loro cambiamento in maniera «interessante». Volle arruolare Caprara, nel 1986, e non ebbe motivo di pentirsene. La collaborazione di Caprara al Giornale fu assidua, molto apprezzata da Indro e utilissima. Quando capitava un fatto o un lutto che riguardasse gli anni del comunismo, in particolare quelli in cui Massimo Caprara era stato al fianco del Migliore, ricorrere a lui era automatico: e non si faceva pregare.

Col tempo aveva maturato idee che da una parte curiosamente lo avvicinavano ai fautori dello «scontro di civiltà» (c’è l’asse islamico e c’è l’asse cristiano di Bush e Putin), e da un’altra lo portavano a rivalutare l’epoca della Guerra fredda quando i comunisti erano seri e i conservatori anche. E Togliatti sapeva essere pragmatico quanto il più cotennoso conservatore. Sulla sua straordinaria esperienza umana e intellettuale, Caprara ha pubblicato molti libri penetranti e innumerevoli articoli e saggi. A essi dovrà sempre riferirsi chi si occuperà, negli anni e decenni futuri, di comunismo, di anticomunismo e di politica in generale. Caprara era e rimane nelle sue opere un riferimento importante e indispensabile.

***


L'uomo che svelò l'orrore del comunismo italiano

di Ugo Finetti,
da Libero (17/06/09)


L’eccezionalità di Massimo Caprara consiste nel fatto che è studiando la sua figura e i suoi scritti che si trovano le ragioni ideali sia del comunismo sia dell’anticomunismo.

Aveva solo 22 anni quando Palmiro Togliatti lo convocò nel suo improvvisato domicilio napoletano appena rientrato da Mosca per nominarlo caporedattore di Rinascita dopo che Caprara si era fatto notare come direttore della rivista Latitudine con Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio Napolitano e Antonio Ghirelli. Era il primo maggio 1944 e da allora Caprara seguì Togliatti per vent’anni affascinato da una personalità che rappresentava ai suoi occhi la più radicale rottura con un passato dell’Italia costellato da avvenimenti nefandi e figure compromesse. Dire che fu per tutto quel periodo solo “segretario particolare” del Migliore è però errato perché Caprara, dal 1944 fino alla morte di Togliatti nel 1964, ricoprì una molteplicità di incarichi elettivi e di partito a livello napoletano e nazionale (consigliere comunale a Napoli, sindaco di Portici, segretario regionale della Campania, deputato e quindi segretario del gruppo comunista di cui Togliatti era presidente).

Come è potuto diventare da fedelissimo un eretico? È l’itinerario che si consuma attraverso ruoli e battaglie che man mano lo portano sempre più ad avere di fronte non tanto avversari esterni, ma soprattutto interni nel Partito. A Napoli diventa uno degli esponenti di punta; fine intellettuale è capace di avere un seguito popolare. Sindaco di Portici, è poi il battagliero
capogruppo comunista al Comune di Napoli con Achille Lauro sindaco. È a lui che il regista Francesco Rosi si ispira quando gira Le mani sulla città. Alle elezioni politiche del 1963 entra alla Camera dei Deputati con 94 mila preferenze scavalcando il “delfino” di Amendola, Giorgio Napolitano, di 16 mila voti. Gliela faranno pagare. L’anno successivo, morto il Migliore, i “togliattini” - Ingrao, Berlinguer e Caprara - conoscono un periodo di declino. Ma con il ’68 il PCI si sposta a sinistra e Amendola finisce in minoranza. Tornano in primo piano Ingrao e Berlinguer, ma ben presto nasce il problema di fino a dove può andare il 1968 nel PCI. Il confine è tracciato dalla fedeltà all’URSS di fronte alla invasione della Cecoslovacchia. La “riprovazione” del PCI è di corta durata e quando Caprara insieme con Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Lucio Magri fonda la rivista Il Manifesto insistendo nella critica all’URSS si va verso la rottura. Ingrao fa marcia indietro, Berlinguer assume il ruolo di inquisitore (con cui si guadagna la successione a Longo) e il gruppo del Manifesto è radiato dal PCI. Caprara è il caso più clamoroso perché è il dirigente con più seguito e il comitato direttivo di Napoli che deve prendere il provvedimento disciplinare è riluttante. Questa pagina del Manifesto è solitamente cancellata. Caprara ha subito una doppia “radiazione”: dal PCI e dai giornali di sinistra (Corriere della Sera incluso). È la radiazione che lo faceva più soffrire negli ultimi anni. Perché Caprara doveva essere punito, escluso? Perché non era più di sinistra e quindi le fotografie del passato vengono ritoccate. Caprara dopo l’esperienza del Manifesto ebbe una “seconda vita” come autore di indagini giornalistiche e ricerche storiche dalle colonne del Mondo a quelle dell’Espresso e poi del Giornale. Ben prima della caduta del Muro di Berlino, Massimo Caprara ha disegnato la parabola di un’idea comunista che da promessa di liberazione e di verità aveva costruito un mondo politico-culturale di coercizione e di menzogna. Nei suoi libri - da Togliatti e il Komintern a Gramsci e i suoi carcerieri, da Quando le Botteghe erano oscure a L’inchiostro verde di Togliatti - ha ripercorso la storia del comunismo italiano evidenziandone il doppio fondo.

La rievocazione ad esempio di una serie di missioni delicate affidategli da Togliatti (deve andare in Francia ad indagare sul ginepraio dell’arresto e fuga di Togliatti a Parigi allo scoppio della guerra, incontrare l’avvocato della Sacra Rota a cui è affidato l’inventario e il riciclaggio di una parte dell’oro di Dongo, occuparsi del figlio “segreto” del segretario che soffre in un orfanatrofio di Mosca) non è solo denuncia, ma presa di coscienza che nel corso degli scritti lo conduce al dialogo con il mondo cattolico, all’incontro con Comunione e Liberazione, a quella che egli amava chiamare «la frequentazione» di don Giussani come di San Josemaria Escrivá.

Questo itinerario era da lui motivato in riferimento alle parole “persona” e “libertà”. Il dato di fondo che lo portava a respingere l’idea comunista non era soltanto quanto era accaduto al di là del Muro di Berlino ma soprattutto la “diversità” del mondo comunista italiano.
In relazione a precisi episodi, inorridiva di fronte a questa “diversità” che si risolveva in una comunità di persone che liberamente decidevano di autocensurarsi e cioè di vivere sotto il regime del centralismo democratico costruendo nella società italiana una énclave, un mini Paese dell’Est in cui si viveva sacrificando la propria libertà alla ragion di partito. Il sacrificio della libertà - e della verità - era per Massimo Caprara una scelta di vita aberrante. Quando si passavano in rassegna alcune figure storiche che ancora oggi vengono additate come Padri della Patria egli commentava lapidariamente: «Un assassino».

