IL DISASTRO DEL RISORGIMENTO
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risorgimento
IL RISORGIMENTO
TRADITO DI ROSMINI
UMBERTO MURATORETRADITO DI ROSMINI
I tre concetti principali, attorno ai quali si avvitava tutto il discorso sul «risorgimento» italiano, erano quelli di libertà, indipendenza, unità. La libertà era rivendicata all’interno dei singoli Stati, l’unità nei rapporti tra i vari Stati italiani, l’indipendenza rispetto agli Stati stranieri. Antonio Rosmini – come è emerso dal convegno sulla sua figura e l’unità d’Italia che si chiude oggi a Stresa – ne condivide il germe, cioè l’ispirazione di fondo. In comunione di idee con l’amico Manzoni e coi cattolici liberali del tempo, egli pensa che queste aspirazioni, mutuate dallo spirito illuministico della Rivoluzione francese e portate in Italia cinquant’anni prima da Napoleone, non siano una «febbre maligna» di tempi avversi, ma il ragionevole venire a galla di verità evangeliche. La Chiesa ha sempre alimentato nel suo interno lo spirito di libertà fraternità uguaglianza dei popoli, ma l’angustia dei tempi e l’immaturità politica del passato non le hanno permesso di farlo fermentare. In particolare, la rivendicazione di questi diritti non era altro che il riconoscimento del valore della persona, della sua dignità di fine rispetto a tutto il resto, che era mezzo a servizio della sua perfezione. Stanno giungendo tempi nei quali il «principio di persona» o elemento civile, proprio del cristianesimo, si sarebbe imposto sul «principio di signoria», tipico dell’assolutismo pagano. Da qui il suo essere convinto costituzionalista.
Condividere lo spirito delle nuove democrazie liberali, tuttavia, per lui non equivaleva ad accettare certi modi di promuoverlo nella società, modi che finivano con lo snaturarlo e addirittura col conservagli solo l’ideale maschera esterna, mentre nell’applicazione pratica rimanevano sostanzialmente illiberali. Per quanto riguarda l’unità del popolo italiano, egli nella «Filosofia della politica» aveva spiegato che ogni nazione deve promuovere non solo la parte esteriore del cittadino (il suo benessere, le sue ricchezze, ecc.), ma soprattutto la sua parte interiore, cioè il suo «appagamento» (contentezza, persuasa condivisione, fierezza di appartenenza, solidarietà, ecc.). Il cittadino è un insieme di corpo e di anima: non tenere conto di ambedue questi valori, privilegiare il suo corpo e tenere in un cono d’ombra la sua anima, significa servire un uomo «astratto», fornirgli una libertà ingannevole.
Tra i due, è l’anima, lo spirito interiore di una nazione, quello che rende forte e compatta una nazione. Di conseguenza, se l’Italia aspirava ad essere una nazione integra, libera e indipendente, doveva far risorgere dalla sua storia passata tutte quelle ricchezze spirituali che per Gioberti costituivano il suo «primato morale e civile».
Bisognava cioè che l’imminente unificazione avvenisse sul riconoscimento delle solide radici della storia d’Italia: un albero che «liberava» e valorizzava il capitale della nazione accumulato lungo i secoli. Era una visione ben diversa da quella socialista e repubblicana di un Mazzini e di un Garibaldi, come pure da quella di tutti i profeti delle nuove scienze e delle nuove tecniche. Movimenti, questi ultimi, che sognavano una nazione nuova, da edificare sulle ceneri del passato. Tra i valori passati da non sottovalutare vi erano quelli apportati dal cristianesimo. Per Rosmini bisognava smetterla con la visione distorta di una Chiesa quale apportatrice di oscurantismo e superstizione, nemica del progresso e della civiltà, tenacemente attaccata ai suoi privilegi ed al principio di autorità, ostile ad ogni forma di democrazia. Insomma, «non è senno politico, specialmente in questa difficile condizione del Paese, gettare semi di discordia fra la Chiesa e lo Stato».
DA: www.avvenire.it del28.08.10
Postato da: giacabi a 07:52 |
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risorgimento
"Risorgimento" italiano: Brigantaggio
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"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti" Antonio Gramsci in "Ordine Nuovo", 1920).
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“Gramsci disse già nel 1926 quel che dicono oggi i nuovi storici revisionisti cattolici, che ‘nel
Sud lo Stato italiano si comportò come in una colonia’. Oggi, gli eredi
di Gramsci intimano il silenzio a chi parla male della patria. E gli
intellettuali di sinistra agiscono da retroguardia conservatrice”.