***


Riccordo di un rivoluzionario vero

di Gianni Mereghett,
da Tracce (17/06/09)


Massimo Caprara è tornato tra le braccia del Padre dopo una vita di grande intensità, segnata da una tensione insopprimibile al vero, da una ricerca appassionata del Mistero della vita. Segretario di Palmiro Togliatti negli anni duri in cui dominava l’ideologia si è sempre lasciato interrogare dalla realtà, tanto che i drammatici avvenimenti del 1968 a Praga lo portarono a lasciare il Partito Comunista Italiano e a fondare il gruppo del Manifesto. Massimo non poteva accettare che un popolo fosse privato del bene della libertà come non poteva accettare il consenso, altrettanto colpevole, di chi anteponeva la scelta di parte alla difesa dell’uomo e del suo desiderio.

Da qui iniziò il suo lungo, instancabile cammino alla ricerca di ciò che potesse abbracciare pienamente le sue esigenze umane. Fino alla scoperta della fede.

Il Meeting di Rimini rappresentò un punto di riferimento fondamentale del suo percorso. Il primo incontro con il Meeting fu durante l’edizione del 1999, in occasione dell’omaggio a Eugenio Corti. Caprara aveva già messo in discussione il suo passato, anche se non lo rinnegava, ma cercava in esso quella libertà che avrebbe potuto portarlo alla fede. Affermò di «non essere ancora un credente, ma di sentire il bisogno di trovare la fede». Il Meeting lo colpì per la passione umana e la tensione al vero che lì incontrò. Per questo vi tornò nel 2000, a presentare ancora una volta un testo di Eugenio Corti (L’isola del Paradiso) e poi nel 2001 e nel 2002, ogni volta testimoniando un passo in avanti in questo suo cammino ad abbracciare il Mistero, così da esserne abbracciato fino a «riscoprirsi uomo», come recita il titolo della sua autobiografia in cui racconta la storia della sua coscienza.

L’incontro con tanti giovani e tanti uomini in cui la fede rispondeva all’umano è stato decisivo per Massimo. È stato un incontro a segnare la sua vita, un incontro a compiere tutte le esigenze del suo cuore, e in questo incontro è nata la coscienza di essere stato chiamato dal Mistero ad una strada in cui la sua umanità si sarebbe realizzata. Lo disse con decisione e certezza proprio al Meeting del 2004, presentando Riscoprirsi uomo. Storia di una coscienza:
«Certamente sono stato chiamato, perché non si può passare da soli da una grande solitudine a una grande fede». Una fede che ha fatto di lui quel rivoluzionario che aveva sempre voluto essere. Sempre al Meeting del 2004 concluse dicendo: «Adesso mi sento veramente rivoluzionario, adesso che non sono più comunista sono veramente rivoluzionario, nel senso in cui lo dice don Giussani. E se qualcuno mi chiederà un giorno: “Tu cosa hai fatto nella tua vita?” io risponderò “Sono stato un rivoluzionario”». Caprara è stato ed è un rivoluzionario, perché si è preso il coraggio di seguire il suo cuore, la sua esigenza di verità, la sua domanda di libertà, e lo è stato fino in fondo perché ha riconosciuto che in Cristo l’umanità si ritrova. Per questo ricorderemo sempre i suoi occhi pieni di certezza, il suo sguardo intenso, fisso al Mistero che lo ha chiamato a sé, perché potesse dire io con tutta la dignità che è data ad un uomo vero.

Dall’incontro con il fatto cristiano in cui Caprara ha riscoperto se stesso è nato per lui anche un compito cui ha dedicato l’ultima parte della sua vita, il compito di raccontare la menzogna e la violenza di cui l’ideologia si è resa responsabile della storia. Lui, che si è dichiarato “prigioniero volontario” dell’ideologia, è stato nello stesso tempo colui che in questi anni ci ha raccontato il suo orrore, per amore alla verità, ma ancor di più perché chi ne è ancora imprigionato potesse trovare la strada della liberazione.

Uno degli incontri più significativi si svolse a Milano il 18 febbraio 2002, di fronte a millecinquecento giovani. Caprara ripercorse le origini della storia del comunismo, raccontando episodi personali
. Lo fece perché, avendo visto e conosciuto gli orrori dell’ideologia comunista, non aveva il diritto di tacere. «Ho visto, ho conosciuto e ora lo devo dire... Cerco la verità e la voglio cercare insieme ai giovani, insieme agli uomini del mio tempo, della mia epoca. Discuto perché il passato non venga rimosso, discuto perché altri non vengano indotti all’errore”. Raccontare a tutti quello che lui aveva visto divenne il compito più importante degli ultimi anni della sua vita, certo che è dai fatti che l’uomo capisce ciò che corrisponde al suo cuore o ciò che ne nega il valore. Sono stati anni intensi, Caprara è andato dovunque in Italia, ha incontrato gli studenti nelle scuole, ha partecipato a numerosi incontri promossi da centri culturali, ha scritto testi in cui documentare gli orrori dell’ideologia, come Paesaggi con figure o Gramsci e i suoi carcerieri. Per i giovani ha avuto una grande predilezione: ogni volta che li incontrava li coinvolgeva nel suo lavoro di ricerca del vero. Era per loro un maestro, insegnava a guardare dentro la storia con la forza del giudizio, una forza che sa svelare la menzogna e sa far emergere ciò che nessuna violenza può distruggere, il grido dell’uomo a Colui che, unico, lo libera dal male.

La sua energia sempre all’attacco del vero è oggi più che mai una consegna che, come lui ci ha insegnato, trova nel cuore dell’uomo il suo punto di forza, la possibilità unica di compiersi dentro i passi della vita quotidiana.

 grazie a : mdeledda

Postato da: giacabi a 10:22 | link | commenti
comunismo, caprara

mercoledì, 17 giugno 2009
In ricordo di un grande uomo

Da Palmiro a Nicodemo
 ***
  
Confessione di un togliattiano.L'articolo che Massimo Caprara scrisse per Tempi sul numero 51 del 19 dicembre 2002
di Massimo Caprara



Esiste solo qualche parola, o forse nessuna, come la parola ideologia che abbia dominato, anzi oppresso, il nostro tempo: il secolo appena passato “delle idee assassine”. Di esse non vi parlo come uno storico di professione, perché tale non sono. Vi parlo della concretezza, del mio vissuto, vi reco una testimonianza che alimenta e nutre una riflessione critica. Non è quindi la Storia, ma la mia storia: la storia di un ideale che degenera in ideologia, di come un ideale si trasforma, si corrompe, si separa dall’esperienza e diviene un sistema dogmatico, una corazza di false verità totalizzanti e assolute.

Ideologia, non succede mai niente di imprevisto
In questo senso,
ideologia è contrario della realtà, contrario del Vero, suo pregiudizio, sua contrapposizione, suo non pensare. Nell’ideologia ogni passaggio è scontato. Essa è incurante dell’evidenza, è tempo senza tempo, incapacità di cercare il Vero, di riconoscerlo, di volerlo, di amarlo, ma capace solo di esecrarlo e negarlo. In uno dei maggiori suoi teorici, l’ideologia è «potere di una classe organizzata per opprimerne un’altra». Così Karl Marx nei Manoscritti economici - filosofici del 1844 e nell’Ideologia tedesca del 1846, descrive l’intrinseca violenza, prevedibile e prevista, che è la sostanza dell’ideologia. Essa è irreale, non perché non avvenga, ma perché replica se stessa, si ripete senza imprevisti, senza stupore, ma con orrore cieco. Non attende né riconosce alcun Annuncio, o Incontro o Attesa. Produce solo subordinazione e passività, perché tutto è già avvenuto o deterministicamente avverrà. Ideologia è in lotta perenne contro Ideale. Ideale e Ideologia sono infatti in lotta irrimediabile tra loro come Amicizia è il contrario di Solitudine. L’uno, cioè l’Ideale, è destinato a crescere, a procedere: chiede futuro. L’altra, l’Ideologia, ristagna, si avvita, uccide spiritualmente. Ha scritto don Giussani, al quale tutti, io credo, siamo debitori infiniti, che «l’Ideale è la dinamica in cammino della natura dell’uomo ed ad ogni passo qualcosa di esso si adempie». È giusto: qualcosa si adempie verso la Bellezza che implica consistenza etica ed estetica, che è azione e contemplazione, sentimento delle cose, coscienza amorosa di quanto ci circonda, di quanto ci avvolge, ci invade, desidera ed è desiderata. Di quanto ci stimola e ci dà libertà. Bellezza e Libertà; ossia compiutezza di sé nella dimensione del presente, è il farsi dell’uomo, l’espressione del proprio essere a contatto con la trascendenza, a contatto con gli altri da sé e con il suo superamento.

Un misticismo logico che si fa spirito totalitario
Al contrario,
l’Ideologia si fa Stato, totalità superiore, unilateralità, sovranità illegittima, oppressione, sovrastruttura in cui la classe dominante sopprime la libertà a suo beneficio: borghese od operaio che sia. Persino Marx è costretto a denunziare questo procedimento, accusandolo nelle sue fondamentali Opere filosofiche giovanili, come «misticismo logico».
La Bellezza in quanto Verità è lotta, tensione continua, aspirazione verso l’eterno e l’infinito. La Bellezza, o meglio l’Estetica, rende lucido lo sguardo, lo raffina, chiarisce la mente e rende gli uomini assetati di luce. Nei suoi libri don Giussani ha fissato perle ed episodi della musica, della poesia, dell’architettura e dell’arte. Ha scritto del proprio padre e della propria madre come educatori alla Bellezza. Ha scritto della Goccia di Chopin, dello Stabat Mater di Pergolesi, del desiderio di felicità infinita nel poema Alla sua donna di Leopardi. Ha rintracciato la Bellezza nei canti popolari russi del Coro sovietico dell’Accademia di Stato. La Bellezza salva. La Bellezza è non avere paura della Verità, combattere perché essa venga alla luce, si confronti, vinca, ogni volta si riaffermi. Quanto Ideologia è palude e stagnazione, tanto Ideale o Bellezza è movimento, progresso, azione.
In un libro del 1951, Hannah Arendt scrisse che l’Ideologia «è abbandono della libertà di pensare per la camicia di forza della logica». Ideale è un agire, un fare, un manifestare, un vivere un avvenimento, un costruire, Ideale è anche contemplazione e condivisione, cammino fatto insieme alla scoperta del senso delle cose. «Se l’uomo non costruisce, come fa a vivere?» si chiede giustamente il poeta cattolico statunitense naturalizzato inglese, premio Nobel, Thomas Stearns Eliot. L’ideale è anche costruire e comunicare. Il Bello, allora, è libertà che si dilata, diviene incontro, progetto, presenza, unità. La Bellezza allora diviene esperienza collettiva del fatto cristiano, fraternità e solidarietà avvertite dalla Chiesa come fatto umano e sociale.

Sto parlando della mia vita
Se parlo con durezza, con ostinazione e contrarietà, se parlo così di Ideologia non è certo per metafisica accademica. Parlo della mia vita. Ho vissuto per oltre 25 anni all’interno di una Ideologia, in una delle sue versioni più drammatiche, attivistiche, dottrinarie. Dal 1948 al 1968 ho fatto parte del Partito comunista italiano, del suo massimo pensatoio e dirigenza ossia della Nomenklatura comunista, nella sua confessione togliattiana. Sono stato membro del suo Comitato centrale, Sindaco di Portici, Deputato alla Camera per vent’anni. In quella ideologia ho militato con convinzione, allora con calore e ardore. Ho visto da vicino, ogni giorno, il volto e la maschera di una cultura e di una Ideologia autoritaria e costrittiva, che non può essere obliterata e che lascia un segno di memoria e di trauma. Ho vissuto il male dell’Ideologia sino in fondo. Ma proprio dal fondo dell’errore, ho ricevuto una spinta, un recupero, un desiderio del bene e della Verità, ho sentito, se così posso dire, il profumo della Bellezza.
Di
questo passato, io non mi assolvo. Ne vedo gli errori, le responsabilità personali e collettive, ne porto il peso materiale e morale. Non mi assolvo, ma neppure mi fustigo sterilmente. Di tutti i diritti di cui disponiamo, io non posso avere il diritto di tacere. Scrivo libri, ragiono, discuto, mi confronto per capire e giudicare, per suggerire i temi di un dialogo liberatorio, necessario e durevole.