"Da una parte perché dovrebbero confessare: non abbiamo capito nulla. E ciò è duro, per degli intellettuali. Dall'altra, perché
nella sinistra resiste l'impulso a considerare ciò che è "nuovo", ossia
non pensato a sinistra, non solo come un errore, ma come una malvagità
morale. Da smascherare e da denunciare. Manca loro l'idea che esista lo
spazio delle cose opinabili, su cui possono esserci più opinioni
legittime".
Ernesto Galli della Loggia,
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«Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio».
Giuseppe Garibaldi, in una lettera ad Adelaide Cairoli 1868
Postato da: giacabi a 12:59 |
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gramsci, risorgimento
Il vero Risorgimento.…
Clelia
nasce l’anno prima del turbolento 1848, che è indicato nei libri di
storia patria come quello della prima guerra di indipendenza; e muore
nel 1870, qualche mese avanti l’ingresso dei bersaglieri in Roma per
la breccia di Porta Pia. Dei protagonisti dei radicali
sconvolgimenti che portarono all’Unità d’Italia – di Vittorio
Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi, di
Mazzini – la storiografia consueta ci racconta tutto o quasi. Ma
non ci dice nulla (o quasi), di come il popolo semplice abbia vissuto
quegli avvenimenti.
Clelia nasce l’anno prima del turbolento 1848, che è indicato nei libri di storia patria come quello della prima guerra di indipendenza; e muore nel 1870, qualche mese avanti l’ingresso dei bersaglieri in Roma per la breccia di Porta Pia. Dei protagonisti dei radicali sconvolgimenti che portarono all’Unità d’Italia – di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi, di Mazzini – la storiografia consueta ci racconta tutto o quasi. Ma non ci dice nulla (o quasi), di come il popolo semplice abbia vissuto quegli avvenimenti. Domandiamoci, allora, per una volta: dell’imponente mutazione di regime la gente persicetana (per esempio alle Budrie) che cosa ha percepito nell’umile concretezza della sua oscura esistenza? Ha assistito con animo più sbigottito che partecipe a tante imprevedute novità, che dovettero sembrare abbastanza inspiegabili. Nelle aule scolastiche l’immagine mite e familiare della Madonna di San Luca fu sostituita dal fiero e baffuto ritratto di un re forestiero. Proprio in quegli anni il giovane stato unitario decise di impadronirsi di molte proprietà che erano a originaria destinazione religiosa. E, come spesso capita in questo mondo, invece dei ladri, si mettevano in prigione i derubati.
Fu così che Clelia e i suoi comparrocchiani ebbero il sorprendente spettacolo dell’arresto e della partenza per il carcere di don Gaetano Guidi, il pastore da tutti benvoluto e stimato. In occasione della guerra del 1866 – Clelia aveva diciannove anni – la chiesa più importante del territorio, la collegiata di San Giovanni, venne requisita e per più di un mese fu adibita a magazzino da parte delle autorità militari che per le loro necessità non avevano proprio saputo immaginare altre soluzioni. Nello stesso torno di tempo, l’arcivescovo di Bologna fu dal nuovo governo impedito per ventidue anni (dal 1860 al 1882) di occupare la sua legittima sede e di esercitare liberamente il suo ministero. In conseguenza della coscrizione obbligatoria, furono sottratti ai lavori dei campi e chiamati alle armi quei poveri contadini, ai quali per altro non era consentito di votare. Per non parlare dell’inaudita ed esecrata tassa sul macinato, a proposito della quale il comando generale di Bologna ebbe il bel pensiero di togliere il batacchio alle campane di quei paesi; campagne colpevoli di avere talvolta accompagnato e incoraggiato gli assembramenti di protesta dei coltivatori esasperati. Si era nel 1869, l’anno prima della morte della nostra Santa.