Un passato fallito. E che minaccia il presente
Perché l’ideologia, in particolare e soprattutto quella comunista, è contraria alla Verità? Lo è per l’egualitarismo che contraddice e sopprime la libertà personale. Lo è per il totalitarismo che concentra in pochi il destino di molti. Ne vincola l’intera vita sociale, stermina il dissenso e lo reprime come inammissibile e imperdonabile. Lo è in quanto derivazione perversa e contraddittoria dal settecentesco Secolo dei Lumi. L’ideologia comunista comincia con il finto amore per l’Uomo, ma esso, nell’intelletto e nella pratica, finisce con l’orrore della vita. Io ho vissuto nel Partito impraticabili, estranianti ideali, io ho vissuto l’ideologia dell’avversione all’uomo. Mi sforzo di indurre gli altri a fare i conti con un passato che è praticamente fallito, ma non è morto. Mi batto perché esso non venga rimosso senza essere stato affrontato criticamente e senza una contestazione civile, ma implacabile. Parlo perché altri non cadano nell’errore mio e di una intera generazione. La mia rottura con l’Ideologia è stata difficile, forse lenta, sicuramente sofferta. Lottare contro l’ideologia è lottare contro la solitudine, la violenza, l’inganno. Significa prepararsi a cogliere il vero Ideale della Bellezza: la presenza irresistibile di Dio.

Postato da: giacabi a 13:36 | link | commenti
caprara

martedì, 16 giugno 2009
In ricordo di un grande uomo
Finalmente, con voi, un rivoluzionario vero
 ***
       
di Massimo Caprara

La mia è stata una conversione in itinere, preparata da un lungo cammino. Negli anni 70 fui colpito da questa folgorazione: c'era qualcuno che diceva, parlando di noi comunisti che pure avevamo rotto col Partito Comunista per la sua dipendenza dall'Urss di Breznev: «voi non siete dei comunisti, voi siete dei conservatori». Lo diceva a noi che avevamo giocato tutta la nostra vita per non essere conservatori. Diceva: «La vera, unica rivoluzione della storia è il cristianesimo». Ragione e fede, quindi, si incontravano. Seppi poi che chi aveva detto questa frase che mi interessò, mi conquistò, mi avvolse, era un piccolo prete che aveva insegnato al liceo Berchet, un prete di Milano che aveva insegnato ai suoi allievi a essere iniziatori di una nuova realtà. Volli essere uno di loro, ma non lo incontrai mai; volli essere uno di loro e oggi sono diventato uno di voi. Quel piccolo prete è don Giussani. Mi domandano spesso: «Che cosa ti ha fatto rompere con il comunismo? Perché hai rotto con il comunismo?». Rispondo: «Ho rotto per don Giussani; soprattutto per quella verità, per quella realtà di don Giussani che proclamava: "Voi siete conservatori, non siete rivoluzionari; rivoluzionario è Cristo"».

Appassionato amore al mondo
Mi convinse quella frase di don Giussani.
Quell'amare "appassionatamente" il mondo per poterlo cambiare, per affermare la giustizia. lo sono stato conquistato da questa verità. Non provo nessun odio, non permetterò a me stesso di odiare il mio passato del quale non mi assolvo. Quando lasciai il Pci, Amendola mi disse: «Tu sei uno dei nostri. Tu non hai libertà, dipendi da noi». Questa appartenenza coatta mi sconvolse. Ma io ho voluto essere quello che don Giussani mi ha detto: rivoluzionario. Don Giussani non lo conosco, non l'ho mai incontrato, ma mi è viva la sua parola; ogni giorno mi parla, ci parla, ci sprona e ci educa. Oggi ci invita a ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo; ci dice di essere missionari. Ha ragione, questo è il nostro compito e questo è il nostro avvenire. Lo dico io che sono vecchio, ma sono missionario anch'io come voi, in mezzo a voi. Io mi riconosco in don Giussani. Assieme a lui noi tutti ci uniamo e ci liberiamo, riconosciamo nella nostra vita la presenza irresistibile di Dio, la presenza della Sua realtà, della Sua verità, la presenza di Gesù.

Iscritto nel registro dei Battesimi
Dopo la rottura col Pci e la nascita del Manifesto, il mio è stato un grande dolore. La mia sofferenza è stata profonda, vera, sentita. Dopo essere stato radiato dal Partito Comunista ho sofferto, questa è stata la mia realtà. Quel dolore mi ha formato, mi ha formato però insieme a quella frase che ci diceva: «Voi non siete rivoluzionari, voi siete conservatori. Voi siete evidentemente come gli altri». Allora mi è venuto incontro qualche cosa d'altro, mi è venuta incontro dolcemente mia madre.
Mia madre è stata una cattolica fervente, non ha mai votato per me, mai! Ma non ha smesso mai di amarmi anche con l'esempio fermo e ostinato di una fede mai imposta. Mia madre è stata un personaggio incredibile e concreto, protettrice del grande convento delle suore di clausura di Santa Margherita Alacoque, a Portici.
Mi ricordo che una volta, nella sede centrale del Partito Comunista, alla vigilia delle elezioni del 18 aprile del 1948, si presentò un prete che disse: «Voglio benedire le Botteghe Oscure». Era un Sabato Santo. Il prete me l'hai poi ricordato ripetutamente, scrivendomi con affetto. Era l'assistente ecclesiastico dei Comitati Civici, allora nostri nemici diretti. Pensate a quelli che stavano a guardia della porta delle Botteghe Oscure - magari erano autentici assassini -, arriva un prete e dice: «Vi voglio benedire». Quel giorno c'ero soltanto io, Togliatti era fuori, ed ero il più alto in grado di tutta la gerarchia dei funzionari del Partito. Quei personaggi alla porta, partigiani, vennero da me e mi dissero: «C'è un prete che ci vuole benedire». Lo guardai anche io un po' sorpreso, perché un prete a via Delle Botteghe Oscure non s'era mai visto. Mi chiusi nel mio ufficio un momento e mi dissi: «Insomma, non so che cosa fare». Fu a quel punto che mi venne incontro dolcemente mia madre che certamente non era presente: mi disse che benedire era cosa giusta e allora io dissi a quel prete: «Benedici le Botteghe Oscure». Lei, mia madre, mi diede il perentorio consiglio, il consenso a benedire le Botteghe Oscure, lei in quel momento ha rinnovato il Battesimo, mi ha ricordato di essere stato battezzato, iscritto in quel registro, di esserci. In fondo, essere in quel registro dei battezzati è la mia vita, è la vostra vita, è la nostra vita, quella di un battezzato che riconosce le parole di don Giussani. Quando don Giussani disse: «Siete dei conservatori, non siete dei rivoluzionari», mi convinse a ragionare, a vivere la vita e per la vita sono uscito dal Partito Comunista, con speranza e fiducia. Sono uscito perché don Giussani me lo ha "ordinato". Io ho soltanto eseguito... l'ho seguito, ho seguito voi, ho seguito tutti noi.

Perché non ci siamo incontrati prima?
Dio sa che il tempo non era ancora maturo. La Sua fantasia è mirabile, Dio sapeva che ero comunista e dovevo essere ancora comunista, andare fino in fondo, non fermarmi a metà. Mi fece una grande impressione un fatto capitatomi attorno agli anni 70. Andai alla Statale di Milano. Abitavo allora a Roma
. Andai a Milano per partecipare a un'assemblea aperta. A un certo punto, vidi dei giovani, che non erano comunisti, alzarsi in piedi, tutti quanti per dissentire, la maggioranza erano loro: non erano affatto violenti o agitati, erano come una falange pacifica, si alzarono tutti in piedi e ci dissero che loro erano di Gs. Fui colpito dalla violenza positiva, dall'ardore, dalla vivacità, dalla forza tranquilla e persuasiva che esprimevano. Da quel giorno sono diventato a poco a poco, certamente non di Gs, perché ormai avevo finito l'università... ma uno di loro. E oggi vi dico: «Ci avete salvato». Certamente non posso ringraziare Togliatti, che neppure consultai, anche se quei partigiani pensarono che l'avessi fatto. Dico grazie a Gs, dico grazie a don Giussani che mi ha reso felice perché mi ha dato la vita e la libertà.

La rivoluzione è Cristo
Rivoluzione è una falsa parola. Rivoluzione non è parlare di economia. Il comunista pensa di essere rivoluzionario. In verità non è così. Questo è stato l'approdo al quale ho dovuto arrivare, forse con una unità nuova, diversa, composita, vera, una diversità, una rivoluzione che fosse anche giustizia, sociale e libera, che fosse libertà, che fosse democrazia.
Aveva ragione don Giussani quando diceva: «La rivoluzione è Cristo». Questa rivoluzione è la verità, questa rivoluzione che ho imparato con sofferenza, con dolore immenso, perché il comunismo era il contrario della mia vita, della mia libertà, della mia essenza. Quando ho scoperto questo per la prima volta, ho pensato che fosse evidentemente tutto da rifare, ma tutto con una vera libertà nell'essere coscienti, nel sentirsi uomo, nell'essere veramente uomo. Essere rivoluzionari, cioè cambiare il mondo, significa fare come dice don Giussani: «Bisogna essere cristiani. Bisogna essere con Cristo». Questa verità l'ho voluta, l'ho incontrata e l'ho vissuta. Così sono come vuole don Giussani: un rivoluzionario vero, un rivoluzionario della mia libertà e della mia passione, finalmente un rivoluzionario completo, con voi nella Chiesa guidata dal pastore di anime più nobile e alto che abbia il nostro tempo: il Papa polacco, che è campione della fede e della forza, senza divisioni, senza eserciti armati, con una preparazione profonda di idee forti, che ha fatto vincere idee forti. La vostra forza è essere cristiani, la vostra forza è essere cattolici. Questa è la nostra forza.

Una confidenza
Da quando tanti anni fa ho sentito don Giussani dire quella frase sulla vera rivoluzione vi ho amato, vi ho amato senza saperlo, senza volerlo, o forse volendolo. Ma sono stato evidentemente troppo debole, troppo inefficiente, troppo colpevole. Oggi vi amo consapevolmente e vi chiedo di fare altrettanto, di avere tolleranza, pazienza, bontà nei miei confronti, lo stesso amore che io ho avuto per voi. Del resto, oggi voi siete il mio mondo, la mia realtà, siete il mio essere. E badate: sentirete ancora parlare di me, non ho smesso ancora di esserci, non ho smesso ancora di volere contare, di volere battermi, di volere essere un rivoluzionario
La testimonianza è tratta dal mensile TRACCE - Ottobre 2004

Postato da: giacabi a 22:29 | link | commenti
caprara

In ricordo di un grande uomo
L'itinerario spirituale di Massimo Caprara ex segretario di Togliatti trasformato dal sacerdote di Desio
 ***
        L'INTERVISTA     da Avvenire 01-03-2005
Don Gius, l’amico «dalla parte di Dio»