Questo, o poco più di questo, è stato il Risorgimento nazionale visto dal basso, dalla paziente umanità che stentava la vita sotto l’argine del Samoggia. In questo clima depresso e rannuvolato Clelia è apparsa come un raggio di sole. Questa ragazza, germinata dalla loro anima e dalla loro cultura più vera, è apparsa alle genti di quella terra come il segno di una speranza nuova, come il presentimento che qualcosa potesse davvero cominciare a «risorgere». Ed era, per così dire, un «risorgimento al femminile». Si trattava di una giovane donna che non organizzava rivendicazioni, non pretendeva posti direttivi nella società, non pensava affatto di realizzarsi assumendo compiti e responsabilità tipicamente maschili. Proprio con la sua naturale e intatta femminilità è diventata nel breve spazio della sua esistenza il riferimento più indiscusso, la voce più ascoltata, la «madre» della piccola comunità rurale in cui era inserita. E dopo la morte la sua fede e la sua straordinaria capacità di amare – restando tipicamente e totalmente «femminili» – si sono imposte all’attenzione ammirata di tutta la Chiesa. È un insegnamento prezioso da non dimenticare. Il pieno riscatto della condizione femminile non starà nell’opporre all’egoismo dell’uomo l’egoismo della donna, ma nell’aprirsi senza riserve da parte degli uomini e delle donne all’unico disegno di Dio. Così come la salvezza dei nostri giovani – ed è un altro insegnamento di questa giovane santa – non verrà dalla moltiplicazione degli agi e delle occasioni di godimento (e tanto meno dall’accondiscendenza senza limiti e dal permissivismo), ma dalla seria riscoperta della verità e della bellezza della vita vissuta in obbedienza al progetto eterno del Creatore. Queste sono le più significative lezioni esistenziali che ci vengono da santa Clelia.
scritto dal card. Giacomo Biffi (Da L’Avvenire, Martedi 13 Luglio 2010, Inserto Cultura) fonte : diocesi di San Marino
http://www.vietatoparlare.it/2010/07/19/il-vero-risorgimento/
Postato da: giacabi a 06:37 |
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risorgimento, biffi
Risorgimento =distruzione del Meridione
guarda il bellissimo filmato del figlio di Piero Angela
A
dire che a scuola ho studiato un sacco di stronzate sul Risorgimento e
solo in questi anni che sto scoprendo del DISASTRO CHE
IL RISORGIMENTO HA FATTO IN ITALIA .LA VERITA' ALLA FINE VIENE SEMPRE A GALLA
Postato da: giacabi a 22:14 |
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risorgimento
Impegno culturale nell’oggi, per un futuro democratico
28/05/2010
Non riesco proprio a credere che la discussione sull’Unità d’Italia veda confrontarsi due posizioni antitetiche: l’una che ritiene il Risorgimento e l’Unità d’Italia il male assoluto, e quindi avrebbe una nostalgia invincibile della situazione italiana prima dell’unità, l’altra rappresentata da coloro che ritengono che il Risorgimento e l’Unità d’Italia siano il “bene assoluto”.
La storia non torna indietro e quindi l’Unità d’Italia è un dato sostanzialmente innegabile e irrinunciabile. Coloro che, soprattutto negli ultimi vent’anni, hanno proposto una serie di interpretazioni più articolate e compiute del Risorgimento e dell’Unità d’Italia (e anch’io ho dato il mio piccolo contributo) hanno certamente aiutato a comprendere che il Risorgimento e l’Unità d’Italia, come tutti i fenomeni storici, è caratterizzato da luci ed ombre. Sulle luci si è detto e stradetto da più di cent’anni. E le ombre non possono ormai più essere negate. Certamente ci fu nel Risorgimento una tendenza anticattolica molto decisa. Tutta l’operazione ha certamente risentito di una ideologia illuministica ed antipopolare che in più di un caso ha avuto la fisionomia di una vera e propria violenza. Non si possono certamente negare episodi di strage, bombardamento di civili, atteggiamenti tesi ad impedire che la realtà del popolo assumesse una posizione in qualche modo da protagonista, discriminazioni anche feroci nei confronti delle più diverse minoranze.
Ma qual è il problema oggi? Non criminalizzare l’Unità d’Italia, non presentarla come una mitologia indiscutibile, ma leggere in questo nostro passato fattori che indicano la nostra responsabilità nel presente.
Essere italiani non è una disgrazia, ma non è neppure un orgoglio meccanico. Essere italiani oggi è un impegno, una responsabilità nella quale il nostro popolo è chiamato ad assumere un volto più maturo e responsabile. È indubbio che l’Italia è nata senza una cultura forte, capace di aggregare le differenti esperienze e posizioni; è anche chiaro che lo Stato italiano è nato tentando di emarginare in modo definitivo la cultura popolare di ispirazione cattolica. Non i cattolici, ma la seconda generazione dei liberali storici ammetteva tristemente che era nata una “Italietta”.