Di Marina Corradi

Ai funerali di Luigi Giussani, in Duomo, c'era anche un uomo sugli ottant'anni, visibilmente addolorato. Pochi, fra i tanti giovani nella cattedrale, hanno immaginato che
quell'uomo coi capelli bianchi fosse l'ex segretario di Palmiro Togliatti. Massimo Caprara, classe 1922, figura di primo piano del Pci fino alla crisi e alla radiazione, nel '69. Fondatore del Manifesto e poi, di nuovo, «eretico». Oggi in «Riscoprirsi uomo» (Marietti), scritto con Roberto Fontolan, si dichiara credente. Il suo maestro, dice, è Luigi Giussani.
Eravate coetanei, ma non vi siete mai incontrati. Lei segretario di Togliatti, lui prete «integralista». Chi era per lei Giussani?
«Sono stato colpito nel vivo dalla perdita di don Giussani. Eravamo coetanei: gli anni dell'impegno pubblico hanno visto lui alla Cattolica e nei primi passi di Cl, e me, contemporaneamente, nel Partito comunista e alla Camera. Luoghi diversissimi, eppure impermeabili alla sua opera e al suo insegnamento. Fu all'inizio degli anni '70 che mi giunse il segnale del suo carisma. Ero stato, allora, da poco radiato dal Pci perché tra i fondatori del gruppo di opposizione interna del "Manifesto", quando cominciai a fare attenzione alle voci degli universitari, soprattutto di Milano. Parlavano con trasporto e con gioia di un prete che stava rinnovando la loro vita con la ragione e la fede in un Cristo inedito e presente, il cui mistero dava argomenti all'essere "dalla parte di Dio". Qualcuno mi raccontò, aumentando il mio allarme e il mio sconcerto, che egli era solito parlare anche di noi, dei comunisti, dicendo che erano come gli altri: "conservatori, non veri rivoluzionari: l'unica vera rivoluzione è quella di Cristo che per noi si è fatto uomo". Non era il modo comune in cui ci si rivolgeva a noi "rivoluzionari di professione", come dicevamo di essere, ma un modo nuovo e intrepido di "pensarlo e farlo".
Mi intrigò questa "provocazione" avvincente, sicché volli saperne di più. Mi informai meglio e così crebbe la mia volontà di mettermi in discussione, non mutando già da allora le mie rigide e coriacee convinzioni, ma aprendo una finestra nel mondo, nel costrittivo mio modo di vivere, nell'inquietudine della vita e dei suoi drammi anche politici. Da quelle trascinanti parole sorse in me un desiderio di apertura e di liberazione che mi portò assai al di sopra e al di là del mio vissuto. Accettai quella che mi sembrava una sfida concreta e, nei molti anni della mia professione di giornalista e inviato in tutto il mondo, praticai il mio itinerario verso la fede. Quel piccolo prete fu il mio gigantesco suscitatore di fede gioiosa. Tutt'altro che integralista egli mi apparve, subito, ma un uomo che convincendo mostrava come essere persone fuori dagli schemi. Conobbi allora, e dal di fuori ammirai, i seguaci del Movimento, che a lui si riferivano nella scuola e nelle professioni, dando testimonianza di coraggio, comunione, amicizia: l'esatto contrario di ciò che avevo patito nell'esperienza comunista. Il mio itinerario con don Giussani l'ho vissuto come umanizzazione di Cristo attraverso il Vangelo».
Oggi lei definisce Togliatti un «non-uomo», doppio e antiumano come il suo Pci. Vent'anni accanto a un «non- uomo». Che significa allora «riscoprirsi uomo»?
«La memoria di Togliatti, scaltro organizzatore politico e culturale, è per me quella di un'esperienza disumana e del rifiuto di una trascendenza che completi la ragione post illuminista. Non banalmente ateo era Togliatti, ma negatore con i fatti della qualifica dell'uomo che è in ogni uomo. Quel titolo del libro è appunto la storia del mio riscatto da un passato da cui non mi assolvo, per riconquistare le mie qualità di uomo: che sono di ragione, di cuore, di libertà da guadagnare in una lotta incessante per la verità. Colui che mi ha ingaggiato, illuminato in questa lotta è stato Giussani. Giussani è per me l'amico. Mi ha sostenuto in questa lotta il suo senso della bellezza che si realizza in Cristo . Quando, da homo viator,ho incontrato Cristo nelle pagine del Vangelo, ho cominciato a essere uomo».
«Il comunismo è solitudine», lei scrive, "sono passato alla forma piena di grande coesione", all'amicizia. Com'è nata questa amicizia? E, infine, lei combattente di tante rivoluzioni, e più volte eretico, a 83 anni ha stabilito qual'è, di tante rivoluzioni, quella vera?
«La mia vita nel comunismo è stata collettivamente sola: stavo con molti altri, ma con nessuno con il cuore. L'amicizia, gli incontri sono avvenuti quando mi sono liberato dalla camicia di forza dell'ideologia e dei suoi ceppi e costrizioni. L'amicizia, poi, è un dono che ti raggiunge sorgendo dal tuo essere, promessa di bene, scelta di libertà. La individui con stupore e gioia, la realizzi con ammirazione per l'altro da te che non incarna un dualismo, ma una indissolubile, consapevole, unicità, un dipendere dall'altro che ti legge nel cuore e individua il cammino più giusto per essere sempre "rivoluzionari": cioè rinnovatori della propria esistenza.
Non ho mai incontrato don Giussani di persona. L'ho vissuto e lo vivo quotidianamente, incessantemente come maestro e guida generosa per la mia fermezza e la comune identità cristiana».
 

Postato da: giacabi a 21:27 | link | commenti
caprara

lunedì, 02 marzo 2009
L'Italia fu salvata dai discepoli di Cristo 
Italia libera? Sì, grazie ai cattolici.

***


18 aprile 1948: gli italiani a un bivio della loro storia. Vince la tradizione cattolica popolare e perde il social-comunismo. L’Italia è così un paese libero, Massimo Caprara, allora segretario di Paimiro Togliatti: “Capimmo di aver perso quando sentimmo che la scelta diventava tra Cristo e la sua negazione”.

di Alessandro Gnocchi,
da
Il Timone (03-04/2001)


Diciotto aprile 1948, gli italiani scelsero l’Italia. Enunciata cosi, la tesi può sembrare persino semplicistica. Troppo lineare per pretendere di essere presa in considerazione dalla storia. Ma, se si cerca appena un poco di approfondirla, mostra una profondità che spiazza anche il più scafato degli storici intenti a interpretare la vita degli uomini attraverso gabbie preconfezionate. Gli italiani, dunque, scelsero l’Italia e non diedero vita a un referendum fra Unione Sovietica e Stati Uniti. È un passo avanti, ma non basta ancora a fare notizia. Lo fecero perché scelsero di continuare a essere cattolici. Questo dato, invece, può fare un po’ di rumore. Tanto più che, a voler essere precisi, scelsero di continuare a essere cattolici e non diventare democristiani.

Palmiro Togliatti lo aveva intuito presto. Se lo scontro politico avesse preso i toni del confronto tra diverse concezioni dell’uomo, poteva avere un solo esito, la sconfitta della sinistra socialcomunista. Lo spiega con grande chiarezza Massimo Caprara, che allora era il braccio destro del segretario del PCI. “Alle elezioni del 1948

, ricorda, si arrivò dopo un confronto aperto e libero tra due visioni de mondo. Ma si sbaglierebbe se si pensasse che si scontravano sostenitori dell’Unione Sovietica e sostenitori degli Stati Uniti. Su quella base, qualsiasi risultato sarebbe stato possibile. Il PCI, e Togliatti in particolare, capì che non ce l’avrebbe mai fatta quando fu gettata sul tappeto la scelta fra la tradizione cattolica italiana e a sua antitesi. Il 18 aprile vinse il cattolicesimo italiano, nazionale e popolare. Dove per popolare va inteso come espressione del popolo e non come categoria partitica.

Da questo è facile dedurre che gli italiani non scelsero di diventare democristiani.

Se l’opzione tosse stata quella, valeva tanto quanto il suo opposto politico. Non fu la propaganda del partito di De Gasperi a fare la differenza. Furono i Comitati Civici di Luigi Gedda a segnare la svolta.