L’Italia può diventare una esperienza viva se si mette al primo posto il problema della cultura, o meglio il problema delle culture che ormai esistono nello spazio del nostro territorio e della nostra nazione. L’Italia diventa esperienza di vita soltanto se si favorisce una maturazione critica e sistematica delle varie posizioni culturali presenti nel nostro paese. L’Italia ha bisogno di una vera libertà di cultura e quindi che tutti rinunzino alla pretesa di una qualsiasi egemonia.
L’Italia ha bisogno di una autentica libertà di educazione: senza questa libertà le culture non sono assunte in modo critico e sistematico. Un paese dove la libertà di educazione è ancora pesantemente penalizzata impedisce quel cammino educativo che forma personalità coscienti della propria identità e, quindi, capaci di dialogo e di confronto critico.
Si diventa italiani se si matura nella propria identità culturale e morale, e se, in questo e per questo, si contribuisce a quel clima di dialogo in cui, secondo l’insegnamento di Giovanni Paolo II, consiste il cuore di un’autentica democrazia.
La tentazione dell’“Italietta” è sempre presente: contrabbandare retoriche invece di cultura, procedure politiche ed istituzionali anziché favorire quell’intensa esperienza di socialità che le istituzioni debbono riconoscere e promuovere. Dopo 150 anni l’Unità d’Italia è ancora da fare, e per certi aspetti è inevitabile che sia così.
Tocca a tutti, ma soprattutto alle istituzioni politiche, mettere le condizioni reali e positive perché la varietà delle culture presenti nel nostro paese possa dare il proprio effettivo contributo alla nascita di una società ricca, articolata, premessa obiettiva di un’autentica democrazia.
Questo è quello che si aspettano in molti dalle feste per i 150 anni dell’Unità d’Italia: che gli italiani possano comprendere criticamente tutta la propria tradizione, non soltanto questi 150 anni, e, presa coscienza della tradizione, attuarla nella esperienza del presente per costruire un futuro più libero, più giusto, più democratico.
Sono certo che i cattolici italiani sapranno prendere la loro parte in questa grande sfida.
+ Luigi Negri, Vescovo di San Marino - Montefeltro
da: http://www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it/
Postato da: giacabi a 15:18 |
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negri, risorgimento
GIACOMO MARGOTTI uno sconosciuto?
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No ! Fu il TENACE SACERDOTE artefice del motto "nè eletti nè elettori" (il "non expedit" di Pio IX)
Fu il fondatore di "ARMONIA", accusato da Cavour di abusare delle "armi spirituali"
E' l’autore delle “Memorie per la storia dei nostri tempi”
per gentile concessione
di Giacomo Razzetti
curatore del sito
CATTOLICI NELLA SOCIETA'
di Giacomo Razzetti
curatore del sito
CATTOLICI NELLA SOCIETA'
Don Giacomo Margotti nasce l'11 maggio 1823, si laurea in studi filosofici e diviene seminarista a Ventimiglia; nel 1845 ottiene il dottorato presso l'università di Genova.Nel 1848, insieme al Vescovo di Ivrea Moreno, il Professor Audisio ed il Marchese Birago, fonda a Torino il quotidiano "L'Armonia", di cui è la vera anima e brillante direttore; tanto brillante da suscitare il duro disappunto della Torino sabauda: senza troppi complimenti si tenta di sopraffarlo con sequestri, multe, chiusure coatte ed ogni genere di vessazione (tra cui un tentato omicidio contro la sua persona nel 1856), fino alla definitiva chiusura del quotidiano, ordinata da Cavour nel 1859.Ma il tenace sacerdote non si dà per vinto e riesce a spuntarla nuovamente, prima dalle colonne de "Il Piemonte", poi nuovamente dal ristabilito "L'Armonia" che, per volere del Beato Pio IX, viene rinominato "L'Unità Cattolica", nel giorno di Natale del 1863. Foglio, più moderato, ma non meno intransigente, che dal 1870 al 1929 uscì (a Firenze) listato a lutto per la condizione in cui si era venuto a trovare il papa dopo la fine del potere temporale.Fu il principale artefice del motto "nè eletti nè elettori" (del 1864, successivamente rielaborato dal Beato Pio IX nel principio del "non expedit"), naturale evoluzione dell'atteggiamento di totale chiusura del parlamento sabaudo, che addirittura annullò la sua trionfale elezione alla Camera del 1857 per il curioso reato di "abuso di armi spirituali", neologismo politico dello scaltro Cavour che non aveva certo bisogno di una opposizione intelligente che fosse ostile alla sua linea anti-clericale (ed estese tale provvedimento aberrante ed anti-liberale ad una ventina di sacerdoti neo-eletti).Dei suoi numerosi scritti, di cui ci perviene quasi niente ma che comunque bastano a tracciare lunghe ombre di dubbi sull'operato di alcuni pater patriae, voglio ricordare il monumentale "Memorie per la storia dei nostri tempi" (in 6 volumi, del 1863), assolutamente introvabile anche nelle biblioteche nazionali (e ciò, mi si consenta, allunga ulteriormente le succitate ombre), di cui chi scrive sta faticosamente ricostruendo l'iter storico, nella speranza di poterlo poi ripubblicare in serie limitata; poi anche "Considerazioni sulla separazione dello Stato dalla Chiesa in Piemonte" (1855); "Le vittorie della Chiesa nei primi anni del Pontificato di Pio IX" (1857); Le consolazioni del S. P. Pio IX" (1863); "Pio IX e il suo episcopato nelle diocesi di Spoleto e d'Imola" (1877).Giacomo Razzetti---------------------------------------------------GIACOMO MARGOTTI: chi era costui?
L’autore delle “Memorie per la storia dei nostri tempi” che stiamo pubblicando
di Angela Pellicciari
Chi è don Giacomo Margotti? Chi è l’autore delle Memorie per la storia dei nostri tempi che stiamo pubblicando a puntate? Un prete giornalista. Un prete battagliero. Un uomo coraggioso. Un combattente per la verità.
Il 18 agosto 1849 Pio IX scrive alla granduchessa Maria di Toscana: sebbene “la tutela del dominio temporale della S. Sede sia in me un dovere di coscienza, pur nonostante è un pensiero assai secondario in confronto dell’altro che mi occupa, di procurare cioè che i popoli cattolici conoscano la verità“.
Che i cattolici conoscano la verità: questa è la preoccupazione del papa e questo è l’assillo di don Margotti. Perché? Perché l’Ottocento è teatro di una riuscitissima campagna di diffamazione, menzogna ed odio contro la chiesa cattolica. Perché i liberali che realizzano l’unità d’Italia, acerrimi nemici della chiesa, non si vergognano di dichiararsi ferventi cattolici. Perché i Savoia -che si professano cattolici- seguono pedissequamente le mosse dei sovrani protestanti che nel Cinquecento derubano la chiesa di ogni avere. Perché i governi liberali che si appropriano del patrimonio che la popolazione cattolica ha regalato nel corso dei secoli alla chiesa, hanno l’ardire di farlo nel nome della chiesa. Per contrastare una simile gigantesca menzogna si tratta di difendere la verità raccontando i fatti. Bisogna ribattere punto per punto alla propaganda di stato. E’ quello che fa don Margotti dalle colonne del torinese l’Armonia.
Nel paese che si gloria di essere l’unico in Italia a difendere la libertà -compresa quella di stampa-, nel Piemonte sabaudo, cosa succede a Margotti che racconta la verità? Succede che il giornale è più volte messo sotto sequestro, multato, ed infine succede che qualcuno attenta alla sua vita. Il 27 gennaio 1856 don Margotti è aggredito per strada da un malvivente che, con un grosso bastone, lo colpisce alla testa. Mentre l’aggressore fugge pensando di aver compiuto il suo compito, il prete è soccorso dai passanti e, miracolosamente, si salva.
L’anno successivo, alle elezioni del 1857, Margotti è eletto trionfalmente alla Camera insieme ad una ventina di sacerdoti. Il liberale Cavour che di tutto ha bisogno fuorché di un’opposizione parlamentare degna di questo nome, invalida le elezioni degli scomodi preti con la scusa dell’"abuso di armi spirituali". In cosa consiste questo crimine? Nell’aver i presbiteri denunciato la politica anticattolica del governo sardo. Nell’aver ricordato la scomunica maggiore che colpisce i liberali nel 1855, dopo l’approvazione della legge soppressiva di 35 ordini religiosi. A parere di Cavour dire apertamente che i governanti sardi sono tutti scomunicati equivale a commettere un reato, un "abuso" appunto. Il presidente del Consiglio dal canto suo vieta la pubblicazione delle encicliche del papa, compresa quella relativa alla scomunica.
Quando nel 1864 Margotti propone la linea né eletti né elettori (che Pio IX trasformerà dieci anni più tardi nel non expedit) sa quello che fa: la sua esperienza sta lì a dimostrare che, in un modo o nell’altro, per i cattolici, nel Regno d’Italia governato dai liberali, non c’è posto.
Per conoscere più da vicino che tipo di uomo è don Margotti trascriviamo la prima parte della lettera da lui inviata ai lettori dell’Armonia qualche giorno dopo l’aggressione: “Dopo una settimana d’ozio forzato, riprendo i miei lavori. Non odiando nessuno, io credevo di non avere nemici. Molti contava avversari politici, ma li riputava tutti onoratissimi, che avrebbero fatto a me buona guerra, com’io a loro, guerra di penne e di ragioni, quale s’addice a gente costumata in paese libero, e non la vilissima guerra dell’assassino. Quando qualche benevolo m’avvertiva s’andare cauto, e premunirmi, io apprezzava l’avviso, per sentimento di benevolenza d’onde partiva, ma mi parea suggerito da una sconsigliata paura, e dicea: in ogni caso, che cosa guadagnerebbero levandomi dal mondo? La causa nostra non dipende dagli uomini, e molto meno da me, l’infimo di tutti. E poi, lo confesso schietto, per quanto io senta sinistramente della libertà moderna, ero persuaso che in Piemonte si potesse ancora scrivere una verità, salva la vita. In Francia, paese di grandi virtù ma anche di grandi delitti, vedea pubblicarsi da buona pezza giornali schietti e franchi come il nostro, senza che i compilatori avessero rischio di sorta.
" La sera di domenica, 27 gennaio 1856, m’avvertirono ch’io era nell’errore, e che troppo ancora credeva (e Dio sa quanto ci credeva poco!) alla libertà ed all’onestà di certuni. Mi dolse del mio caso, ma assai più dell’inganno. Sì, per l’amore che porto alla mia patria, non avrei voluto essere obbligato a confessare, che nel Piemonte, donde furono cacciati gli arcivescovi di Torino e Cagliari, annidassero poi gente rotta ad ogni delitto. Ad ogni modo, se taluno odia me, sappia che io non odio nessuno. Perdonai, e perdono di buon cuore a chi tentò d’uccidermi, e se lo conoscessi, vorrei fargli vedere a’ fatti, che se i principii della sua politica lo consigliarono a sfracellarmi la testa, le massime della mia religione mi comandano di stringermelo affettuosamente al seno. Forse allora costui imparerebbe che differenza corre tra un servo e un nemico del Papa; tra un apologista, e un calunniatore di S. Romana Chiesa.
" Iddio, che mi legge nel cuore, sa ch’io non iscrivo frasi, ma dico quello che sento. In questo senso parlai ai magistrati, che accorsero al mio letto per gli interrogatori fiscali. Ho sempre protestato di non voler porgere querela contro nessuno, e se non potei oppormi al diritto che compete alla società, di buona voglia rinunciai, e rinuncio a quello che mi compete individualmente“.
Caro a Pio IX, che aveva una sua foto sul comodino, Giacomo Margotti è un esempio di italiano e di cattolico di grande valore. Speriamo che -dopo quasi centocinquanta anni di colpevole dimenticanza- la pubblicazione di alcuni dei suoi articoli gli renda, almeno in parte, giustizia.
Angela Pellicciari
Postato da: giacabi a 09:19 |
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testimonianza, risorgimento
Cavour e il suo amico francescano
La confessione di uno scomunicato
La confessione di uno scomunicato
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Si apre il 5 novembre a Villa Cagnola di Gazzada (Varese) un convegno
sul tema "Libertà religiosa e laicità dello Stato", organizzato
dall'Istituto Superiore di Studi Religiosi e dalla Fondazione Ambrosiana
Paolo VI. Pubblichiamo la conclusione dell'intervento del rettore della
Pontificia Università Lateranense.di Rino Fisichella
Nel suo Il Tevere più largo Giovanni Spadolini riporta un fatto storico che riguarda Cavour, il grande teorico della formula "libera Chiesa in libero Stato". "Una mattina del 1856, entrando nello studio di Cavour, il conte Ruggero Gabaleone di Salmour lo trova di un umore eccezionalmente buono, quasi con una punta di ostentata allegria. "Camillo, perché tu sia così allegro stamane bisogna che tu abbia concluso un buon affare", gli dice col suo tono affettuosamente confidenziale, il valoroso funzionario. "Sì, il migliore affare della mia vita", ribatte pronto Cavour. "Ho avuto la parola d'onore del mio curato, il padre Giacomo, che quando lo chiamerò al mio letto di morte verrà ad amministrarmi i sacramenti, senza esigere nulla che io non possa consentire con onore"". La testimonianza è dello stesso Salmour, l'uomo che aveva accompagnato l'ascesa di Cavour dal ministero delle Finanze a quello degli Esteri. Ed è una testimonianza insospettabile, che acquisterà tutto il suo significato e valore solo cinque anni più tardi, in quel tragico crepuscolo del 5 giugno 1861 in cui padre Giacomo varcherà il portone del palazzo Cavour e somministrerà al grande statista morente il viatico portato da Santa Maria degli Angeli, dietro una folla salmodiante e piangente; folla di semplici, folla di umili e di credenti. Com'è che il conte pensa alla morte? Se lo domanda, stupito, lo stesso fedelissimo conte di Salmour. "Davvero: tu mi burli (...) pensare adesso alle precauzioni religiose!"; sono le precise parole con cui il Salmour risponde alle confidenze del grande ministro. E il conte, perdendo per un momento la piega di sorriso che illumina il suo volto abitualmente così teso: "No, non ti burlo; ma non voglio che mi accada come al nostro povero Santa Rosa".
L'ombra di Santa Rosa perseguita "milord Camillo", lo statista cosmopolita e scettico che ha abbandonato le pratiche religiose fin da giovanissimo ma senza mai rinunciare all'ispirazione cristiana - inseparabile per lui dalla stessa visione liberale del mondo. Santa Rosa è uno dei ministri che nel gabinetto D'Azeglio del 1850 ha sottoscritto la legge sull'abolizione del foro ecclesiastico, la famosa "legge Siccardi"; è uno dei ministri, un tipico moderato del vecchio Piemonte, che per l'adesione a quell'atto di governo si è visto rifiutati i sacramenti religiosi pochi mesi più tardi, in ossequio alle censure ecclesiastiche che con lui avevano colpito tutti i membri del ministero. "Non voglio espormi a uno scandalo simile - confidava Cavour al Salmour - sono cattolico e voglio morire nella mia religione". Nel 1856, quando il conte pronunciava quelle parole, nessuno poteva certo prevedere che di lì a un lustro, proprio il 25 marzo 1861, Cavour sarebbe stato colpito dalla scomunica maggiore del Pontefice Pio IX insieme "a tutti gli autori, promotori, consiglieri e complici dell'attentato commesso contro la Santa Sede" (per l'annessione delle Marche e dell'Umbria seguita a quella delle legazioni romagnole). Ma una istintiva fiducia lo accompagnava. "Ora eccomi tranquillo - diceva sempre al Salmour - il curato è un santo e un galantuomo, e manterrà la sua parola".
Quel povero e candido francescano, che conosceva l'altezza morale del conte, manterrà infatti la sua parola. Quando la nipote, la prediletta Giuseppina Alfieri di Sostegno, accennò allo zio ormai agonizzante che padre Giacomo era arrivato e gli domandò con voce discreta e sommessa: "Desiderate riceverlo un momento?", il conte capì immediatamente e, dopo un momento di raccoglimento, strinse la mano della pupilla e le rispose con tono inconsuetamente fermo: "Fallo entrare". La voce di Cavour si era già fatta fioca e quasi rauca; momenti di allucinazione si alternavano a pause di lucidità. Le sofferenze erano crescenti; le cure inutili. Gli assurdi salassi lo avevano ulteriormente sfibrato; neppure il suo "medico" collega di governo e di lotte politiche, l'amico Luigi Carlo Farini, gli aveva potuto consigliare un rimedio adatto. Eppure il conte trovò la forza per restare solo, mezz'ora, con padre Giacomo, per prepararsi, attraverso la confessione, alla somministrazione del viatico che poche ore più tardi gli sarà portato dalla sua chiesa prediletta, dalla chiesa che lo aveva visto fanciullo e non lo aveva mai perduto.
Cosa si siano detti in quella mezz'ora padre Giacomo e Cavour, non fu mai rivelato. Il povero frate francescano subì, per quell'atto di suprema misericordia cristiana, i fulmini della curia papale, i rimbrotti spietati di Antonelli e dell'entourage antonelliano; ma non violò neppure per un attimo il sigillo sacramentale consacrato nella confessione. Chiamato a Roma, il giorno successivo alla morte del conte, per rendere ragione di quell'assoluzione concessa a uno scomunicato maggiore senza chiedergli la solenne ritrattazione delle colpe commesse verso la Chiesa - la stessa ritrattazione che era stata domandata invano al ministro Santa Rosa - ribatté con assoluta fermezza che egli era vincolato a un segreto, a un segreto che poteva sciogliere solo davanti a Dio. Perfino Pio IX, il Papa che pur aveva in grande stima Cavour, chiamò al redde rationem il parroco di Santa Maria degli Angeli, perse la sua calma paterna, si abbandonò a uno dei non rari momenti di collera. Nulla piegò l'intrepido sacerdote: né il Papa né il tribunale dell'Inquisizione davanti al quale fu tradotto il giorno successivo. Resistenza che disarmò tutti, che piegò lo stesso cardinale Antonelli. Ad evitandum scandalum majus, la Santa Sede consentì al povero frate di tornare a Torino, non senza avergli imposto - e fu amara punizione - la rinuncia al ministero di parroco, l'abbandono della cura di anime.
Sennonché padre Giacomo conservò con sé il suo segreto: il segreto che squarciava il futuro del secolo nuovo. Col suo atto, il silenzioso frate di Santa Maria degli Angeli aveva impedito che la frattura fra coscienza cattolica e coscienza nazionale diventasse completa e insanabile, proprio in quel momento supremo del Risorgimento che fu segnato dalla morte di Cavour. Con quel suo gesto di cristiana carità, il "frate galantuomo", di cui, solo, Cavour si fidava, aveva le vie al superamento dell'opposizione cattolica e dell'intransigenza laicista, aveva anticipato il periodo di quella "conciliazione silenziosa". All'indomani mattina, alle cinque e mezzo del 6 giugno, dopo la visita notturna del re, quando le condizioni del conte erano ormai disperate, padre Giacomo tornò ancora una volta al capezzale del morente. È Giuseppina Alfieri di Sostegno che racconta: "Il conte lo riconobbe, gli strinse la mano e disse: "Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!". Furono le sue ultime parole. Il curato gli amministrò il sacramento dei moribondi in mezzo ai singhiozzi della famiglia, degli amici, dei domestici". "Oggi - commenta Spadolini - a cent'anni dalla morte di Cavour, è giunta l'ora di riaprire quei testi, di rimeditare quelle toccanti parole. C'è dentro tutto il segreto della storia italiana. Della storia di ieri ma anche di quella di domani. Il segreto per cui l'Italia diventò una libera nazione e potrà continuare a restarlo. A patto di non dimenticare quegli insegnamenti, di non smarrire quei valori supremi. Valori di coscienza: più forti di ogni retorica, più tenaci di ogni oblio" (pp. 33-42).
Il racconto, se mai ce ne fosse bisogno, è un inno alla coscienza che niente e nessuno potranno mai debellare tanto è radicato nell'intimo di ogni persona come sigillo della presenza di Dio. La Chiesa ha codificato la coscienza come principio cardine di ogni genuina verità e coerente libertà. Mantenere vivo e dinamico questo richiamo sarà sempre, in ogni caso e nonostante tutto, la vera conquista nel rispetto della dignità della persona e di ogni individuo. Questa coscienza che deve essere rispettata e formata alla libertà, nutrendosi di verità e vivendo di carità, è quanto la Chiesa chiede che venga mantenuta libera come condizione di progresso e di autentico futuro carico di senso.
(©L'Osservatore Romano 6 novembre 2009)
Postato da: giacabi a 21:13 |
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risorgimento
DA DOVE NASCE IL RISORGIMENTO
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"Sorse
una setta, nera di nome e più nera di fatti [la Carboneria], e si
sparse nel bel Paese, penetrando adagio adagio in molti luoghi. Più
tardi un’altra ne comparve [la Giovane Italia] che volle chiamarsi
giovane, ma per la verità era vecchia nella malizia e nella iniquità. A
queste due, altre ancora ne tennero dietro, ma tutte alla fine
portarono le loro acque torbide e dannose nella vasta palude massonica.
Da questa palude escono oggi quei miasmi pestilenzìali che infestano
tanta parte dell’orbe, ed impediscono a questa povera italia di poter
presentare le sue volontà al cospetto di tutte e genti". Pio IX Il 29 maggio 1876così si rivolge ad un gruppo di lombardi che festeggia, non a caso a Roma, il settimo centenario della battaglia di Legnano
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