Quando sentimmo che la scelta diventava tra Cristo e la sua negazione, capimmo di aver perso, continua Caprara. L’appello di Gedda interrogava le coscienze individuali e chiamava a una scelta di libertà, I comunisti non erano attrezzati per sostenere uno scontro su quel terreno. I comizi dei Comitati Civici erano quasi incomprensibili per l’apparato del PCI. Quello slogan cattolico che diceva ‘Vita, Vita’ non aveva alternative nel campo avversario. Diceva una concezione positiva dell’uomo e del suo esistere che non avevano il minimo contraltare
, Dunque non rimaneva che cambiare strategia. Per questo Togliatti mise in atto la tecnica dell’avvicinamento, della contiguità con il mondo cattolico. Alle elezioni gli bastò mostrarsi come il vincitore nei confronti dei socialisti. Nella società, invece, sin da prima del 18 aprile, trovò più opportuno agganciarsi al mondo cattolico. Lo fece con l’unica parte del cattolicesimo disposta a cadere nella trappola. Quella elitaria, cattolica per formazione culturale.

Quella decisamente non popolare. Quella rappresentata da intellettuali come Franco Rodano, per esempio.

Ma non tu una mossa vincente, dice ancora Caprara, che frequentò a lungo Rodano e i suo ambiente, perché quegli intellettuali non potevano portare consenso. Soprattutto, non potevano portare consenso cattolico. La loro concezione del cattolicesimo politico era a negazione del cattolicesimo popolare. Avevano un abito intellettuale cattolico, se vogliamo, ma, senza giudicarne la fede, erano lontani dai sentire della gente cattolica. Fu molto più redditizia, invece, l’operazione dei Comitati Civici che sottrassero elettorato popolare alla sinistra
.

D’altra parte non poteva andare diversamente. Pur ammantandosi di amore per il popolo, gli intellettuali di sinistra sono sempre stati elitari. A maggior ragione se appartenenti a sacche di cultura religiosa. Critici nei confronti del Magistero e della gerarchia, perennemente tentati dal radicalismo anticattolico pretendevano di pensare per tutti. Ma la strada era proprio quella opposta, sostiene Caprara.

Vinsero quelli che invitarono le singole persone a usare la propria testa. Vinsero i cattolici come Guareschi, che non rinunciarono mai a interpellare la propria coscienza e che mostravano di farlo veramente. Vinsero coloro che avevano orrore di chiunque gettasse il proprio cervello all’ammasso del partito. I trinariciuti inventati dal direttore di Candido diedero un gran fastidio a Togliatti perché colpivano nel segno. Il militante comunista era sostanzialmente così. Aveva la terza narice per scaricare il cervello e riempire La testa con le direttive del partito. Molti di coloro che tapparono la terza narice cambiarono strada. Era inevitabile. Anche in questo, direi specialmente in questo, si mostrò l‘anima profondamente cattolica del popolo italiano. Gli italiani capirono che cattolico non è sinonimo di intruppato, ma sinonimo di uomo libero e scelsero la libertà. Attenzione, però, non un’idea disincarnata della libertà, ma piuttosto la sua applicazione, anche faticosa, nella vita di tutti i giorni
.

Erano magari anche i comunisti che andavano in edicola e ne uscivano con l’Unità ben in vista sotto il braccio, premurandosi però di controllare che l’edicolante vi avesse nascosto dentro il Candido. Erano magari i comunisti come Caprara che, più tardi, avrebbe intrapreso il suo viaggio verso la libertà lasciando il partito comunista.

Non è un caso che, proprio a Caprara, alla vigilia delle elezioni del 1948, toccò di affrontare un imprevisto decisamente rivelatore.

Arrivò nella sede del PCI di Botteghe Oscure un sacerdote che chiese di benedire i locali. In assenza di Togliatti, toccò decidere al suo segretario.

Eravamo sotto Pasqua, ricorda lui. Per me, come per molti altri militanti, la benedizione pasquale era un rito che avevamo vissuto sin da bambini. Mi lasciai prendere da quel ricordo e dissi al prete che poteva benedire. Lui era don Lucio Migliaccio, assistente ecclesiastico dei Comitati. Benedì e se ne andò. Allora non capii cosa significasse quel gesto per me. Lo feci solo molti anni dopo leggendo un racconto di Guareschi. Quello in cui Peppone controlla che don Camillo non abbia cancellato il suo nome dalla lista dei battezzati. Anche perché, forse sin da allora, l’importante era essere nella lista dei cristiani
.

Cronologia
2 giugno 1946: un referendum istituzionale decide la nascita della repubblica (12.717.923 voti per la repubblica contro 10.719.284 per la monarchia). Il re Umberto II va in esilio in Portogallo.

2 giugno 1946:
lo stesso giorno si tengono le elezioni per l’Assemblea costituente (le prime a suffragio universale). La Democrazia Cristiana ottiene 8.101.004 voti (35,2%), mentre socialisti e comunisti, che si presentano separati, ottengono rispettivamente il 20,7% e il 19% dei voti. Insieme, i due partiti di sinistra sarebbero stati maggioranza.

22 dicembre 1946:
400.000 cattolici si radunano in Piazza San Pietro e il Papa Pio XII rivolge loro il discorso con la frase:
O con Cristo o contro Cristo. Grido raccolto da Luigi Gedda, che nel gennaio 1947 propone la fondazione di speciali comitati dei cattolici per contrastare l’anticlericalismo e l’avanzata comunista. È il preludio alla nascita dei Comitati Civici. Comincia la mobilitazione dei cattolici, anche se le elezioni sono ancora lontane.

1 gennaio 1948: entra in vigore la Costituzione repubblicana.

8 febbraio 1948: Luigi Gedda tonda i Comitati Civici. Ce ne saranno 18.000 con 300.000 attivisti che, con l’approvazione di Papa Pio XII, partecipano alla campagna elettorale.

18 aprile 1948: si svolgono le elezioni politiche per formare il primo parlamento della Repubblica italiana. Questa volta, comunisti e socialisti si presentano uniti nel Fronte Democratico Popolare. Come si vede, l’Italia corre il serio pericolo di diventare un Paese a conduzione socialcomunista, privato, come è accaduto in tutta l’Europa orientale, della libertà e del benessere. Il PCI è il più forte Partito Comunista d’Occidente ed è apertamente schierato sulle posizioni dell’URSS di Stalin. Ma il Fronte viene sconfitto, ottenendo solo il 31% dei voti contro il 48,5% dei suffragi ottenuti dalla Democrazia Cristiana. Si deve per massima parte a Luigi Gedda e ai suoi Comitati Civici questo enorme balzo in avanti della Democrazia Cristiana. Anche Giovannino Guareschi, sul settimanale Candido, condusse una implacabile battaglia contro il comunismo italiano, satellite di quello moscovita. I suoi articoli e i suoi disegni, riprodotti nei manifesti elettorali, fecero il giro d’Italia e spinsero alla resistenza e alla riscossa la maggioranza della popolazione intimidita e forse rassegnata al peggio. I Comitati Civici mobilitarono i cattolici per le piazze di Italia, denunciando il pericolo comunista e invitandoli a votare compatti. La Democrazia Cristiana, avvantaggiata da tale mobilitazione, passò dal 35,2% dei voti ottenuti nel 1946 al 48,5%, raccogliendo 12.741.299 voti, quasi cinque milioni in più del 1946. Ma non seppe poi essere riconoscente con Gedda.

Massimo Caprara
Massimo Caprara è stato segretario di Palmiro Togliatti dal 1944 per circa vent'anni. Deputato nel PCI per quattro legislature, venne radiato dal partito nel 1969 con il gruppo del Manifesto; del quale è stato uno dei fondatori. Sindaco di Portici, suo paese natale, negli Anni 50, è stato poi consigliere comunale a Napoli. Giornalista professionista, ha lavorato per Rinascita; Il Mondo, L’Espresso, Tempo Illustrato. Ha diretto L’illustrazione italiana. Ora è editorialista del Giomale. Ha pubblicato vari studi sulla storia contemporanea. Il più recente è Paesaggi con figure, edito da Ares.

Bibliografia
Luigi Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, Mondadori, Milano 1998.
Mario Casella, 18 aprile 1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo Edìtore, Galatìna (LE) 1992.
Marco Invernizzi, Democrazia Cristiana e mondo cattolico nell’epoca del centrismo (1947-1953), in Cristianità, n. 277, maggio 1998.
Marco Invemizzi, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, in Cristianità, n. 281, settembre 1998.




Galleria fotografica


Una sezione elettorale durante le elezioni politiche del 1948.


Alcide De Gasperi, leader della Democrazia Cristiana.


Palmiro Togliatti, segretario del PCI.


Luigi Gedda, fondatore dei “Comitati Civici”.


Giovanni Guareschi, direttore de “Il Candido” e autore della saga di “Don Camillo”.


Manifesto elettorale della DC.


Manifesto elettorale del Fronte Popolare Democratico (coalizione PCI-PSI).


Vignetta di Giovanni Guareschi.


Vignetta di Giovanni Guareschi.

Postato da: giacabi a 20:57 | link | commenti (1)
politica, caprara

domenica, 07 gennaio 2007
Il cristiano è il vero rivoluzionario
Massimo Caprara dal libro”Riscoprisi uomo” ed Marietti
***
D:Ora, in chiusura delle nostre conversazioni, ti chiedo se non avverti nella tua storia una sorta di simbolicità, di esemplarità...
M.C. La avverto soprattutto come dono e chiamata di libertà in mezzo agli altri. Sant' Agostino precisamente afferma: «Agisce con libertà chi agisce contento». Un dono che insegna umiltà, non umiliazione, dolore, mai scoramento. Il comunismo è il terrore, è il disprezzo della vita: per me finì in modo icastico quando Amendola mi disse: «Tu sei una cosa nostra», capii che non era per me, era violenza e mancanza di umanità. Perché sempre tutta la mia vita è stata animata da altro, da qualcosa d'altro che tentava di essere. Negli anni Novanta, con l'incontro che mi capitò, diventai di nuovo ricco, recuperai la mia umanità. Di certo non ho compiuto una impresa storica, perché quello che mi è accaduto è normale, comune a molti: ho compiuto la vera storia del cristiano, vera povertà e insieme grande ricchezza. Mi torna iÌ1 mente una frase di don De Luca: «Chi rileggesse san Paolo e sant' Agostino o una vita qualsiasi d'un qualsiasi santo, si avvedrebbe di subito che essere cristiano è essere eroe quotidiano e silenzioso, eroe senza fasto, eroe senza compensi, eroe senza gloria. Ama ed è crocifisso, redime ed è giustiziato, soffre e sorride, dà ed è battuto, rinnova il mondo intorno a lui ed è ignorato. Vive una continua morte sulla terra e morendo gl'incomincia, anche qui sopra la terra, la vita». La verità è una cosa povera, umile, il Vangelo è stato scritto con pochissime parole, ma dal grande significato, è la storia dell'uomo e dell'umanità intera: «Perché mi hai abbandonato?». È Dio che vive la povertà dell'uomo: ma la mia povertà è la verità, la mia verità è povera, non posso raccontare null'altro che questo. E tutto quello che ti accade nella vita, il lavoro, gli amori, diventa secondario rispetto all'avvenimento che ti è capitato, necessario ma secondario. Adesso mi sento di essere veramente rivoluzionario, adesso che non sono più comunista sono veramente rivoluzionario, nel senso in cui lo dice don Giussani. E se qualcuno mi chiederà un giorno: «Tu cosa hai fatto nella tua vita?», io risponderò: «Sono stato rivoluzionario»
Massimo Caparra*
Massimo Caprara uomo politico e scrittore. Fu dal 1944 il segretario personale di Palmiro Togliatti, celebre uomo politico, che ebbe importanti cariche nel Comintern e, alla fine della II guerra Mondiale, fu in Italia ministro di Grazia e Giustizia e Segretario del Partito Comunista Italiano. Massimo Caprara fu per vent'anni il suo segretario, sempre vicino al leader, e da tale posizione ne conobbe le idee e le azioni. Massimo Caprara fu dal 1953 deputato eletto a Napoli per quattro legislature, segretario del gruppo comunista, membro del comitato centrale del partito, segretario regionale della Campania. Ebbe anche cariche locali, negli anni '50 fu Sindaco di Portici, consigliere comunale di Napoli fino al 1997.
Fu uno dei fondatori del gruppo del Manifesto, e fu escluso dal PCI nel 1969 con gli altri aderenti al gruppo, per la posizione critica assunta dal gruppo a riguardo della invasione della Cecoslovacchia, con un articolo "Praga è sola", che non fu apprezzato dalla dirigenza del partito. Successivamente Massimo Caprara ha avuto un percorso critico e pur non aderendo ad alcun partito ha aderito alla democrazia abbandonando l'ideologia comunista. Giornalista: Fu redattore-capo di Rinascita, con Palmiro Togliatti come direttore. Collaborò al Mondo, all'Espresso, al Tempo Illustrato, al Il Giornale.

Nessun commento: