L'Italia negata dal Risorgimento
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di Luigi Negri
03-11-2011
Anticipiamo
qui sotto ampi stralci dell'introduzione di "Risorgimento e identità
italiana: una questione ancora aperta" (Cantagalli, pagine 120, euro
12), il nuovo libro del vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor
Luigi Negri.
L’Italia ha una storia che non può essere ridotta agli ultimi 150 anni, alla storia dello Stato unitario. Esiste una nazione italiana da molto prima, così come ha ricordato il cardinal Giacomo Biffi nel suo ultimo, breve ma estremamente significativo, scritto sull’argomento: con la costituzione del Regno d’Italia «è vero che in qualche modo si era dato origine all’Italia politica; ma agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, almeno da sette secoli erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli».
Questo perché l’identità italiana nasce innanzitutto da un punto di vista culturale e religioso, come non ha mancato di evidenziare anche Benedetto XVI: «Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. […] Perciò l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo».
L’Italia ha una storia che non può essere ridotta agli ultimi 150 anni, alla storia dello Stato unitario. Esiste una nazione italiana da molto prima, così come ha ricordato il cardinal Giacomo Biffi nel suo ultimo, breve ma estremamente significativo, scritto sull’argomento: con la costituzione del Regno d’Italia «è vero che in qualche modo si era dato origine all’Italia politica; ma agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, almeno da sette secoli erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli».
Questo perché l’identità italiana nasce innanzitutto da un punto di vista culturale e religioso, come non ha mancato di evidenziare anche Benedetto XVI: «Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. […] Perciò l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo».
Tuttavia troppe volte nelle recenti celebrazioni del 150° anniversario della nascita dello Stato unitario ci si è dimenticati di tenerlo presente. Nasce lo Stato, la nazione e il popolo: questo è il dogma che attraversa centocinquant’anni di storia d’Italia. L’identità italiana viene fatta coincidere con la nascita di un assetto statuale nuovo. In questo consiste il più grande limite di molta storiografia, di molti discorsi che si sono sentiti nelle celebrazioni dei mesi scorsi. Infatti, l’identità di un popolo è caratterizzata da una cultura, da una concezione globale della vita, che diventa un ethos, un insieme di princìpi morali, che diventa una capacità di aggregazione e di creazione civile; una cultura crea inesorabilmente una civiltà.
Spesso si confondono termini come Nazione e Stato, concependoli come sinonimi, dimenticando così che si tratta di realtà distinte, finendo per identificare la società con lo Stato. Tale confusione, non bisogna dimenticare, nasce da un processo storico che, nel corso della modernità, ha preteso di ricondurre la dimensione sociale e culturale alla dimensione statuale.
Esiste oggi la possibilità di ricostruire la verità storica al di là dei miti e della retorica del Risorgimento, senza con questo volere mettere in discussione il valore dell’unità d’Italia? Occorre innanzitutto prendere coscienza che esiste un’identità italiana che precede l’unità politica. Si deve inoltre cercare di capire se la modalità con cui è stata costruita l’unità politica si sia fondata su tale identità, l’abbia rispettata e l’abbia promossa realmente. Per fare ciò è necessario, oltre a riconoscere i guadagni indiscutibili del Risorgimento (indipendenza e unità statale italiana, l’affermazione di un potere di tipo costituzionale, ecc.), non censurare nessun aspetto, anche quelli più controversi. (...)
Risulta necessario evitare tanto il parlare dell’unità d’Italia come del male assoluto, tanto assumere un atteggiamento acritico, incapace cioè di cogliere quei nodi problematici della costruzione dello stato italiano che hanno segnato drammaticamente la storia del popolo italiano: un modello di governo statalista e centralista che è prevalso, il difficile rapporto tra Stato e Chiesa, la guerra civile combattuta nel Sud Italia.
Un tale sguardo consente
di cogliere l’evento della nascita e poi del consolidamento del nostro
Stato nella sua complessità, così come si è determinato, cercando di non
trascurare la molteplicità di fattori, che spetta proprio alla ricerca
storica far emergere. In particolare, gli studi più recenti sul
Risorgimento e sull’unità d’Italia permettono di avere una visione meno
ideologica rispetto a quella che è prevalsa in passato e che ha
trasformato la nascita dello Stato, del popolo e della nazione in una
sorta di culto civile, come non senza la sua consueta ironia ha
evidenziato il cardinal Giacomo Biffi: «Una volta conclusa l’azione
unificatrice, con molta accortezza si è elaborato e imposto una specie
di “catechismo risorgimentale” edulcorato, nel quale Vittorio Emanuele
II, Cavour, Garibaldi e Mazzini erano indicati alla venerazione degli
italiani come gli autori della mirabile impresa. In realtà, la sola cosa
che accomunava questi padri del Risorgimento è che nessuno di loro
poteva soffrire gli altri tre».
Un contributo decisivo
alla nazione italiana è stato dato dal cristianesimo. L’identità
italiana è stata curata, educata e sviluppata dalla Chiesa insieme alle
famiglie cristiane; per secoli è stata custodita dai padri e dalle madri
di famiglia. L’identità italiana quindi è in una storia, che siamo
chiamati a riscoprire, riconoscendo anche l’importante contributo dei
cattolici.
È nella inculturazione della fede,
nel tessuto culturale, antropologico, etico e sociale del popolo
italiano che si è costruito ciò che noi chiamiamo Italia, pur nella
varietà delle situazioni e delle condizioni che essa ha vissuto negli
ultimi 1.800 anni. La Chiesa ha contribuito a formare tale identità
attraverso un’opera assolutamente rigorosa e puntuale di educazione. E
l’identità italiana è emersa attraverso la vita di un popolo, sia
nell’ordinarietà della vita quotidiana, sia nelle grandi vicende
culturali e artistiche. È emersa attraverso la vita di un popolo, che
cristianamente mangia, beve, veglia e dorme, vive e muore, non più per
se stesso, ma per Colui che è morto e risorto per noi. Non c’è niente di
straordinario: è stato un cammino lungo di educazione, che ha dovuto
fare i conti con le differenze etniche e, nei secoli centrali della
nostra storia, con le litigiosità dei piccoli potentati, ancor più gravi
delle inimicizie dei grandi potentati. Ne è nato un popolo,
un’esperienza storica che gridava la sua bellezza e la sua verità. Ne
sono ancora oggi testimonianza le numerosissime opere d’arte che
costituiscono il principale patrimonio del nostro Paese, rendendolo
unico al mondo.
Tuttavia un’ideologia
ha cercato di sostituirsi a questa identità, di contrastare questa
esperienza storica, attraverso il cosiddetto Risorgimento. Se non si
comprende la differenza fra un’identità che si vive nella storia e
un’ideologia che si impone e pretende di cambiare la storia, non si
comprendono le vicende degli ultimi due secoli in Europa e nel mondo.
Certamente non si capisce la vicenda del passaggio dalla situazione
tradizionale alla situazione unitaria e risorgimentale. Ebbene, una
minoranza estremamente ridotta di ideologi, di massoni, di
filo-protestanti e di borghesi ha preteso che la sua visione delle cose
fosse l’unica possibile e che quindi questa dovesse prevalere sulle
altre. È la tragica presunzione di chi sostiene che un’idea giusta possa
essere imposta anche con la forza, come aveva già previsto Thomas
Hobbes (1588-1679). Questa sostituzione è stata fatta senza nessuno
scrupolo, usando la violenza, la manipolazione, l’ingiustizia, la
sopraffazione e il disprezzo per una maggioranza considerata informe,
per quei “cafoni” dei contadini e per quei “fanatici” dei preti, dei
frati e delle suore. (...)
Non c’è nessuno che
possa dire che sulla storia del Risorgimento abbiamo già conosciuto
tutto. Non esiste nessuna autorità, né civile, né religiosa che possa
dire: “Avete studiato abbastanza”. Fatta questa precisazione, credo che
quello attuale sia un periodo fortunato, perché di queste vicende
storiche si sta componendo un quadro sicuramente più inquietante, ma
indubbiamente più oggettivo, favorendo quella necessaria purificazione
della memoria. È, cioè, sempre più chiaro che non si può procedere senza
sottrarre alla vulgata del Risorgimento il suo carattere di
indiscutibilità. Occorre ricordare (e forse pochi lo sanno) che, per la
prima volta nella storia delle guerre europee, i piemontesi hanno
combattuto la grande battaglia di Gaeta (per intenderci quella che
formalmente pose fine allo Stato borbonico) bombardando anche civili
inermi; così uomini e donne, in fila per il pane o per l’acqua,
diventarono improvvisamente nemici da mitragliare e da uccidere.
Per la prima volta in Italia
– ha scritto Cardini – la guerra uscì dalla cerchia degli “esperti” e
divenne una questione di popolo. Quello stesso assedio deve essere
ricordato anche per un altro atto di efferata brutalità: «Di fronte
all’inutilità di un’ulteriore resistenza, Francesco II autorizzò il
governatore di Gaeta […] a trattare la capitolazione. Era l’11 febbraio e
per due giorni si protrassero i colloqui senza che il generale Cialdini
cessasse di rovesciare sulla sventurata fortezza una valanga di fuoco;
ne aveva anzi approfittato per far entrare in azione altre due micidiali
batterie di cannoni a canna rigata. Visto che la resa era sicura,
quell’ulteriore dispiegamento di artiglieria era mortalmente inutile».
Ebbene il generale Cialdini, che si macchiò di questo delitto contro
l’umanità, venne gratificato dal Re d’Italia con il titolo di Duca di
Gaeta.
Evidentemente l’ideologia
ha sostituito l’identità del popolo non solo con la violenza, ma
tacendo una parte sostanziale della storia che non aveva diritto di
esistere, dal momento che non era prevista nei piani delle strutture
centraliste, burocratiche e amministrative che hanno guidato l’unità. Un
progetto che al Sud arrivò con il prefetto di polizia, il capo dei
carabinieri e la tassa sul macinato (il cibo dei ricchi!). Senza
dimenticare la coscrizione obbligatoria che, come spesso avviene in
Italia per i meccanismi a sorteggio, penalizzò i figli dei poveri e mai i
figli dei ricchi.
Tuttavia la Chiesa in questi frangenti
non si è tirata indietro e, diversamente da quanto spesso si sostiene,
non si è posta in termini reazionari contro la novità dello Stato
italiano, ma, anche se condannando duramente la modalità con cui era
stata realizzata l’unità, non ha mancato di assumersi pienamente le
proprie responsabilità, svolgendo un ruolo decisivo attraverso le sue
articolazioni (le parrocchie, le confraternite, le opere sociali ed
educative) e attraverso lo sviluppo del Magistero sociale, custodendo la
cultura del popolo italiano e contribuendo in maniera decisiva a
sviluppare una società più democratica. La Chiesa cattolica, pur
additando sin dall’inizio i limiti gravissimi di questa operazione
ideologica, non ha mai trascurato l’educazione. Tant’è che nel fondo del
cuore di ogni cattolico e del cuore delle famiglie cristiane essa ha
proseguito la sua azione. È proprio grazie all’opera educativa della
Chiesa – consentitemi questa affermazione ardita ma rispondente al vero –
che il popolo ha sopportato il susseguirsi delle ideologie, senza mai
che il suo cuore ne rimanesse totalmente manipolato: né una certa
costruzione dello Stato unitario, né il fascismo, né l’azionismo o il
marxismo vi sono riusciti. Ecco perché ha saputo affrontare le
condizioni sociali e politiche avverse con molta dignità e capacità di
sacrificio.
Chi ha educato
centinaia di migliaia di soldati cristiani a essere uomini e a morire
sui campi di battaglia in guerre pienamente assurde come la Prima guerra
mondiale? Chi ha insegnato loro a servire la patria anche per una causa
non condivisa? La risposta è semplice: i parroci e quei cappellani che
gli sono rimasti accanto e sono morti al loro fianco. L’esempio più
chiaro in tal senso è quello del beato don Gnocchi, che ha vissuto in
prima linea la terribile tragedia della spedizione italiana in Russia
durante la Seconda guerra mondiale. Il fatto è che in tutta la storia
umana non si trova una struttura più realista della Chiesa. Essa
continua ad educare i propri figli perfino nelle avversità.
L’esistenza
di una certa componente ideologica, già tendenzialmente totalitaria,
che negava la cultura popolare di allora radicata da secoli nei princìpi
del cattolicesimo, determinante nella concezione di Stato sorto a
completamento del processo risorgimentale, è un aspetto importante da
tenere presente anche perché, nel lungo periodo di questi 150 anni, le
ideologie di allora si sono diffuse nel popolo e hanno costituito
culture alternative a quella cristiana. (...)
Ma che cosa può fare la Chiesa affinché la sua identità non sia ridotta soltanto a memoria del passato o denigrata come il male assoluto? Deve, oggi come allora, educare i suoi figli a portare nell’esistenza la testimonianza di Cristo – Via, Verità e Vita. Incontrerà così molti più uomini di quanto si possa credere. Incontrerà anche quegli uomini di buona volontà ancora in attesa di un annunzio chiaro, di una certezza e di un’affezione che li accompagni nella solitudine delle masse tele-manipolate. Non so – storicamente parlando – se la Chiesa italiana sarà capace di assumersi fino in fondo questa responsabilità. So, tuttavia, che laddove un Pastore e una comunità ecclesiale riescono a farlo, si genera una società sana, che lentamente cresce ben al di là dei propri limiti.
Ma che cosa può fare la Chiesa affinché la sua identità non sia ridotta soltanto a memoria del passato o denigrata come il male assoluto? Deve, oggi come allora, educare i suoi figli a portare nell’esistenza la testimonianza di Cristo – Via, Verità e Vita. Incontrerà così molti più uomini di quanto si possa credere. Incontrerà anche quegli uomini di buona volontà ancora in attesa di un annunzio chiaro, di una certezza e di un’affezione che li accompagni nella solitudine delle masse tele-manipolate. Non so – storicamente parlando – se la Chiesa italiana sarà capace di assumersi fino in fondo questa responsabilità. So, tuttavia, che laddove un Pastore e una comunità ecclesiale riescono a farlo, si genera una società sana, che lentamente cresce ben al di là dei propri limiti.
Per il resto è compito di chiunque riceva questa educazione portarla lietamente nel mondo come la cultura della vita e la cultura di un popolo che sa da dove viene e qual è il senso della sua esistenza. L’unica alternativa – ha affermato Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae – è la cultura della morte: in effetti tra l’umanità dei figli di Dio e coloro che non hanno conosciuto il Mistero (sant’Ambrogio diceva che non sarebbe nemmeno valsa la pena di nascere, se non fosse per essere stati salvati dal Mistero di Cristo) non esistono vie di mezzo.
Postato da: giacabi a 21:14 |
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negri, risorgimento
Il risorgimento ha distrutto
la parte migliore dell'Italia
la parte migliore dell'Italia
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Postato da: giacabi a 12:46 |
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risorgimento
Postato da: giacabi a 07:29 |
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risorgimento
Postato da: giacabi a 08:51 |
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negri, risorgimento
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
A S.E. L'ONOREVOLE GIORGIO NAPOLITANO,
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA,
IN OCCASIONE DEI 150 ANNI DELL’UNITÀ POLITICA D’ITALIA
A S.E. L'ONOREVOLE GIORGIO NAPOLITANO,
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA,
IN OCCASIONE DEI 150 ANNI DELL’UNITÀ POLITICA D’ITALIA
Illustrissimo Signore
On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana
Il
150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la
felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la
cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede
del Successore dell’Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e
all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di
parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di
collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie
considerazioni.On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana
Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a “fare gli italiani”, cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: “cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa”.
La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di “Questione Romana”, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale “Conciliazione”, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto. Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il “non expedit”, rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della “Questione Romana” attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: “Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai”.
L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema “Costituzione e Costituente”. Da lì prese l'avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella “grande preghiera per l’Italia” indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come “strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria”. Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo “la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune”. L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, “anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane” (Cost. Gaudium et spes, 76). L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella “promozione dell’uomo e del bene del Paese” che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come afferma il Concilio Vaticano II: “chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni” (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla “questione romana”, giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011
Postato da: giacabi a 08:30 |
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benedettoxvi, risorgimento
Risorgimento
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Da
un po’ di anni a questa parte, però, il Risorgimento italiano con i
suoi eroi è stato smontato pezzo per pezzo e del mito, che sopravvive
ancora nei libri di storia propinati agli ignari studenti italiani dalle
scuole elementari fino all’Università, sono rimaste solo pagine
ingloriose, che raccontano una storia fatta di corruzioni, menzogne e
violenze.
Piazza Cavour, corso Vittorio Emanuele II, Via Garibaldi, Largo
Risorgimento e viale Unità d’Italia. Non c’è città e paese d’Italia la
cui toponomastica non celebri questi personaggi e questi avvenimenti. Si
tratterebbe, dunque, di individui e fatti degni di essere ricordati ed
apprezzati da tutti.
A nessuno salterebbe in mente, infatti, di intitolare una strada ad
Adolf Hitler o alla “Pulizia etnica” dei tempi più recenti. Da un po’ di
anni a questa parte, però, il Risorgimento italiano con i suoi eroi è
stato smontato pezzo per pezzo e del mito, che sopravvive ancora nei
libri di storia propinati agli ignari studenti italiani dalle scuole
elementari fino all’Università, sono rimaste solo pagine ingloriose, che
raccontano una storia fatta di corruzioni, menzogne e violenze.
Le violenze, efferate e di vario genere, furono commesse soprattutto
con la conquista del Sud, l’invasione del Regno delle due Sicilie, da
parte dapprima dei “Mille” garibaldini e poi delle truppe del Regno di
Sardegna che, senza che nessuno degli Italiani lo avesse chiesto, si era
assunto il compito di unificare la penisola, divisa in vari stati
legittimamente governati dai propri sovrani, in un’unica entità
politica. Poiché i meridionali non ne vollero sapere di appartenere al
nuovo Regno, si reagì con una carneficina, definita dai conquistatori
“repressione del brigantaggio”.
Fu
una guerra civile, una specie di resistenza partigiana, condotta da ex
ufficiali del Regno borbonico, rimasti fedeli al loro Re, e dai contadini meridionali che avevano imparato a conoscere il nuovo Stato soprattutto per tre motivi: imponeva la leva obbligatoria,
che il governo di prima non aveva mai introdotto, sottraendo per anni
forze giovani al lavoro dei campi, fonte della loro sussistenza; inviava gli esattori delle tasse per svuotare le tasche della gente e cercare così di coprire il deficit del Regno di Sardegna, indebitatosi fino all’osso per le “guerre d’indipendenza”; arrestava i sacerdoti e proibiva le processioni, ferendo profondamente l’idendità religiosa della popolazione meridionale. Chi erano questi “briganti”?
La risposta la diede, già nel 1863, due anni dopo la proclamazione del
Regno d’Italia, un parlamentare inglese, Disraeli, che alla Camera dei
Comuni, dichiarò: “Desidero sapere in base a quale principio discutiamo
sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso discutere su quelle
del Meridione italiano. È vero che in un Paese gl’insorti sono chiamati
briganti e nell’altro patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito
alcun’altra differenza tra i due movimenti”. Questi patrioti furono
sterminati con un eccezionale impiego di forze e di mezzi. Metà
dell’esercito piemontese fu spedito al Sud, sotto il comando del
generale Cialdini, che, pochi mesi dopo l’avvio delle operazioni
militari, informava i suoi superiori dei risultati ottenuti, solo nel
Napoletano: “8.968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604
feriti; 7.112 prigionieri; 918 case bruciate; 6 paesi interamente arsi;
2.905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13.629 deportati;
1.428 comuni posti in stato d'assedio”.
Cifre destinate ad aumentare vertiginosamente. Quando
la guerra civile finì con la sconfitta militare dei legittimisti, la
popolazione meridionale reagì in un altro modo. Fuggì. Emigrò in
America: tra il 1876 e il 1914 se ne andarono ben 14 milioni di
italiani. Niente male come adesione a quell’ideale risorgimentale
sbandierato dai Savoia! La violenza fu tanto più ingiustificata perché
condotta contro un regno florido e ben amministrato. Tredici anni fa,
Michele Topa, ha ricordato, in un suo volume, quale fosse l’arretratezza
del Regno delle due Sicilie: “Il miracolo economico del Sud Italia fu
elogiato nel Parlamento inglese da lord Peel. L'industria era
all'avanguardia, con il complesso siderurgico di Pietrarsa, che
riforniva buona parte d'Europa, e il cui fatturato era dieci volte
rispetto all'Ansaldo di Sampierdarena.
Oltre al primo bacino di carenaggio d'Europa, Napoli ebbe la prima
ferrovia d'Italia. I prodotti come la pasta e i guanti erano esportati
in tutto il mondo. Prima del crollo, il Regno delle Due Sicilie aveva il
doppio della moneta di tutti gli Stati della Penisola messi insieme.
Sono significative alcune cifre del primo censimento del Regno d'Italia:
nel Nord, per 13 milioni di cittadini, c'erano 7.087 medici; nel Sud,
per 9 milioni di abitanti, i medici erano 9.390. Nelle province rette da
Napoli gli occupati nell'industria erano 1.189.582. In Piemonte e
Liguria 345.563. In Lombardia 465.003”.
Non solo violenza, ma anche tanta corruzione. Nascosti nei polverosi
archivi dell’esercito italiano giacciono le carte del diario di un
emissario di Cavour, Persano, il quale aveva un preciso incarico:
corrompere il maggior numero di ufficiali e funzionari del Sud. Ecco che
cosa si può leggere in questo diario, non del tutto edificante per chi
crede ancora alla favola dei garibaldini: "Ho dovuto, Eccellenza,
somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al
console Fasciotti, giusto invito del marchese di Villamarina, e
quattromila al comitato.
Mi toccò contrastare col Devincenzi, presente il marchese di
Villamarina; egli chiedeva più di ventimila ducati; ed io non volevo
neanche dargliene tanti". Le menzogne poi hanno avuto un ruolo indegno
nella storia del Risorgimento. Un esempio, tra tanti. Parma aveva un suo
stato, un ducato, piccolo ma legittimo, secondo il diritto
internazionale. Fu inghiottita dalla cupidigia dei rivoluzionari calati
dal Piemonte. Ad unificazione avvenuta, Anviti, un ufficiale del Ducato
di Parma, fu riconosciuto e trucidato da alcuni criminali, fatti uscire
dal carcere per ordine del commissario regio, Farini. Quando l’ispettore
di polizia, tale Curletti, chiese se dovesse intervenire per arrestare
lo sventurato ufficiale, giunto in incognito, ricevette questa risposta
da Farini, futuro Primo ministro del Regno d’Italia: “Noi non possiamo
toccarlo, senza che sorgano clamori. Sarebbe mestieri che la popolazione
si addossasse l’affare. Voi mi avete compreso”.
La versione ufficiale fu naturalmente diversa: Anviti era stato
eliminato dalla gente stanca del precedente governo e desiderosa di
unirsi al Piemonte. Del resto, anche altre menzogne di Farini sono state
smascherate da una giovane studiosa italiana, Angela Pellicciari:
“Impossessatosi di tutte le chiavi del castello [di Modena] ritiene
superfluo fare l’inventario dei beni e palazzo d’Este è sottoposto ad un
vero e proprio saccheggio. L’argenteria, fatta fondere, è trasformata
in lingotti e persino gli abiti della Duchessa sono adattati alle misure
della signora Farini e figlia. Il compito di Curletti? Raccontare alla
stampa che il Duca, fuggendo, ha «menato seco tutta l’argenteria e tutti
gli oggetti di qualche valore, lasciando vuote financo le cantine»”.
La menzogna più grande, però, che grava come ombra sinistra sul
Risorgimento italiano è un’altra: esso fu promosso non per perseguire i
“nobili” ideali di unità del Paese ed indipendenza dall’Austria, che non
importavano a nessuno, ma per altri motivi, tra cui la distruzione del
Cattolicesimo. Tra i primi promotori dei “moti risorgimentali” ci sono i
ben noti carbonari. Ed ecco un passaggio di un’istruzione consegnata da
tale Felice ad un altro affiliato, Nubio, l’11 giugno 1829:
"L’indipendenza e l’unità d’Italia sono chimere. Pure queste chimere
producono un certo effetto sopra le masse e sopra la bollente gioventù.
Noi, caro Nubio, noi sappiamo quello che valgono questi principii. Sono
palloni vuoti.
Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della rivoluzione
francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicesimo e perfino
dell’idea cristiana”. Del resto, il Risorgimento fu costellato di
arresti di religiosi e Vescovi, arbitrarie ed arroganti confische dei
beni ecclesiastici e, dulcis in fundo, della “presa di Porta Pia”,
quando il Papa fu espropriato del suo territorio e ridotto a prigioniero
del Vaticano. Degna conclusione di quel Risorgimento che annovera tra i
suoi eroi un certo Giuseppe Garibaldi che definiva il Papa “metro cubo
di letame” e che “eroe” dei “due mondi” lo fu davvero: dall’America
latina all’Asia navigava per dedicarsi ad un’attività da lui amata
perché lucrosamente redditizia, il commercio degli schiavi. Peccato che
non sia poi così eroica come non eroico è stato tutto il Risorgimento,
una storia di violenze, corruzione e menzogne, che attende di essere
riscritta sui libri di storia.
Link utili:http://www.dimensioni.org
(Quaderni Cannibali) Aprile 2010 - autore: Roberto Spataro
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risorgimento
150 ANNI/ Con buona pace di Cavour,
è il Papa che unisce l’Italia.
Parola di Dostoevskij
***
mercoledì 5 maggio 2010
La
domanda è semplice. Perché la Chiesa, in particolare la Chiesa italiana
(anche se i puristi direbbero “la Chiesa che è in Italia”) adesso è la
più forte sostenitrice dell’unità di questo Paese, quando a suo tempo la
visse come un sopruso? È impazzita? Ha cambiato la sua essenza e il suo
giudizio? Lo fa per convenienza? O per che altro?
C’è una risposta che discende dall’amore per il popolo, per la sua ricchezza. Provo ad analizzare. L’unità d’Italia fu cercata certo in nome - da parte di molti, anche da
intellettuali cattolici - dell’amore per il suo destino, perché non
fosse più in balia dello straniero. Ma la mossa politica e ideologica fu
a partire da un disegno illuministico e massonico, tale per cui il
popolo in grande maggioranza cattolico andava emancipato dal suo
attaccamento a ciò che ostacolava un nuovo ordine, comandato da
interessi finanziari di sottomissione della povera gente, e per
strappare Dio dalla vita pubblica consegnandolo ad una sfera privata,
senza peso nel costruire la società. E ostacolo a questo era il papato.
Una chiesa fatta di carne, di iniziativa sociale costruita al di fuori
del controllo dei poteri forti. I libri cosiddetti revisionisti
ricordano come furono incarcerati vescovi e sacerdoti solo perché non
agitarono il turibolo al nuovo Dio che era lo Stato. Il
Papa fu fatto prigioniero in casa sua. I beni della Chiesa erano in
realtà i beni del popolo. Furono confiscati e rivenduti, impoverendo in
particolare il nostro Sud, da cui fu drenato il risparmio intero della
Sicilia e del mezzogiorno. Il modello era quello napoleonico. Lo Stato
come fonte di ogni diritto. La Chiesa invece, essendo contro il
liberalismo che arricchiva i lupi, stava a favore della libertà.
Estremizzo,
ovvio. Ma va detto. C’era Dio in prigione, come si faceva a stare dalla
parte del suo aguzzino? La Chiesa - e in particolare Pio XI - ha
ottenuto alla fine quel che voleva: con il Concordato e soprattutto i
Patti Lateranensi poté avere un minimo territorio (a lui bastava un
metro quadrato) che fosse sottratto alla potestà temporale, con la
facoltà di imbavagliarlo.
Il
tempo passa. La storia si sviluppa. Il popolo - dopo le due grandi
guerre - si è trovato dinanzi alla possibilità di dar forma democratica
ai suoi ideali. Si è generata una solidarietà. Un sentimento patrio,
l’idea di una comunanza basata proprio sul suo sentimento profondo
cristiano. È stato questa percezione di sé a permettere la
ricostruzione.
Di
queste cose ho molto discusso con un grande cattolico liberale e
statista: Francesco Cossiga. Mi disse una volta: «Mi interessa l’Italia.
Le volte che ho detto “Viva-l’Italia-Viva-la-Repubblica!” sono state
tante. E ho sempre pensato allo Stato, a questo Stato, mentre lo dicevo.
Ma anche a qualche cosa di più forte e intimo. All’Italia
che senza questo Stato ora non ci sarebbe, eppure è più grande dello
Stato. Ha un destino spirituale unico. C’è in questa Patria nostra, nei
popoli che la costituiscono, un compito universale.
Papa Giovanni Paolo II non ha mai compreso questa stranezza italiana.
Questa frammentazione di popoli e la Chiesa che amava così tanto
l’Italia da non desiderare l’unità nazionale. Un giorno, si decise a
chiedermelo. “Senta, lei mi deve spiegare: come mai la Chiesa italiana
era contro l’unità nazionale?” Per un polacco era inconcepibile. Io
risposi: “Santo
Padre, il giorno che Antonio Rosmini verrà fatto beato sarà una cosa
molto più importante della conciliazione tra la Santa Sede e lo Stato
italiano, perché sarà la conciliazione tra la nazione italiana e la
Chiesa italiana”. Perché Rosmini aveva in mente un’Italia che fosse
insieme Stato e la Chiesa non fosse libera “in” esso. Ma libera “con” lo
Stato. Così come il popolo non era da lui fatto coincidere con lo
Stato. È stato fatto beato Rosmini. La Chiesa ora riconosce pienamente
l’Italia, si è riconciliata anche simbolicamente con la nazione
italiana». Fin qui Cossiga.
Da
parte mia sto con Fëdor Dostoevskij, citato dal cardinal Giacomo Biffi.
Ricordo che Joseph Ratzinger ha definito questo meraviglioso genio
russo come “il più grande letterato cristiano del XIX secolo”. E non era
certo papista, da slavofilo ortodosso.
In una sua pagina tratta dal Diario di uno scrittore
scrive: “L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e
anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il
suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro e che
cosa vedete? Per
duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di
riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione
di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita
della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto
il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli
cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia
comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non
lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte,
tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale.
Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata,
stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa ha ottenuto
al suo posto? (…) è sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha
perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto
della sua unità, che non significa assolutamente nulla, un’unità
meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e
per di più pieno di debiti e soprattutto soddisfatto di essere un regno
di second’ordine. Ecco la creazione del conte di Cavour”.
Io
credo che l’Italia debba ricordarsi di essere questa intensità unica al
mondo. Essere piccoli rispetto a tanti numeri, ma coscienti di essere
il luogo dove il particolare può diventare universale: nell’arte, nella
scienza, anche nella visione politica.
Continua a irrorare ogni italiano, credente o ateo, di questo spirito universale. Qualche idiota vorrebbe strappare questo segno dall’Italia. Invece è questa presenza che può renderci unici, alla maniera intuita da Dostoevskij. Anche quando il Papa è polacco o tedesco, il Papato è italiano in essenza e per saecula saeculorum. Ed incarna e diffonde quell’idea e quella pratica di universalità, di cuore grande, di mente che non si ferma a Chiasso o a Capo Passero, ma come Ulisse che era di una piccolissima isola, però andava al largo, era mosso da qualcosa di impalpabile per cui gli batteva il petto: così noi. Ulisse voleva tornare a casa, ma non resisteva al desiderio più forte della volontà di prendere vento, e andare, andare come dei pazzi, come Cristoforo Colombo, come Amerigo Vespucci. Come Dante negli inferi e in cielo. Pensando allo Stato, a questo Stato, che oggi ha bisogno dell’unità, dentro una forma federale, ma conservando insieme unità e slancio universale. Per questo sentiamo l’appello del cardinale Angelo Bagnasco all’unità d’Italia come la cosa più bella sentita di questi tempi sul nostro Paese e sul suo futuro.
Continua a irrorare ogni italiano, credente o ateo, di questo spirito universale. Qualche idiota vorrebbe strappare questo segno dall’Italia. Invece è questa presenza che può renderci unici, alla maniera intuita da Dostoevskij. Anche quando il Papa è polacco o tedesco, il Papato è italiano in essenza e per saecula saeculorum. Ed incarna e diffonde quell’idea e quella pratica di universalità, di cuore grande, di mente che non si ferma a Chiasso o a Capo Passero, ma come Ulisse che era di una piccolissima isola, però andava al largo, era mosso da qualcosa di impalpabile per cui gli batteva il petto: così noi. Ulisse voleva tornare a casa, ma non resisteva al desiderio più forte della volontà di prendere vento, e andare, andare come dei pazzi, come Cristoforo Colombo, come Amerigo Vespucci. Come Dante negli inferi e in cielo. Pensando allo Stato, a questo Stato, che oggi ha bisogno dell’unità, dentro una forma federale, ma conservando insieme unità e slancio universale. Per questo sentiamo l’appello del cardinale Angelo Bagnasco all’unità d’Italia come la cosa più bella sentita di questi tempi sul nostro Paese e sul suo futuro.
Postato da: giacabi a 18:00 |
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risorgimento
Come é nata l'Unità d'Italia
***
Per approfondire da quale pensiero è nata e come, all’insaputa di molti, agisce ancora nella nostra coscienza delle cose e della realtà, abbiamo raccolto una serie di articoli e video molto interessanti.
SamizdatOnLine
L’unità d’Italia
* video : "Il Regno dei Borboni, palestra pedagogica e scuola d’eccellenza" - prof. Giuseppe Fioravanti
* video: "Il Risorgimento da riscrivere" - prof. Anna Pellicciari
* Garibaldi storico - Francesco Agnoli
* Ripensare il giudizio storico sul Risorgimento - Roberto de Mattei
* video: Don Bosco e l'emergenza socio-educativa nel periodo risorgimentale per la formazione di onesti cittadini e buoni cristiani - prof. Aldo Giraudo - Centro Studi Civinatovesi
* Come cercar di fare una guerra - Camillo Benso Conte di Cavour - Paolo Mencacci
* Plebisciti: solo una bella parola - Angela Pellicciari
* Risorgimento: Un' indagine sulla soppressione degli ordini religiosi - Roberto Cavallo
* A 150 anni dalla malaunità - Francesco Agnoli
* La favola di Porta Pia s’infrange sui dati della storia - don Maurizio Ceriani
* L’oscurantismo borbonico che non c’era - Angela Pellicciari
* Risorgimento e Resistenza, due nodi della storia italiana - Marco Invernizzi
* Unità intorno alla bellezza e non ai miti - Davide Rondoni
* L'Italia è ormai uno stato, ma l'Unità d'Italia non si fa così - Renato Farina
curato da Vietatoparlare socio di SamizdatOnLine
Postato da: giacabi a 19:47 |
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risorgimento
Il Vescovo e il Presidente
***
Data: Mercoledì, 02 novembre @ W. Europe Standard Time***
Argomento: Risorgimento
di Oscar Sanguinetti
Un coraggioso vescovo della Chiesa cattolica scrive al Presidente della Repubblica. Per ricordargli che Garibaldi non è un eroe e che il Risorgimento va riscritto. Solo così è possibile una rivincita morale, civile e religiosa per la nostra Italia.
[Da "Il Timone" n. 18, Marzo/Aprile 2002]
Che cosa può aver indotto mons. Andrea Gemma, figlio di don Orione e vescovo di lsernia-Venafro, al vero e proprio outing che vedete riprodotto nel box della pagina a fianco? Certo, le esternazioni oggi sono di moda e potrebbe sembrare che neppure un vescovo riesca a farne a meno. Ma in genere si tratta di esternazioni dì segno opposto. E anche assai meno ardite, se si pensa che il destinatario della lettera di mons. Gemma è nientemeno che il Capo dello Stato. E il fatto è ancor più eclatante perché è la prima volta che un personaggio non di secondo piano, un’autorità ecclesiastica per di più, prende posizione - e in termini certo poco "politicamente corretti" - su un tema di carattere civile così delicato come quello dell’identità italiana, strettamente legato al progetto del presidente Ciampi intenzionato a ravvivare il sentimento di patria fra gl’italiani.
Come lo stesso presule afferma, a far scattare in lui la molla della reazione è stato rilevare che gli appelli presidenziali all’unità della nazione si fondano su una versione ideologica della storia nazionale, la quale per la gente del Mezzogiorno è non solo logora e urtante ripetizione di luoghi comuni, ma suona per non pochi tratti ingiusta, se non addirittura ingiuriosa.
Non è una novità che per larga parte del Sud il Risorgimento è coinciso con una drammatica conquista militare, che inizia con le invasioni napoleoniche, continua con la spedizione garibaldina e con l’invasione sabauda e si conclude con la repressione del cosiddetto "brigantaggio post-unitario". Una conquista cui i meridionali - e non solo loro - hanno in ogni frangente opposto una fiera resistenza, prima nell’insorgenza anti-francese e anti-giacobina, che infiamma il Mezzogiorno praticamente senza interruzione dal 1798 al 1815, e poi con la guerra del 1860 e la lotta legittimistica e anti-unitaria del 1860-1865. Il Molise è tra le terre dell’ex Regno di Napoli dove la reazione popolare è stata più veemente e i lutti più numerosi. Isernia in particolare è nota per aver opposto nel gennaio 1799 una strenua resistenza contro i francesi del generale Guillaume Dubesme, i quali la espugnarono e la saccheggiarono, provocando - il dato è di Niccolò Rodolico - almeno millecinquecento morti.
All’inizio di ottobre del 1860, mentre le truppe regie stanno arroccandosi sul Volturno lasciando così sguarnite le città non ancora conquistate, Isernia è devastata da reparti di garibaldini, mandati da Napoli - dove si è già insediato l’Eroe dei Due Mondi - per fronteggiare l’agitazione legittimistica divampata nel vuoto di potere. Una temporanea avanzata di contingenti regi da sud riporta però la città sotto la bandiera del re e rianima i lealisti. Per parare la minaccia di una saldatura fra insorgenza popolare e armi borboniche viene dislocato in Molise un nuovo corpo di garibaldini al comando di Francesco Nullo, eroe della conquista della Sicilia. Ma Nullo il 17 ottobre viene duramente battuto vicino a Isernia da reparti borbonici guidati dal maggiore Achille de Liguori, affiancati da migliaia di contadini insorti, i quali, uomini e donne fianco a fianco, assalgono i volontari dispersi e ne fanno giustizia sommaria all’arma bianca. É in questo contesto che maturano le violenze - gli "scheletri ripugnanti" - cui accenna mons. Gemma.
Se l’episodio conferma senz’altro che la vulgata ideologica di una parte della nostra storia non è ormai più sopportata, almeno in certe parti d’Italia, e che gli sforzi della storiografia astiosamente definita "revisionistica" a qualcosa sono serviti, quello che più felicemente impressiona è il tour d’esprit di mons. Gemma. Lungi dalla rivendicazione puntigliosa e amara dei diritti violati - che pur occorre fare e che egli fa con vigore -, propone infatti di azzerare un contenzioso storico ormai plurisecolare e sterile fra Mezzogiorno e Stato italiano e di preoccuparsi invece di comune accordo di preparare un "abito" civile nuovo e migliore per l’Italia del terzo millennio, soprattutto per i giovani, rinunciando ciascuno a una parte delle proprie ragioni e assumendosi ognuno le sue responsabilità.
I popoli dell’antico Regno non dovranno rimettere in discussione - come mons. Gemma fa per primo - l’attuale Stato nazionale, anche se edificato ai danni di una monarchia millenaria e non di rado benefica per i suoi sudditi. L’altra parte, dal canto suo, dovrà smettere di reiterare, per inerzia o per malafede, oleografie sempre più povere di significato e soprattutto d’imporre omaggi civico-religiosi a personaggi come "l’avventuriero armato" la cui effigie troneggia in tutte le piazze della Penisola, quasi a perenne monito per i "vinti del Risorgimento". Censurare la memoria dei "vinti di ieri" e celebrare solo Napoleone, Garibaldi o il "Re galantuomo", dimenticando le migliaia di italiani del Sud, ma anche del Nord e del Centro, che dalla fine del 1700 all’Unità e oltre scelsero a caro prezzo di schierarsi contro i granatieri francesi e "italici", le brigate internazionali garibaldine e i bersaglieri e carabinieri sabaudi per esigere il rispetto dell’identità italiana di sempre, significa allontanarsi sempre più da quella "‘rivincita’ morale, civile, religiosa — che la nostra Italia merita" e che il vescovo d’Isernia - e io con lui - auspica.
Lettera aperta al signor Presidente
della Repubblica, dr. Azeglio Ciampi
Signor Presidente,
perdoni l’iniziativa, che so attuata anche da altri e ciò mi conferma nella necessità di levare la voce perché certi luoghi comuni, ormai diventati insopportabili, non continuino ad ingannare i semplici.
Partecipavo con gioia ed intima partecipazione alla "festa dell’unità d’Italia e delle forze armate" il 4 novembre scorso. Avevamo insieme pregato in Cattedrale - anche per Lei signor Presidente - e ci eravamo recati al monumento ai caduti in una mattinata piena di sole.
Tutto bello, tutto coralmente sentito, compreso l’inno nazionale d’Italia. Poi, la doccia fredda: il suo messaggio, signor Presidente. Alti pensieri, nobili richiami, doverosa partecipazione. In questo contesto tanto elevato, l’accenno al Risorgimento e, addirittura, a quel Garibaldi che, creda, ad Isernia, è tristemente famoso, insieme alle sue truppe mercenarie.
Ah, no, signor Presidente, quel richiamo a una storia, per fortuna quasi dimenticata, è stato proprio fuori luogo.
Creda - e glielo dice un pastore della Chiesa cattolica - nessuno di noi vuole tornare indietro di centocinquant’anni, se non altro per non riaprire le piaghe sanguinanti; nessuno di noi vuole ripristinare il regno di Napoli e la dinastia borbonica, dalla quale peraltro il Sud ha ricevuto grandi benefici; nessuno di noi vuole rimettere in piedi lo Stato pontificio, sottratto al legittimo sovrano, con guerra non dichiarata e quindi contro lo "ius gentium", plurisecolare; nessuno di noi vuole frazionare l’Italia (semmai ci penserà qualche porzione della nostra classe dirigente); ma nessuno ci potrà convincere della bellezza esaltante di un’azione che a suo tempo, tutta l’Europa, per non dire il mondo intero, ha stigmatizzato coralmente; nessuno potrà accettare l’accomodante esaltazione di un avventuriero armato che con le sue truppe mise a ferro e fuoco le pacifiche zone del Sud, tra cui la mia città episcopale. Le teste tagliate degli iserniani esposte al pubblico ludibrio sono su stampe e doenti dell’epoca che Ella stessa potrà reperire.
Nessuno di noi vuole rivangare il passato, signor Presidente, soprattutto un tale passato… Non lo può fare nemmeno Lei, travisando la storia. Su casi del genere gli antichi nostri avi dicevano saggiamente: "Parce sepultis!".
Per carità, signor Presidente, non ci costringa a tirar fuori dagli armadi del cosiddetto risorgimento certi scheletri ripugnanti…
Cerchiamo insieme di costruire un’Italia migliore, insieme ai nostri giovani, i quali conoscono la storia e guardano al futuro, senza ripristinare insopportabili travisamenti di una storia che ormai i più avveduti conoscono. Le suggerisco, al riguardo, la lettura di un simpatico libro di una giovane studiosa d’Italia: "Risorgimento da riscrivere".
E poi, appena sarà pronto, Le invierò, in omaggio per la sua segreteria, un libro che un mio presbitero ha scritto e per il quale ha già ottenuto un plauso internazionale.
Lasci stare il "risorgimento", signor Presidente e parliamo insieme di "rivincita" morale, civile, religiosa che la nostra Italia merita e di cui tutti, insieme, vogliamo essere artefici operosi, senza nostalgie per un passato non troppo antico, che ha assai poco da insegnarci.
Perdoni l’ardire, signor Presidente, ma non potevo tenermi dentro quanto qui Le ho semplicemente accennato. "Nessun silenzio comprato!" - è uno dei miei motti preferiti.
Con deferente ossequio, La saluto
Andrea Gemma,
vescovo di Isernia-Venafro
Postato da: giacabi a 09:24 |
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risorgimento
Chi fu veramente l’anticlericale Giuseppe Garibaldi?
***
Un fantoccio di Giuseppe Garibaldi
è stato recentemente bruciato nel Veneto. Il gesto è da condannare
senz’altro, ma crediamo sia frutto anche di una frustrazione derivante
dallo spietato revisionismo che diversi organi di stampa vogliono fare
su questo inquietante personaggio storico, descrivendolo come il
principe azzurro italiano, l’eroe e l’orgoglio della penisola. Per
decenni la sua figura è stata celebrata, osannata, sino a farne una
sorta di santo laico. Il poeta Carducci scrisse di lui: «Nacque da un antico dio della patria, mescolatosi in amore con una fata del settentrione» e il Times dopo la sua morte lo ricordò così: «il più sincero, il più disinteressato e il meno dubbioso degli uomini…» (più o meno l’elogio commovente che fece l’Unità alla morte di Stalin…cfr. Polyarchy.com). Lo storico Francesco Angoli su Libertà e Persona porta alla luce il profilo più nascosto dell’eroe nazionale. Ne preleviamo alcune parti.
1) PIRATA, SCHIAVISTA E LADRO. «Da giovane – scrive lo storico Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita” (Ares)- dopo
aver partecipato al tentativo mazziniano di invasione del Regno di
Sardegna, Garibaldi si mise dapprima a fare il pirata al seguito del bey
di Tunisi e poi fu costretto a fuggire in Sudamerica per non finire
impiccato. Quindi si coinvolse prima nel furto di cavalli in Perù (dove
gli vennero tagliati i padiglioni degli orecchi), e poi praticò la
pirateria per il commercio degli schiavi asiatici». Pirata, negriero e ladro. Conferme arrivano da altri storici, come L. Leoni, O. Calabrese, A. Pellicciari, e persino da un agiografo di Garibaldi come Giovanni Spadolini che ne accenna ne “Gli uomini che fecero l’Italia” (TEA 1999). Più esplicito lo storico del Risorgimento, Giorgio Candeloro, che, intervistato su “La Repubblica” del 20/1/1982, fornisce dettagli maggiori: «Comunque
Garibaldi, un po’ avventuriero, un po’ uomo d’azione, non era tipo da
lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perù, e, come
capitano di mare, prende un comando per dei viaggi in Cina. All’andata
trasportava guano, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano:
la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo
più nessuno. Insomma un lavoretto un po’ da negriero. Era un
avventuriero, un uomo contraddittorio, fantasioso, un personaggio da
romanzo».
2) NESSUN MERITO PERSONALE. Ma fu l’impresa dei Mille a riabilitarlo, si dice. Innazitutto, sottolinea Agnoli, «Garibaldi
non fu affatto il conquistatore straordinario di cui si è a lungo
parlato e che il mito della sua invincibilità fu creato ad arte ancora
prima che egli ritornasse, dall’America, in Italia. Nella sua spedizione
al sud, Garibaldi contò anzitutto sull’appoggio inglese, senza il quale
non avrebbe potuto far nulla». Lo conferma anche Gilberto Oneto nel suo “La strana unità”
(il Cerchio 2011): oltre ad una flotta inglese che seguì la spedizione
garibaldina, si coinvolse anche una legione di “volontari” inglesi,
senza contare l’importanza dei grandi finanziamenti ottenuti
dall’Inghilterra. Pier Giusto Jaeger, nel suo “L’Ultimo re di Napoli”
(Mondadori 1997), ricorda che Garibaldi non affrontò una sola battaglia
di consistenza vera, sino a quella del Volturno, dove ebbe l’appoggio,
oltre che degli inglesi, anche dei piemontesi guidati dall’ammiraglio
Persano, scesi dal nord più per evitare che le sue incerte e traballanti
conquiste sfumassero, che per impedire la sua marcia su Roma. E’
proprio Persano, nel suo “Diario”
(Studio Tesi 1990), a fornirci ulteriori testimonianze sulla corruzione e
il tradimento come i mezzi principali con cui il Nizzardo ottenne la
vittoria. Persano era stato inviato da Cavour in Meridione, come ricorda
Angela Pellicciari, proprio con lo scopo di «proteggere-tallonare-controllare
Garibaldi, organizzare l’invio di uomini e armi che affianchino i
Mille, corrompere i quadri della marina e dell’esercito borbonici» (“I panni sporchi dei Mille”,
Liberal 2003). Non dovette neppure affrontare una vera resistenza, dal
momento che il re Francesco II, cugino del sovrano sabaudo, era stato
convinto a lasciare il paese, rinunciando quindi ad una strenua difesa,
anche su consiglio del suo ministro dell’Interno, il traditore Liborio
Romano, al fine di evitare lo spargimento del sangue dei suoi sudditi.
3) LIBERO’ ERGASTOLANI ED ASSASSINI. La
vittoria di Garibaldi fu ottenuta anche grazie ai suoi proclami, in cui
prometteva libertà e terre. Sappiamo bene cosa ne ebbe il Meridione.
Come raccontano gli storici, Giovanni Verga, già garibaldino, nella novella “Libertà”, in cui descrive le stragi indiscriminate del luogotenente garibaldino Nino Bixio, e Luigi Pirandello, anch’egli di famiglia antiborbonica e risorgimentale, che però nella sua novella “L’altro figlio”,
fa dire ad una protagonista che Garibaldi asseriva sì di portare “la
libertà”, ma si limitò a liberare dalle carceri tutti i delinquenti e i
criminali, per destabilizzare il regno dei Borboni. Afferma la
protagonista della novella di Pirandello: «…vossignoria deve sapere
che questo Cunebardo (storpiatura popolare di Garibaldi, ndr) diede
ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i
paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per
le nostre campagne. I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie
selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena…». Scriverà qualche decennio più tardi un altro scrittore siciliano, Carlo Alianello, nel suo “La conquista del sud” (Il cerchio 1994): «Lo
stesso giorno 20 ottobre (1860) il Dittatore, il quale esiliava
vescovi, arcivescovi e cardinali, fece grazia a tutti i condannati
all’ergastolo e alla galera per delitti comuni. Garibaldi sbarazzava le
carceri di quei malfattori, per mettervi ufficiali, magistrati,
aristocratici, preti e frati. E così si faceva l’Italia».
4) DITTATORE ODIATO DAL MERIDIONE.
Le terre promesse da Garibaldi finirono non certo nelle mani dei
contadini, verso cui dimostrava disprezzo (li considerava “servi dei
preti”, perché non si associavano alle sue scalmanate camice rosse), ma
dello Stato piemontese, dell’aristocrazia e della borghesia fondiaria
meridionale, che capirono subito, come ci dice Tommasi di Lampedusa nel suo “Il gattopardo”,
che si poteva benissimo cambiare tutto, anche mettendo la camicia
rossa, senza cambiare nulla, o forse, guadagnandoci ancora di più
(Tommasi di Lampedusa accenna infatti allo spartizione, da parte dei
nuovi vincitori, delle terre comuni e di quelle della Chiesa, che sino
ad allora servivano invece, molto spesso, al sostentamento delle classi
più povere). Non è un caso che dopo la conquista della Sicilia,
Garibaldi abbia trovato più amici a Torino e a Londra che in Meridione.
Qui infatti, come testimonia Giuseppe La Farina,
braccio destro di Cavour nella organizzazione della spedizione dei
Mille, le cui lettere sono state pubblicate sempre da Angela Pellicciari
nel testo citato, Garibaldi e i suoi avventurieri si erano subito
rivelati per quello che erano: saccheggiatori di ogni ricchezza,
pubblica e privata, nelle orge e nel dispotismo. Lo stesso Garibaldi,
nelle sue “Memorie” (Bur 1998), affermava: «Si cominciò a
parlare di dittatura, ch’io accettai senza replica, poiché l’ho sempre
creduta la tavola di salvezza nei casi d’urgenza e nei grandi frangenti
in cui sogliono trovarsi i popoli». Dittatore, senza il sostegno
della popolazione, deciso ad imporre ovunque la legislazione piemontese e
la leva militare obbligatoria, dai 17 ai 50 anni, ad un popolo che non
la conosceva, e che non aveva nessuna intenzione di arruolarsi in massa
per guerre che non condivideva e non capiva. Questa è l’origine
dell’emigrazione di massa, fenomeno prima pressoché inesistente, le
rivolte contro l’occupazione piemontese, e i moti anti-sabaudi come
quello di Palermo (1866) repressi nel sangue dai prefetti e
dall’esercito piemontesi. Garibaldi sempre più spesso lanciava improperi
contro l’Italia che aveva contribuito a costruire, e di cui fu anche,
più volte, parlamentare ultra-assenteista. Dopo essere passato dalla
fede repubblicana mazziniana al ruolo di dittatore in Meridione alla
fede monarchica, per cambiare ancora, scriveva: “Potendolo, e
padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non
affidare la sua sorte a cinquecento dottori (cioè ad un parlamento,
ndr), che dopo averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina.
Invece, scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore
temporaneo…Il sistema dittatoriale durerà sinchè la Nazione sia più
educata a libertà… Allora la dittatura cederà il posto a regolare
governo repubblicano”. Come nota lo storico Mario Isnenghi,
infatti, proprio l’opposizione alla unificazione del Meridione al Regno
di Sardegna, che cominciò già nel 1860 e che va sotto il nome di
“brigantaggio”, «può considerarsi pressoché l’unica manifestazione
reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata, di
presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento». Fu Garibaldi stesso a riconoscere, in una lettera ad Adelaide Cairoli: «Gli
oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho
la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la
via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate,
essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio».
5) SUPERFICIALE E ROZZO. La popolarità dell’eroe dei due mondi sbiadì comuque presto, anche al di fuori del Meridione. Racconta un agiografo come Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi” (Laterza 2005), che molto presto per la storia dei Mille, narrata da Nizzardo stesso, «è difficile trovare un editore disposto a garantire le 30.000 lire richieste dall’autore».
Dovette scendere in campo la Massoneria. Negli ultimi vent’anni della
sua vita Garibaldi, per mantenere vivo il suo mito, si diede alla
scrittura. E’ proprio leggendo quest’ultimi, infatti, con la loro
“traballante macchina narrativa”, la “lutulenza alternata all’improvvisa
secchezza”, l’ “invadenza e la ripetitività degli squarci polemici”, il
“carattere macchiettistico dei personaggi”, le “filippiche
antigovernative e le prediche anticlericali” (in Mario Isnenghi, “Garibaldi fu ferito”
Donzelli 2007), che il lettore contemporaneo capisce di trovarsi di
fronte ad un personaggio imbarazzante, quasi una caricatura. Un
avventuriero senza alcuna profondità né di dottrina né di pensiero, ma
fanatico, ripetitivo ed intollerante, nel quale -scrisse il The Times di
quegli anni, «ha rozze nozioni di democrazia, comunismo, cosmopolitismo e positivismo che si mescolano nel suo cervello».
6) DONNAIOLO E PUTTANIERE. Strapazzò allegramente donne e figli – infatti ebbe «tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti che gli sfornano un bel po’ di figli», come nota Gilberto Oneto. Mentre Alfonso Scirocco
allude alle “facili occasioni” che “da vecchio marinaio” amava cogliere
con le donne, numerose, che incontrava nei suoi viaggi, e Luca Goldoni
dedica un intero libro alle sue numerose avventure, ribattezzandolo
“L’amante dei Due Mondi”-, con la stessa superficialità con cui aveva
combattuto e ucciso o con cui aveva elogiato gli omicidi carbonari come
quello di Pellegrino Rossi, che avevano contribuito ad impedire che
l’Italia conoscesse un’unificazione pacifica e federalista.
7) PERVERSO VERSO LA CHIESA. Dalla lettura degli scritti di Garibaldi, si evince anche il suo odio inverecondo e ossessivo per la Chiesa cattolica: «In
ogni mio scritto io ho sempre attaccato il pretismo, perché in esso ho
sempre creduto di trovare il puntello d’ogni dispotismo, d’ogni vizio,
d’ogni corruzione. Il prete è la personificazione della menzogna. Il
mentitore è ladro. Il ladro è assassino: e potrei trovare al prete una
serie di infimi corollari. Molta gente, ed io con questa, ci figuriamo
di poter sanare il mondo dalla lebbra pretina coll’istruzione…Quindi
libertà per i ladri, per gli assassini, le zanzare, le vipere, i preti! E
cotesta ultima nera genìa, gramigna contagiosa dell’umanità, cariatide
dei troni, puzzolenta ancora di carne umana bruciata, ove signoreggia la
tirannide, si siede tra i servi, e conta nella loro affamata turba. Amanti della pace, del diritto, della giustizia. La guerra es la verdadera vida del ombre!», scriveva nella prefazione delle sue “Memorie”
(Gaspari 2004). Nelle sue lettere definiva Pio IX «quel metro cubo di
letame», invitava a rompere i confessionali, «resi utili a far bollire i
maccheroni della povera gente», e a schiacciare il «verme sacerdotale».
Mario Isnenghi considera gli scritti di Garibaldi il modello che userà Mussolini nel suo romanzo anticlericale: “Claudia Particella, l’amante del cardinale”. Garibaldi conclude la sua opera parlando di se stesso: «Odia
i preti come istituzione menzognera e nociva… Professa idee di
tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li
accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri,
assassini. Egli è d’avviso che la libertà di un popolo consiste nella
facoltà di eleggersi il proprio governo, che secondo lui deve essere
dittatoriale, cioè di un uomo solo».
Postato da: giacabi a 20:22 |
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risorgimento
“Uniti per Dio, chi vincer ci può?”
L’inno d’Italia e la bandiera tricolore:
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Postato da: giacabi a 19:07 |
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risorgimento
LA VERA FACCIA DEL RISORGIMENTO!!
LA VERA FACCIA DEL RISORGIMENTO!!
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Postato da: giacabi a 12:10 |
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risorgimento
L’Italia, punti cardinali
Giacomo Biffi elogia la grandezza
degli italiani che i risorgimentali preferirono dimenticare
Il cardinale emerito di Bologna è uno dei rari uomini di chiesa dell’ultimo cinquantennio ad avere coltivato, sia come pastore sia come saggista, una riflessione complessiva sulla storia italiana e sul Risorgimento in particolare, offrendone un giudizio sempre equanime, pur senza negarsi le punzecchiature e le letture à rebours che rendono preziosa la sua lunga opera di “italiano cardinale”, come ha voluto lui stesso definirsi nella sua autobiografia. Biffi è dunque uno dei più accreditati per inquadrare in una prospettiva originale, ma equilibrata, il rapporto tra il cattolicesimo inteso come fattore costitutivo dell’identità italiana, e l’identità degli italiani come nazione. Proprio in un momento in cui il pensiero cattolico in materia sembra oscillare, sotto le tensione delle celebrazioni, tra il convinto “neoguelfismo” che aleggia sulle istituzioni e la crescita di un baldanzoso “neosanfedismo”, alimentato da tutte le nouvelle vague antiunitarie.
L’idea che guida invece Biffi è sintetizzata nella frase che si legge sulla quarta di copertina de suo ultimo libro, “L’unità d’Italia - Centocinquant’anni 1861-2011 - Contributo di un italiano cardinale a una rievocazione multiforme e problematica”, pubblicato dall’editore senese Cantagalli: “E’ vero che in qualche modo si era dato origine all’Italia politica; ma agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli”. Un saggio sintetico, un’ottantina di pagine come sempre godibilissime, dove sintetico va inteso nel significato più intelligente del termine: la capacità di Biffi di riportare la “multiforme e problematica” questione dell’Unità a un punto di vista che, non trascurando nessuno degli aspetti della realtà, sia ordinato a uno sguardo organico e non teorico. Che è poi quello della “realtà cattolica” nella storia d’Italia.
Per avere una visione che domini la materia, occorre scegliere il punto di osservazione giusto. Il punto di vista da cui parte Biffi per poter dare ragione del suo giudizio sugli italiani che “esistevano già da almeno sette secoli” (già questo un argomento controcorrente, in un clima poco celebrativo in cui una buona parte delle riflessioni gira attorno all’idea negativa che gli italiani, “l’identità italiana”, ancora oggi invece non esistano) è di spostare di qualche decennio all’indietro la data d’inizio del Risorgimento.
Nel 1796, la calata in Italia dei francesi della Rivoluzione. “Un’invasione di tipo nuovo”, scrive Biffi. Tra le “novità rimarchevoli”, c’è il fatto che si tratta per la prima volta di “un esercito di ladri”, prima di allora nessun conquistatore si era mai permesso “di derubarci delle nostre opere d’arte”. Ma, soprattutto, si trattava di “ladri forieri di una novità”, scrive Biffi: “Quell’esercito di ladri erano anche, per così dire, un esercito di ‘missionari’. Nascosto negli zaini di quei soldati entrò in Italia l’annuncio di un radicale capovolgimento delle regole di convivenza sociale… In quegli zaini era idealmente contenuto un asserto particolarmente significativo: ‘Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione’”. Commenta Biffi: “Non si fa fatica a immaginare quanto dovette apparire perturbante e innovativa questa inaudita concezione circa l’origine dell’autorità e del potere, e di conseguenza circa le condizioni del loro legittimo esercizio”.
Per Biffi è insomma la fine dell’Ancien Régime in Italia – da non confondere, e lui non la confonde, con la fine del potere temporale dei Papi – ciò che fonda le regole del nuovo gioco, il gioco del Risorgimento. Ma il fatto che la mossa d’avvio del processo unitario sia illuminista, costituisce la vera tara di partenza. Il successivo processo non potrà avvenire che su una base ideologica, e i risorgimentali saranno costretti, per farsi dare ragione dai fatti, a negare due dati importanti della storia. Primo, il fatto che l’unità nazionale degli italiani esistesse già. Significativamente, l’altra rasoiata del libro Biffi la riserva a una delle massime icone risorgimentali, Massimo d’Azeglio, la cui “universalmente lodata” sentenza sugli italiani ancora da fare “appare in tutta la superficialità e incongruenza storica”. Per dar corso al suo astratto punto di vista, era necessario affermare che per costruire la nuova Italia si dovesse distruggere quel che c’era. Esattamente ciò accadde con la distruzione dell’Ancien Régime in Francia, e con ogni altra rivoluzione dei secoli successivi.
L’altro errore è che, per giustificare questo stravolgimento del corpo vivo di una nazione, fu necessario ai risorgimentali obliterare gli ultimi due secoli della storia italiana, con una curiosa damnatio memoriae del Settecento che invece, esemplifica Biffi, fu l’ultimo secolo di splendore: “Fino allo sconquasso napoleonico si irradia ancora dall’Italia su tutti i popoli una luce ammirata di civiltà”: da Vienna, dove la lingua ufficiale della musica è l’italiano, a San Pietroburgo, costruita dal nulla da architetti italiani, dalla storiografia di Muratori alle scienze di Volta e Spallanzani. “Risorgimento”. Ma da quale morte presunta?
Quella di Biffi non è una difesa dell’antico potere né tantomeno del potere temporale, sul quale il giudizio storico della chiesa è del resto ormai sedimentato e condiviso. Tra l’altro, va notato che il suo non è un saggio sui rapporti tra chiesa e stato, né un testo apologetico, ma un laicissimo discorso sull’unità d’Italia. E’ invece il tentativo di argomentare, riconoscendo anche le cose buone che dall’unità statale sono venute, come la debolezza dell’intera operazione sia nata proprio da un malinteso ideologico: che gli italiani non ci fossero. O peggio, che ciò che ne aveva fin lì decretato la grandezza fosse ormai solo merce da buttare. Il corpo centrale del saggio è allora proprio un rapido excursus per dimostrare quel carattere italiano e la sua eccellenza pre-unitaria. Stavolta, per trovare il suo originale punto d’osservazione, Biffi ricorre a due citazioni straniere. Una di Dostoevskij, e una del grande filosofo ortodosso Vladimir Solov’ev. Scrive Dostoevskij nel 1877: “L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di un’unione generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei Papi. E il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa lo intuisce…
Ebbene, che cosa ha fatto il conte di Cavour? Un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito”. Ma è Solov’ev che nel 1895 scrive che “tra tutti i popoli europei il primo che raggiunse un’autocoscienza nazionale fu l’Italia”. E giustifica l’affermazione con un prezioso florilegio d’arte e di storia: “A simili condizioni il patriottismo non ha bisogno di essere difeso e giustificato: si giustifica da sé nei fatti, manifestandosi come forza creatrice e non come una riflessione infeconda o come il trasalimento di un pensiero ozioso”. Insomma l’Italia c’era. E commenta Biffi che, al paragone della visione di Solov’ev, “la prospettiva che ha animato il Risorgimento rivela una povertà impressionante e una sostanziale inadeguatezza; e la pessimistica descrizione desanctisiana della cultura e della vita italiana tra la fine del Rinascimento e l’inizio del Risorgimento – con tutta la sua ossessione anticontroriformistica – appare ideologicamente condizionata e del tutto unilaterale”.
Solo che questa gloriosa identità italiana, certo non solo cattolica, coincide largamente con quella che Biffi chiama “l’inculturazione italiana della fede cristiana”. “Le genti d’Italia – tutte le genti d’Italia – hanno attraversato i secoli nella certezza di provenire da un Dio, Creatore e Padre; sorrette da una speranza di una vita eterna, che va meritata nella vita terrena; con l’impegno a tentare di vivere come fratelli (senza troppo riuscirci) e a realizzare questo impegno nelle opere anche sociali di carità”.
Non si tratta, per Biffi, di un discorso rivendicativo per rimettere sotto una implausibile tutela morale l’Italia e gli italiani, contestando legittimità alla storia dello stato unitario. L’appassionato “italiano cardinale” ci tiene piuttosto, nell’analizzare l’atteggiamento che il movimento risorgimentale ha tenuto nei confronti della “realtà cattolica”, a sottolineare il peccato di presunzione e astrattezza di chi ha pensato di fare a meno di quel patrimonio, “un patrimonio che poteva essere posseduto talvolta in forma confusa e sottintesa”, ma “che ha segnato in modo decisivo la mentalità del nostro popolo”. E che ha dato i suoi frutti attraverso un “radicamento almeno implicito nelle menti, nei cuori, nelle coscienze”. E’ bello questo aggettivo, “implicito”, che il Biffi usa con la naturalezza di chi conosce in profondità il popolo cui appartiene, e dunque senza la necessità di doverci costruire sopra castelli politici o culturali. Ma poiché la sua “rievocazione” arriva giocoforza all’oggi, Biffi ci tiene a sbarazzare il campo dagli equivoci: “L’unificazione di centocinquant’anni fa è indubbiamente un valore”, scrive. Ma bisogna “superare quanto di negativo e di manchevole in essa si è stati costretti a rivelare”. Il che, per il cardinale ambrosiano che ha insegnato dalla cattedra di Petronio a Bologna, già seconda capitale dello Stato pontificio, corrisponde sostanzialmente al raggiungimento dell’autentica “laicità dello stato”, quella che garantisce la vera libertas ecclesiae nella cultura, nell’educazione e in ogni ambito della vita civile in cui alla chiesa sia possibile svolgere la funzione di educazione, implicita ma anche esplicita. In modo da non più dimenticare il ruolo svolto dalla “realtà cattolica” nell’edificazione della grande identità nazionale.
Postato da: giacabi a 09:49 |
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risorgimento
Meriti e limiti del Risorgimento
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Il Cardinale Giacomo Biffi spiega i benefici e i problemi dell’Unità d’Italiadi Antonio Gaspari
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie l'11 marzo 2011 Il Risorgimento fu positivo sotto molti aspetti. Anche l’Unità d’Italia apportò molti benefici, ma attenti alle esagerazioni, perché l’Italia era grande anche prima dell’Unità. Questo è quanto sostiene il Cardinale Giacomo Biffi nel libro “L’Unità d’Italia” appena pubblicato dalla Cantagalli.
In questo saggio di 88 pagine l’Arcivescovo emerito di Bologna, con la consueta arguzia, ricorda quanto gli eserciti francesi ‘liberatori’ siano stati dei ladri, non solo a Bologna, ma in tutte le città d’Italia.
“Prima di allora i nostri conquistatori austriaci o spagnoli – ha scritto il porporato - non si erano mai permessi di derubarci delle nostre opere d’arte”. Solo a Bologna “asportarono trentun dipinti dei più rinomati maestri (quali il Guercino, i Carracci, Guido Reni, Raffaello ecc.) e allo stesso modo si comportarono in tutte le altre città”.
Il Cardinale Biffi precisa che “per quel che se ne sa, nessuna voce di vergogna o di rammarico è giunta poi fino a noi dalla Francia per questo odioso comportamento”.
“L’esito del Risorgimento - scrive Biffi - fu indubbiamente positivo per molti aspetti”. Anche se “è costato sacrifici”.
L’Arcivescovo emerito di Bologna precisa poi come l’identità nazionale fosse già ben presente tra le genti che hanno popolato lo stivale. Già i poeti Giovanni Petrarca e Dante Alighieri parlavano, infatti, del Bel paese dove il “sì suona”. La grandezza letteraria, artistica, scientifica, religiosa e sociale dell’Italia esisteva ed era ben solida già prima del 1861.
A questo proposito il Cardinale Biffi riporta i commenti originalissimi e poco conosciuti di due grandi scrittori russi: Fëdor Michailovic(Dostoevskij e Vladimir Soloviev.
Dostoevskij scrisse infatti che “l’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour” e che, nonostante ciò, “anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è stato geniale, ha raggiunto il suo scopo ha fatto l’Unità d’Italia. Ma guardate più addentro e cosa vedete? L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di una unione generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei Papi”.
“E il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa lo intuisce – continuava –. La scienza e l’arte italiana sono piene di quella idea grande. Ebbene, che cosa ha fatto il conte di Cavour? un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito”.
Dal canto, Soloviev nell’Opravdanie dobra (La giustificazione del bene) elenca i contributi che l’Italia ha dato al mondo, tra cui “il primo europeo a penetrare in Mongolia e in Cina” e cioè “l’italiano Marco Polo. Un altro italiano scopre il Nuovo mondo (Cristoforo Colombo) e un terzo estendendo questa scoperta, gli lascia il proprio nome (Amerigo Vescpucci)”.
“L’influenza della letteratura italiana – aggiungeva Soloviev – resta predominante per diversi secoli; gli italiani vengono imitati nell’epica, nella lirica, nei romanzi; Shakespeare prende da loro i soggetti e la forma dei propri drammi e delle proprie commedie, (...) la lingua e i costumi italiani dominano dappertutto nelle sfere superiori della società”.
L’Arcivescovo emerito di Bologna sottolinea che l’identità nazionale dell'Italia non è frutto solo di ciò che è avvenuto nel XIX secolo e ricorda che “molti tra i frutti più nobili e preziosi maturati tra noi dallo spirito umano in tutti i campi (del pensiero, della poesie, dell’arte) portano incancellabili i segni della loro dipendenza dalla visione cristiana”.
Detto ciò il Cardinale Biffi afferma che l’unificazione “è indubbiamente un valore” che “non deve essere messa in pericolo né da ideologie senza apprezzabile fondamento né da particolarismi egoistici” e indica in almeno tre i “guadagni provvidenziali del Risorgimento”.
Il primo è quello di “aver definitivamente liberato l’Italia da ogni dominazione non italiana”; il secondo è quello di “aver radunato tutti gli italiani nella realtà politica di un solo Stato”; mentre “il terzo ‘guadagno’ rallegra in modo speciale i veri credenti ed è la scomparsa del potere temporale pontificio che nessun cattolico si sogna più di rimpiangere”.
Nelle conclusioni il Cardinale Biffi affronta anche il tema della immigrazione e della identità culturale italiana, affermando che “ai forestieri si fa spazio non demolendo la nostra casa, ma ampliandola e rendendola ospitale sì, ma nel rispetto della sua originaria architettura e della sua primitiva bellezza”.
Postato da: giacabi a 09:04 |
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dostoevskij, risorgimento
Garibaldi.
Un pò di sana storiografia contro
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tratto da: Il Domenicale, 7.7.2007 (anno V), n. 27, p. 5.Un pò di sana storiografia contro
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500 pagine di Luciano Salera raccontano l’altra faccia della medaglia. Il falso mito dei “Mille” (erano molti di più), le bugie sulle Due S...icilie, la doppiezza di Vittorio Emanuele
C'è, da un secolo e mezzo, una formidabile campagna promozionale della figura di Giuseppe Garibaldi: circa 20mila volumi, 155 epigrafi, centinaia e centinaia di migliaia tra versi, dipinti, stampe e calendari. Addirittura, per un cinquantennio, invasero l'Italia immaginette sacre che ritraevano lui, massone e antipapista, come un santo: cinto da un'aureola ha, davanti a sé, fucili e baionette al posto di ceri. Si censiscono peraltro, oltre ai "santini", pure il dipinto di un Garibaldi-Cristo e una serie di figurine Liebig, stampate nel cinquantesimo anniversario della spedizione dei Mille.
Ora, non si può distruggere un'immagine siffatta, così stabilmente costruita. Non si può, eppure ci provano. Incominciò, illo tempore, lo storico borbonico Giacinto De' Sivo con «Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861», che uscì nel 1868, preceduto da un pamphlet, «Un napoletano al signor Ricasoli», datato 16 settembre 1861 e seguito da altri scritti semiclandestini. Oggi, di «Storia delle Due Sicilie» - l'inizio di ogni sana opera di controinformazione - esiste una versione in italiano corrente pubblicata a Lecce nel 2004 dalle Edizioni del Grifo (tel. 0832/394346).
Ma la storiografia non politicamente corretta non si è fermata. Tranchant sin dal titolo è «Contro Garibaldi» di Gennaro De Crescenzo (Il Giglio, Napoli, tel. 081/666440). Ripercorre la vita dell'"eroe dei due mondi", da quando nell'America del Sud arrembava navi argentine per conto della Gran Bretagna, la quale mirava al monopolio commerciale. Per contratto, Garibaldi riceveva una parte dei bottini, secondo il costume corsaro, e i suoi marinai non disdegnarono nemmeno fattorie e mandrie. Come raccontano le Memorie del nizzardo, «saccheggiano, macellano e fanno a pezzi gli animali» come «fiere scatenate». Al tempo ne riferì anche il periodico «La gaceta mercantil».
E Anita? De Crescenzo ricorda lei e le altre. Garibaldi riconobbe otto figli e si sposò tre volte, ma mai con Anita, già maritata a un calzolaio. Il "grande amore" morì poi di malaria, quand'era incinta, diciamo un po' troppo rapidamente... Mah..
Più soft, ma non meno attente alle grossolanità paragiografiche sono le 500 pagine di Luciano Salera, «Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud» (Controcorrente, Napoli, tel.081/5520024). È la descrizione, quasi quotidiana e stilata in base ai documenti, della spedizione garibaldina salpata da Quarto. Si comincia con l'"audace colpo di mano" con cui le giubbe rosse s'impadronirono dei piroscafi della compagnia Rubattino che li avrebbero poi portati a Marsala. In verità fu tutta una finzione, giacché lo stesso direttore della compagnia, Giambattista Fauché, ne era stato informato. E pure "i Mille" sono fantasia: si trattò infatti di più di 20mila unità, tra cui alcune migliaia di soldati piemontesi, "disertori " o uomini tempestivamente "congedati" a cui presto si unirono inglesi, ungheresi, tedeschi e turchi desiderosi di passare alla storia o di fare fortuna. Garibaldi li descrisse come «di origine pessima e per lo più ladra e, tranne poche eccezioni, con origini genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».
Non meno artefatta è la versione ufficiale dell'atteggiamento di Vittorio Emanuele, che, da re del Piemonte, non poteva «resistere al grido di dolore che da ogni parte d'Italia si volge verso di Noi». Mentre ufficialmente sconsigliava Garibaldi di non oltrepassare lo stretto di Messina, in un foglietto a parte gli suggerì, o meglio gli ordinò, di rispondere picche, portando la scusa che «i suoi doveri verso l'Italia» non gli permettevano di non soccorrere i napoletani "incatenati" ai ceppi borbonici.
Ebbene, Gabriele Marzocco, nella prefazione a Salera, ricorda che quello delle Due Sicilie era il Paese più industrializzato d'Italia, il terzo in Europa, e godeva di alcuni primati. Sua è la prima nave a vapore a solcare il Mediterraneo, suo il primo ponte sospeso in ferro, quello sul Garigliano, nel continente europeo, suo il primo stabilimento metalmeccanico d'Italia per numero di operai (1050), quello di Pietrarsa.
Napoli ospitò pure il primo convegno scientifico internazionale, fu la prima città italiana a essere illuminata con lampade a gas, seconda in Europa solo a Londra e Parigi, ed ebbe la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, che sarebbe dovuta arrivare fino a Nocera, per collegare varie fortezze militari. Ma sui libri scolastici è ancora scritto che serviva ai reali e alla Corte per raggiungere le loro ville vesuviane.
Recentemente, a Napoli, un convegno di architetti, storici e politici, coordinati da Umberto Franzese, ha chiesto il restauro dei pochi resti dell'antica stazione ferroviaria: una parete in disfacimento, con una grata dietro la quale vi è la biglietteria. Sarà ben difficile ottenere il restauro, in una Napoli che sembra voler cancellare ogni traccia del proprio passato.
Si preferisce infatti il bla bla sulla città degradata, quella che però inizia a unità d'Italia avvenuta con l'alleanza tra governo e malavita locale, e che avanza a colpi di favoritismi e di remunerazioni verso coloro che si dicono patrioti, mentre per tanti altri, 5 milioni di persone, resta solo l'emigrazione forzata e addirittura il carcere o la morte in quanto "briganti".
Il nuovo governo unitario italiano favorì infatti ampiamente le imprese del Nord, costringendo molti nel Sud a chiudere i battenti. Un esempio importante è proprio l'impresa metalmeccanica di Pietrarsa, che non ebbe più commesse, date all'Ansaldo. Il Sud divenne insomma il mercato di consumo dei prodotti del Nord.
Del resto, lo stesso Benedetto Croce affermò: «Noi che non per nostro merito viviamo nella vita della nuova Italia [...] non possiamo più appassionarci per le imprese per mare e per terra del Ducato [...] noi non sentiamo la continuità storica [...] la Napoli che ancora ci scuote e ci esalta è quella dei suoi perseguitati o solitari filosofie e dei cosmopolitici idealisti della Rivoluzione del 1799, il cui sangue scorre ancora nelle vene della società moderna».
Postato da: giacabi a 20:06 |
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risorgimento
Il "Brigantaggio"
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«Questo, che voi chiamate con nome ingiurioso di Brigantaggio, non è che una vera reazione dell'oppresso contro l'oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l'iniquità. L'idea che muove cotesta reazione è l'idea politica, morale e religiosa della giustizia, della proprietà, della libertà». Rispondeva così, nel novembre del 1863, il padre gesuita Carlo Piccirillo sulle pagine di "Civiltà cattolica" all'inchiesta che il Parlamento italiano, su iniziativa di Giuseppe Massari, aveva ordinato per indagare sulle cause del brigantaggio nelle province meridionali da poco annesse al Piemonte liberale.
La Relazione Massari individua i motivi del fenomeno essenzialmente nell'ambito sociale ed economico. Riducendolo a un «semplice» problema di ordine pubblico le cui radici erano da ricercare nella povertà di quelle lontane regioni, nella corruzione diffusa e in una generale disposizione alla delinquenza dei suoi abitanti. Al contrario, per la rivista gesuita il brigantaggio, «una delle piaghe più cancrenose del preteso regno d'Italia», rappresentava la resistenza armata del popolo contro il nuovo ordine liberale, laicista e centralizzatore e contro un'invasione che lo spogliava della propria libertà, della ricchezza e dei legittimi sovrani. Per i padri gesuiti non ci sono dubbi: «La cagione del brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo governo».
Si trattava «del rifiuto del nuovo sistema di governo che in pochi anni ha immiserito la popolazione, ha imposto una fiscalità gravissima, ha fatto regredire le istituzioni educative, ha creato le condizioni per la concentrazione della proprietà in poche e spregiudicate mani», come scrive Giovanni Turco nell'introduzione al volume "Brigantaggio. Legittima difesa del sud" (editoriale Il Giglio, pagg. 168, lire 30mila). Un libro che raccoglie per la prima volta gli articoli dedicati da "Civiltà cattolica" tra il 1861 e il 1870, in piena «guerra di sterminio», al brigantaggio e alla terribile repressione che il neonato Stato italiano mise in atto per annientarlo. I nove articoli, dei quali si forniscono anche i nomi degli autori (in origine anonimi) costituiscono il primo, esplicito, tentativo di «processo al Risorgimento» in un momento in cui all'unificazione mancavano i territori dello Stato pontificio. I padri Carlo Maria Curci, Carlo Piccirillo, Matteo Liberatore e Raffaele Ballerini demoliscono coi loro scritti la tesi che presentava il brigantaggio come endemico nel sud, finanziato dall'esterno (i borboni cacciati dal trono) e legato a fattori di carattere puramente economico e sociale. Guerra di difesa contro l'invasore piemontese, la reazione di briganti e brigantesse era, per l'ala più intransigente e colta del cattolicesimo, la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma soprattutto ideologica. Le stesse accuse che un gruppo di studiosi, bollati come «revisionisti», hanno ripetuto ancora l'estate scorsa in un meeting di Rimini all'insegna dell'antirisorgimento.
LUIGI MASCHERONI
Postato da: giacabi a 17:12 |
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risorgimento
La Chiesa e la questione risorgimentale italiana di Antonio Socci
La «rivoluzione italiana» del «risorgimento» fu un’«impresa coloniale» sabauda condotta da una élite liberale avversa alla Chiesa e al Papa. Antonio Socci fa l’elenco degli orrori e dei danni le cui conseguenze ancor oggi patiamo.
[Da AA.VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 409-434]
La leggenda nera che vuole la Chiesa Cattolica come una potenza oscurantista, reazionaria e nemica della libertà degli uomini e dei popoli ha un capitolo tutto italiano: si tratta del cosiddetto Risorgimento e della posizione della Santa Sede nelle vicende dell’unificazione italiana del secolo scorso.
L’argomento ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro: noi — in queste pagine — ci limiteremo solo ad enunciare alcuni dei fatti storici trascurati.
In principio fu il federalismo
Nel secolo scorso, il più lucido fra i pensatori degli anni Trenta e Quaranta e senz’altro Carlo Cattaneo, storico, economista, politico. Cattaneo, che è la mente del Politecnico, non immaginava davvero, né avrebbe mai voluto, Milano come prefettura di Torino. Scrive Antonio Gramsci: «Il federalismo di Ferrari-Cattaneo fu l’impostazione politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia. La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le Cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte […]. Perché» si chiede dunque Gramsci «accusare il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario?» (1).
Non solo Cattaneo fu il più lucido e affascinante sostenitore della via federalista per l’Italia, ma, nel 1848, giunse addirittura a delineare gli Stati Uniti d’Europa con un anticipo sui tempi della storia che avrebbe evitato, di per sé, due guerre mondiali nel vecchio continente e varie tragedie connesse.
Se la confederazione europea poteva essere, allora, un sogno, per l’Italia invece il federalismo sembrava la via più naturale e incruenta dell’unificazione. Un’Italia divisa fino ad allora in diversi stati. Si erano già fatti i primi passi: nel novembre 1847 era stato stipulato un accordo doganale fra Piemonte, Toscana e Stato Pontificio che faceva concretamente intravedere ai diversi popoli della penisola una prospettiva federale. Qualcosa di analogo allo Zollverein delle regioni germaniche, ma, se vogliamo, anche al mercato comune europeo attuale. Come oggi sarebbe impensabile una Europa politicamente unita attraverso una guerra di conquista di uno dei suoi stati a danno degli altri, conquistati ed annessi con la forza, così — fino al 1848 — nessuno avrebbe mai potuto gabellare una conquista piemontese della penisola come l’unità d’Italia. Ma è quello che avvenne.
«La lega doganale» osserva Gramsci «promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli stati italiani, i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata» (2).
Ma come la Chiesa, il papa e lo Stato pontificio si trovarono a vivere gli avvenimenti di quegli anni?
Il 16 giugno 1846 il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti viene eletto papa e prende il nome di Pio IX. Ha fama di liberale e sostenitore della causa nazionale italiana. Appena eletto concede un’amnistia che scatena gli entusiasmi di tutti. Fra l’altro riconosce anche la libertà di stampa, precedendo Leopoldo II di Toscana e Carlo Alberto di Savoia.
Massimo D’Azeglio e Marco Minghetti, nella loro cosiddetta Epistula ad Romanos proclamano: «Un tale uomo ha fatto più per l’Italia in due mesi, che non hanno fatto in venti anni tutti gli Italiani insieme». Pio IX chiama inoltre al governo dello Stato Pontificio un tecnico di fama europea, un politico liberale, Pellegrino Rossi (in passato perfino coinvolto in cospirazioni democratiche).
Papa Mastai, come sovrano temporale, lavora assiduamente attorno al progetto di unità federale. Suo delegato alle trattative è Corboli-Bussi, ma egli conta soprattutto sul delegato piemontese, Antonio Rosmini, che aveva in animo di creare cardinale e — nel caso fosse stata realizzata la federazione — di chiamare ad alte cariche presso la Santa Sede. Intanto però a Torino cade il ministero Casati-Gioia-Ricci ed il nuovo governo non rinnova le credenziali a Rosmini. Già nel 1845 fra Carlo Alberto e Massimo D’Azeglio aveva cominciato a prender forma un progetto espansionistico che, in via preliminare, esigeva il naufragio dell’unica realistica via per l’unificazione d’Italia, quella federalista. A Roma gli eventi precipitano. Pellegrino Rossi viene assassinato da radicali estremisti, scoppia la rivoluzione, il papa deve fuggire.
In pochi mesi si passa dalle acclamazioni per il papa «liberale» e sostenitore della causa italiana alla fuga dello stesso Pio IX da Roma. Com’è possibile? «La situazione precipita e si svolge in quattro tappe fatali: 10 febbraio Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”; 29 aprile Allocuzione Non semel contro la guerra all’Austria; 15 novembre uccisione di Pellegrino Rossi; 24 novembre fuga a Gaeta» (3).
Già prima, i gruppi repubblicani e settari si erano inseriti nell’euforia popolare per il papa e avevano preso ad esaltarlo ipocritamente cercando di usarne l’immagine per i loro scopi e soprattutto cercando di trascinare la Santa Sede in una guerra contro l’Austria (4) che mai il papa avrebbe potuto fare (peraltro l’Austria aveva già minacciato uno scisma se si fosse trovata in guerra contro un esercito mandato dal papa). Il papa manifestava a Carlo Alberto la sua netta volontà di sottrarsi a questa strumentalizzazione politica: «Qui dagli esaltati si vuole assolutamente che io pronunci la parola — guerra — cosa che non debbo fare. […] Dico che il papa non fa la guerra a nessuno, ma nel tempo stesso non può impedire che il desiderio ardente della nazionalità italiana non spinga oltre i confini le truppe comandate dal general Durando. Dico infine che rinuncio francamente ai progetti seduttori dei repubblicani che vorrebbero fare dell’Italia una Repubblica sola con il papa alla testa. Dico di rinunciarvi perché dannosi immensamente all’Italia e perché la S. Sede non ha intenzione e non l’ebbe mai di dilatare i suoi temporali domini, ma quelli bensì del Regno di Gesù Cristo» (5).
In questo documento Pio IX si spinge fino al limite estremo in cui era possibile spingersi ad un Successore di Pietro: la disponibilità a chiudere un occhio su ciò che le truppe dello Stato pontificio avessero eventualmente deciso autonomamente. Eppure si accusò Pio IX di tradimento, accollando a Roma il peso della sconfitta. Secondo Gramsci la responsabilità fu piuttosto del governo piemontese: «Essi furono di un’astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non una confederazione italiana» (6).
Da questo momento in poi nasce la leggenda nera su Pio IX. Non solo la leggenda nera della storiografia liberale...
«Più strano ancora, per me» osserva padre Guido Sommavilla sj «è che interpretino ormai in questo quadro l’Ottocento anche storici cattolici, monsignori e gesuiti oltre che laici (Jemolo, Jedin, Martina, Aubert), occupandosi di papi [...] e soprattutto di Pio IX (ritenuto) “papa santo, ma pessimo politico”».
Il papa, dunque, avrebbe sbagliato a non cedere subito e su tutto «ai liberali che si comportavano a quel modo, pronti ad uccidere i migliori politici suoi amici (Pellegrino Rossi, Moreno, Leu) e saltargli addosso se non si arrendeva a discrezione (Repubblica romana) e a porre sotto sequestro i beni e le proprietà della Chiesa ovunque arrivavano al potere, ignominiosamente poi mercanteggiandoli?».
E perché avrebbe dovuto cedere? «Proprio perché Pio IX era intelligente, capiva bene che in tutti quei sequestri (o regali eventualmente) erano i poveri a perderci: i poveri contadini... e i poveri semplicemente, ai quali, allora, soltanto la Chiesa pensava, anche con i redditi di quei benefici. Magari intuiva pure che quelle terre incamerate e vendute ci avrebbero rimesso in senso perfino ecologico, con l’insensato sfruttamento che Stato e borghesi ne avrebbero fatto, a cominciare dal patrimonio boschivo» (7). Nel marzo 1929 La Civiltà cattolica così rievoca le posizioni: «Cominciando da Pio IX, fino al più semplice prete di contado, l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare perentoriamente che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l’unione politica dell’Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori da ogni dubbio per chi non voglia negare la luce meridiana, non s’oppose all’unità, ma la voleva in modo diverso in quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta gerarchia, dei cardinali e dello stesso antico partito conservatore piemontese (Solaro della Margherita, nda)».
Guerra di conquista
Accade infatti che in Piemonte il potere passa dal gruppo del Solaro ai liberali di D’Azeglio, Cavour e Rattazzi. I Savoia chiamando al governo questa nuova classe dirigente intendono sfruttare l’aspirazione nazionale all’unità come foglia di fico di un progetto semplicemente espansionistico della corona. Poco importa se — come ha osservato Denis Mack Smith — «l’elastica maggioranza di Cavour includeva... diverse posizioni politiche», se Ricasoli e Spaventa erano «centralizzatori» e «decentralizzatori» erano invece Farini e Minghetti, se si opponevano «liberal conservatori, come D’Azeglio e Minghetti» e radicali di sinistra come Rattazzi. Nei fatti ciascuno collabora suo modo, al progetto della conquista. Anche se certo fu il Cavour la sua più coerente espressione politica.
Ma chi è Camillo Benso conte di Cavour, che di lì a poco si rivelerà il grande architetto di tale «conquista piemontese»? Un talento politico senz’altro. Ma c’è chi aggiunge: «un radicale che nel suo nichilismo si arrestava soltanto alla proprietà terriera borghese» (8). Per Disraeli, Lord Cowley e Lord Acton — e si sa quanto l’Inghilterra abbia contato nella vita e nella politica del conte Camillo che non scese mai sotto Bologna — era «un politico totalmente privo di scrupoli». Antonio Gramsci dà un giudizio semplicemente politico: «I liberali di Cavour concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia» (9).
Fra le tante cose che sono normalmente passate sotto silenzio, nella manualistica scolastica sul Risorgimento, vi sono le fasi preliminari che rendono possibile questa strategia di conquista regia. Che lasciano interdetti. Per esempio: «Nessun cattolico, fedele alla Chiesa» scrive Ambrogio Eszer «riuscirà a capacitarsi perché il Regno di Sardegna abbia voluto iniziare la sua opera di unificazione nazionale con la soppressione dei monasteri contemplativi» (10).
E nei confronti della Chiesa non si contentarono di queste prime soppressioni, né della sua spoliazione, della rapina di monasteri e abbazie, ne della conquista dei territori dello Stato Pontificio. È la stessa presenza del Santo Padre a Roma ad essere ideologicamente e militarmente attaccata da una dinastia che parlava francese e che a Roma mai aveva messo piede.
Così il Regno sabaudo, poi Regno d’Italia, rifiutò pervicacemente ogni possibile accordo, ogni garanzia giuridica sulla libertà del papa. Un riconoscimento minimo di salvaguardia della sua libertà sarebbe bastato probabilmente al Santo Padre per acconsentire anche a rinunciare allo Stato Pontificio (11).
È pur vero che la storia non si fa con i «se». Tuttavia Pio IX aveva ampiamente dimostrato di esser disposto quasi a tutto per l’Italia. Ebbe a dire il segretario di Stato cardinal Antonelli all’ambasciatore austriaco Bach: «Se a Torino non avessero perseguito la Chiesa così appassionatamente, se non avessero ferito Pio IX nella sua coscienza di capo della Chiesa, Dio sa quanto non avrebbe concesso e dove oggi non ci troveremmo» (12). C’è un altro aneddoto che illustra bene l’amore all’Italia di questo pontefice. Un conte tedesco viene ricevuto in udienza dal papa ed esprime a Sua Santità il suo dispiacere per i movimenti politici che stavano attaccando lo Stato Pontificio e la Chiesa. Finita l’udienza, Pio IX sbotta a mezza voce, con i suoi collaboratori: «Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana» (13).
Il 19 giugno 1871, quando già tutto è perduto, così Pio IX ricorda i primi gesti del suo pontificato: «Ma io benedissi allora l’Italia, come di nuovo la benedico adesso, la benedissi, e la benedirò» (14).
Forse però una qualche risposta all’inquietante interrogativo di Eszer sul perché di questa persecuzione esiste. Per procedere all’impresa politico-militare che è stata immaginata a Torino, non basta concentrare gran parte del bilancio statale sulle spese militari, sarebbe necessario poter disporre di entrate equivalenti quasi a quelle di un altro Stato. Si comincia così a pensare di mettere le mani sull’immenso patrimonio (fondiario, immobiliare, finanziario) della Chiesa: un’operazione drammatica che oggi la storiografia ha completamente rimosso e che, secondo i cattolici, ha i caratteri di una vera e propria rapina di Stato assai simile a quanto realizzeranno, nel nostro secolo, i regimi totalitari.
Lo Statuto, agli articoli 24 e 68, già crea le condizioni per una legislazione di attacco alla Chiesa in materia giudiziaria, civile ed economica. L’8 aprile 1850 si varano le leggi Siccardi che tolgono alla Chiesa unilateralmente diritti e prerogative. Per le sue proteste e la sua opposizione il vescovo di Torino, monsignor Giovanni Fransoni, viene arrestato. Poi vengono sequestrati i suoi beni e infine viene bandito dallo Stato (morirà in esilio a Lione). Egualmente arrestato e deportato, nel 1850, l’arcivescovo di Cagliari, monsignor Marangiu-Nurra. Il direttore del giornale cattolico L’Armonia per aver anch’egli criticato le nuove leggi subisce l’arresto e la condanna a quindici giorni di carcere. Ma tutto questo, come aveva immaginato Pio IX, era solo il preannuncio della tempesta. Sul finire del ‘52 al D’Azeglio succede il Cavour. Si vara il grande attacco alla Chiesa: la legge per la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni (dalla cui vendita si mira a lucrare cinque milioni l’anno).
«Si ebbero confische massicce di beni ecclesiastici, giacche Cavour era convinto che la “lebbra del monacismo” fosse un importante fattore di arretratezza economica» (15). Ovvero un limite alla proprietà borghese. Per il vecchio Solaro «questa legge sanziona un sacrilego latrocinio». Per il Cavour è l’autentica applicazione del motto «libera Chiesa in libero Stato». Il «latrocinio» era giustificato dal conte con le difficoltà economiche dello Stato che però, contemporaneamente, spendeva capitali (e vite di contadini) in una guerra — quella di Crimea — in cui gli italiani non c’entravano nulla. Il 29 maggio 1855, dunque, il re firma il decreto che sopprime agostiniani, certosini, benedettini cassinesi, cistercensi, olivetani, minimi, minori conventuali, osservanti, riformati cappuccini, oblati di Santa Maria, passionisti, domenicani, mercedarii, servi di Maria, padri dell’Oratorio, filippini, clarisse, cappuccine, canonichesse lateranensi, crocifisse benedettine, carmelitane, domenicane, francescane, battistine, celestine e turchine. Soppresse 331. case (4.540 religiosi cacciati fuori dalle loro case) e incamerate rendite per oltre due milioni dell’epoca. Un po’ meno del bottino sperato. Ma per quel che si era salvato era solo questione di tempo. Roma decretò la «scomunica maggiore» per tutti «gli autori, i fautori, gli esecutori della legge».
C’è ovviamente un nesso fra «colpire i beni ecclesiastici e la necessità di far fronte a spese crescenti e ad eserciti più perfezionati» (16). E ciononostante al 1857 lo Stato sabaudo è gravato da debiti per 800 milioni. Il problema delle spese militari nei bilanci dello Stato sabaudo è un capitolo della storia del Risorgimento che, per quanto sottovalutato, risulta determinante e rivelatore: lo è nel determinare la decisione di uno scontro frontale contro la Chiesa, lo è nella scelta di trasformare il Regno delle Due Sicilie in una colonia da conquistare e saccheggiare, lo è per le condizioni sociali che sono costrette a subire le plebi contadine e operaie. Nelle discussioni al Senato sulle condizioni sanitarie del Paese (era la prima volta che ci si occupava del problema!), il 12 marzo 1873 il medico Carlo Maggiorani delineava questo quadro: «La tisi, la scrofola, la rachitide, tengono il campo più di prima; la pellagra va estendendo i suoi confini; la malaria co’ soi tristi effetti ammorba gran parte della penisola […]. La sifilide serpeggia indisciplinata fra i cittadini ed in ispecie fra le milizie». Per le malattie epidemiche «i contagi esotici (colera) han facile adito e attecchiscono facilmente: il vaiuolo rialza il capo; a difterite si allarga ogni giorno di più».
Mentre le élites risorgimentali nel Palazzo mettono a punto i loro piani di conquista regia, dilapidando le pubbliche finanze nelle loro imprese militari, l’Italia perlopiù contadina e cattolica vive in condizioni subumane. Nel periodo 1861-1870 muoiono nel primo anno di vita 227 bambini per mille nati vivi. Il 45 per cento delle morti totali è di bambini inferiori a cinque anni, dovute spesso a infezioni prodotte dalle condizioni di vita e di lavoro delle madri. Lo Stato liberale che dilapida la metà delle finanze pubbliche nelle sue guerre (dette «d’indipendenza»), non si è mai occupato delle condizioni tragiche del popolo, che nelle campagne ha una speranza di vita media che si aggira sui quarant’anni.
Il raffronto fra il bilancio della Difesa e quello per le spese sociali (sanità, occupazione, igiene e cultura) è spaventoso. «Dal 1830 al 1845 la quota delle spese militari non fu mai inferiore al 40 per cento della spesa statale complessiva. Con la prima guerra d’indipendenza l’incidenza delle spese militari su quelle totali raggiunse nel 1848 e nel 1849 rispettivamente il 59,4 per cento e il 50,8 per cento. Nei cinque anni successivi tale voce di spesa non superò mai il 27 per cento e solo in relazione alla spedizione d’Oriente nel 1855 e 1856 raggiunse rispettivamente il 36 per cento e il 38,6 per cento. Con la guerra del 1850 e 1860 l’incidenza delle spese militari raggiunse rispettivamente il 55,5 per cento e il 61,6 per cento. A fronte di spese militari di tale rilevanza (finanziate soprattutto con gli espropri ecclesiastici, nda) le spese per gli affari economici e le opere pubbliche ebbero la massima incidenza nel 1847 col 30,9 per cento e la minima nel 1831 col 2,9 per cento, mentre per l’assistenza sociale, l’igiene e la sanità, la pubblica istruzione e le belle arti, raramente nell’insieme si destinò annualmente più del 2 per cento della spesa totale» (17).
Ma torniamo dunque al 1857. È anno di elezioni. Vota un’infima minoranza della popolazione, attorno all’1 per cento. Eppure i deputati cattolici raddoppiano di numero (da 30 a 60): quelli che avevano sostenuto le leggi contro la Chiesa in molti casi vengono sonoramente sconfitti. Così il Governo, con una curiosa concezione della democrazia, annulla molte elezioni con il pretesto che il clero si era immischiato nel voto. Nel 1860 lo Stato sabaudo cede alla Francia Nizza e la Savoia (una decisione mostruosa: Nizza era la città di Garibaldi). Un mercimonio di terre e popoli per convincere Napoleone III a dare il suo placet all’annessione che di lì a poco il Piemonte avrebbe fatto delle terre dello Stato Pontificio dove nessuno lo aveva chiamato. La guerra di conquista del Piemonte si allarga poi al Regno del Sud, un regno più antico, più prospero e più italiano di quello savoiardo: prima con la spedizione dei Mille, finanziata da potenze straniere e riuscita più che per eroismo come si è creduto a lungo, grazie a una torbida trama di corruzioni, imbrogli e violenze in cui inglesi e piemontesi fecero a gara. Quindi con l’instaurazione di un regime dittatoriale al Sud.
Vale la pena soffermarsi su un aspetto non secondario. Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, dichiarava a un importante convegno storico: «Garibaldi ebbe sempre un nume tutelare: la Gran Bretagna. Più esattamente, la Massoneria inglese» (18).
Quel feeling si sostanziò anche, come ha rivelato di recente Giulio Di Vita, grazie a sue ricerche in archivi di Edimburgo, in un «versamento» a Garibaldi di una cifra enorme per la conquista del Regno delle Due Sicilie: «tre milioni di franchi francesi, in piastre d’oro turche» che equivale a «molti milioni di dollari di oggi». L’esistenza di una cassa segreta della Spedizione è dunque confermata. In quali tasche finirono questi miliardi è cosa rimasta misteriosa in quanto i libri contabili e il contabile della spedizione finirono in fondo al Tirreno con il piroscafo Ercole, affondato, a quanto pare, secondo le più recenti ricerche, a causa di un misterioso sabotaggio.
Una parte dei soldi, tuttavia, finì senz’altro nelle tasche dei traditori di Francesco. «È incontrovertibile che la marcia davvero trionfale delle legioni garibaldine, dalla Conca di Palermo al Vesuvio, venne immensamente agevolata dalla conversione subitanea di potenti dignitari borbonici dal Sanfedismo alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa vera illuminazione pentecostale sia stata, almeno in parte, catalizzata dall’oro» (19). Scopriamo così che l’Italia (risorgimentale) nacque e fu fatta sulla «mazzetta». Per la verità i più obbiettivi fra gli storici avevano già da tempo avanzato dubbi su quel migliaio di uomini, male armati e spesso un po’ goliardici, di fronte ai quali era crollato un regno di centomila chilometri quadrati con un esercito di centomila uomini. È stato osservato che mille volontari non bastano nemmeno per presidiare una provincia, come potevano tenere sotto controllo tutto quel Regno? Adesso Di Vita, fonte indiscutibile, ci tiene a confermare: che la presunta marcia trionfale di Garibaldi aveva dietro i maneggi della prima potenza imperiale del mondo, con il suo enorme peso finanziario, militare e spionistico.
È davvero curioso osservare che l’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che aveva potuto rivendicare i caratteri di epopea popolare, risulta, alla prova dei fatti storici, poco più che un paravento per un atto di arbitrio e di violenza del tutto contrario ai principi basilari del diritto internazionale: un colpo di stato sabaudo-inglese al sud Italia che abbatte re Francesco, il re legittimo, e insedia una monarchia straniera. Le motivazioni che spinsero l’Inghilterra in questa avventura sono ben sintetizzate da Di Vita: «La prima, colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato laico. La seconda, creare, con un nuovo Stato unitario dalle Alpi alla Sicilia, una forte Opposizione alla Francia, che non avrebbe così potuto impedire l’aprirsi dei piani imperiali britannici sul’Africa e sul Medio Oriente, il Mediterraneo e la via alle Indie» (20). In buona sostanza è la conferma dell’acuta osservazione del filosofo Augusto Del Noce per il quale «il Risorgimento italiano non è stato in realtà che un capitolo della storia dell’imperialismo britannico» (21).
Questo spiega perché, fin dall’inizio, il popolo meridionale non acclamò affatto i «liberatori». Quella non fu solo una conquista coloniale, si risolse anche in un genocidio. Mentre la borghesia e l’aristocrazia del Gattopardo stava velocemente salendo su carro del vincitore, il sud contadino si ribellò ai conquistatori e proseguì la sua lotta malamente armato anche dopo la capitolazione del suo re nel 1860.
L’esercito piemontese che si riteneva l’esercito «liberatore» dovette schierare nel Meridione centoventimila uomini. È una storia sanguinaria troppo velocemente rimossa. Il genocidio del sud, da solo, fece più vittime di tutte le cosiddette «guerre d’indipendenza» assommate, ed era tutto sangue di ita1iani: «Vi furono battaglie, stragi, assedi, ma soprattutto si fucilò, a torto o a ragione, per mille cause diverse, senza null’altro che un sospetto vago, uomini, donne, vecchi, bambini persino» (22).
In tutto 5.212 partigiani dell’indipendenza, quelli che gli invasori — sui loro libri di storia — chiamarono «briganti», furono fucilati o ammazzati in combattimento, altri cinquemila furono arrestati. In totale si contarono ventimila vittime di quella «liberazione», o secondo altri, di quel genocidio che umiliò e calpesto la dignità e l’identità di quel popolo. E lo affamò: da allora comincia il triste dissanguamento dell’emigrazione (centoventitremila persone l’anno, quattordici milioni di esuli dal 1876 al 191) che produce sottosviluppo nelle terre abbandonate.
Scrisse lo storico filoborbonico Giacinto De Sivo: «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese. Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?» (23). Fu una guerra civile feroce i cui effetti si fanno sentire ancora ai giorni nostri, se è vero com’è vero che il Meridione non si è più risollevato dalla sua condizione di arretratezza e subordinazione e da piaghe come la mafia. E se è vero che il fenomeno politico di questo scorcio di secolo, in Italia, si è coagulato proprio attorno alla critica allo Stato centralista e ad un progetto di stato federale che si richiama esplicitamente a Cattaneo (24). Si trattô insomma di una forzatura. Come scrisse Gramsci «un’Italia come quella che si è formata nel 1870 non era mai esistita e non poteva esistere».
Il pugno di ferro imposto al Sud inoltre vide spesso esecutori con qualche tendenza criminale che mai furono messi sotto accusa o sotto inchiesta. Solo il grido della Chiesa si alzò a denunciare quelle violenze. Già nel 1861, il 30 settembre, Pio IX nell’allocuzione al Concistoro segreto afferma: «Inorridisce davvero e rifugge l’animo per il dolore, né può senza fremito rammentarsi molti villaggi del Regno di Napoli incendiati e spianati al suolo e innumerevoli sacerdoti, e religiosi, e cittadini d’ogni condizione, età e sesso e finanche gli stessi infermi, indegnamente oltraggiati e, senza neppur dirne la ragione, incarcerati e, nel più barbaro dei modi, uccisi. Queste cose si fanno da coloro che non arrossiscono di asserire con estrema impudenza... voler essi restituire il senso morale all’Italia».
Ma non andò forse, il nuovo Regno, a portare la buona amministrazione subalpina in plaghe desolate e pessimamente amministrate, come vuole la manualistica corrente?
Paese illegale e Paese reale
Mentre il Regno dei Savoia, come abbiamo visto, concentra la sua politica perlopiù nelle spese per armamenti, in modo da essere la Prussia della penisola, il Regno di Napoli, prima col re Ferdinando, poi col giovane Francesco — malgrado le infamie interessate diffuse in tutta Europa dagli agenti inglesi — appare molto meglio amministrato. Troviamo qui le tasse più lievi d’Europa, le bellissime scogliere meridionali sono protette dalla prima flotta italiana. Il Regno ha un debito pubblico che è un quarto di quello piemontese: appena cinquecento milioni per nove milioni di abitanti contro i mille milioni del Piemonte per quattro milioni di abitanti.
Lo Stato piemontese, che rischia di passare per il vero stato «borbonico» (25), specialmente per la sua elefantiaca burocrazia ereditata dal sistema francese, secondo gli storici di parte meridionale — ben poco letti — saccheggerà le casse e le ricchezze del meridione per far pagare a questa sua colonia i suoi propri debiti. Ne faranno le spese soprattutto le plebi contadine: «La condizione dei contadini meridionali era stata, nel periodo precedente l’unità» osserva lo studioso marxista Nicola Zitara «migliore e non peggiore che dopo» (26).
Napoli del resto era un’autentica capitale europea. Per uomini d’ingegno come Leopardi e per i «viaggiatori intellettuali» dell’Ottocento Napoli è una tappa obbligata Mentre nessuno si sarebbe mai sognato di «pellegrinare» a Torino (con l’eccezione di Nietzsche che con la sua latente follia se ne innamorò). Ma di colpo questa «capitale europea» diventa una prefettura di Torino: comincia la sua decadenza. In pratica un parlamento — quello sabaudo — eletto da una ristretta minoranza di ottimati, poco più di centomila persone (e con gravi vizi di regolarità come si è visto nel 1857) decretava l’annessione di una penisola di ventiquattro milioni di abitanti, perlopiù contadini e cattolici, senza voce e senza diritti (i plebisciti che furono organizzati per salvare la faccia non furono precisamente un esempio di legalità).
Il giovane re Francesco, assediato a Gaeta, scriveva un amaro addio al suo popolo: «In luogo delle libere istituzioni che vi avevo date e che desideravo sviluppare, avete avuto la dittatura più sfrenata e la legge marziale sostituisce ora la costituzione. Sotto i colpi dei vostri dominatori sparisce l’antica monarchia di Ruggero e di Carlo III, e le Due Sicilie sono state dichiarate province d’un Regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti venuti da Tonino» (27). Proprio durante gli ultimi combattimenti con l’esercito di Francesco II i generali sabaudi si macchiarono di crimini vergognosi. Don Giuseppe Buttà, storico borbonico, per esempio, riconosce a Garibaldi una dignità morale che altri non ebbero. Solo Garibaldi volle andarsene da Capua per non assistere ed esser complice dell’indegno bombardamento del Cialdini mirante non a danneggiare l’esercito nemico, che infatti non ne risentì, ma a fare strage fra la popolazione civile: «Bisogna pur dirlo, Garibaldi non scese mai a simili triviali ricordi» (28).
Mentre il Cavour — come c’informa uno storico di parte sabauda — «approvò ed elogiò l’opera del Cialdini» (29), Il mirabile esempio di eroismo del Cialdini consisteva nel massacro di vecchi, donne e bambini perpetrato in risposta alla richiesta di Francesco II di intavolare trattative («il cannone non guasta mai gli affari» aveva risposto questo «liberatore»).
Il 27 gennaio 1861 furono programmate in tutto il neonato Regno d’Italia le elezioni che avrebbero dovuto sanzionare il fatto compiuto. Elezioni riservate a pochissimi e con una pesante interferenza dello Stato a favore dei governativi. La democrazia era ancora di là da venire. Del resto i cattolici erano già rimasti scottati da ciò che era avvenuto nel ‘57: decisero di essere «né eletti, né elettori». Obiezione di coscienza. Gli aventi diritto al voto erano appena 418.850 (una infima minoranza) eppure anche fra costoro la campagna astensionistica dei cattolici ebbe gran successo: votò solo i 57,2 per cento, in tutto 239.853 elettori. L’illegalità sostanziale del sistema liberale sta tutto in una cifra: gli aventi diritto: al voto al tempo dell’Unità, erano appena l’1,29 per cento della popolazione. Nel 1874 erano «cresciuti» fino al 2,1 per cento. Ogni commento è superfluo.
Nel febbraio ‘61 furono assunte dal governo una serie di decisioni contro la Chiesa. Fra l’altro fu estesa a tutto il territorio italiano la legge sarda del 29 maggio 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Ventimila fra monaci e monache furono colpiti dalla legge, al Sud furono confiscati i beni di 1.100 conventi. L’economia locale ne fu duramente provata, anche per questo si scatenò una reazione popolare imprevista. Puntualmente repressa nel sangue.
L’amministrazione piemontese, sull’orlo della bancarotta (nel ‘61 il 40 per cento del debito pubblico è dovuto ancora agli armamenti) si abbatte sul Meridione come un flagello. Tasse da strozzinaggio, ruberie, espropri dei terreni civici ed ecclesiastici, salveranno il Piemonte, ma condanneranno per sempre il Sud. Secondo il Nitti una cifra assai superiore a 600 milioni del tempo venne alienata per riacquistare le terre del demanio ecclesiastico e statale espropriate. Un dissanguamento finanziario che — con l’unificazione del mercato — lascerà il Sud totalmente a secco di capitali. Una rapina colossale. Che porta alla violenta proletarizzazione dei contadini (30).
Basterà un solo esempio della vergognosa ripartizione della spesa per opere pubbliche per dimostrare lo statuto «coloniale» che fu imposto al meridione: dal 1862 al 1897 lo Stato spenderà 458 milioni per bonifiche idrauliche. Al Nord e al Centro andranno 455 milioni, 3 al Sud.
Il sistema produttivo meridionale è demolito. Per esempio, subito dopo la conquista, dalle casse del Regno delle Due Sicilie 80 milioni prendono il volo per Torino: ne torneranno solo 39. «Prima del 1860» scriveva il Nitti «era (al Sud) la più grande ricchezza che in quasi tutte le regioni del Nord» (31).
Intanto, dall’autunno del ‘60 proseguono gli arresti e le deportazioni di vescovi e cardinali macchiatisi semplicemente di reati di opinione. Dal ‘60 al ‘64 nove cardinali sono arrestati e processati: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, il cardinal Baluffi, il cardinale De Angelis di Fermo, Carafa di Benevento, Riario-Sforza di Napoli, Vannicelli, Antonucci, Luigi Monichini di Jesi e Gioacchino Pecci di Perugia (il futuro Leone XIII).
Nella primavera del 1861 sono quarantanove le diocesi rimaste senza vescovo. Seminari e monasteri chiusi, beni espropriati: la Chiesa è allo stremo. In questa situazione, il potere ieri e oggi gli storici rimproverano a Pio IX di non aver voluto cedere sua sponte Roma ai piemontesi quasi aggrappandosi con tutte le forze al potere temporale. In sostanza si sarebbe dovuto fidare della parola del governo sabaudo che s’impegnava a garantire la libertà e l’indipendenza della sua persona e del suo magistero. Ma l’obiezione che arriva dai documenti vaticani è grave. Un governo che non aveva esitato a stracciare patti, ad aggredire, violentare, rapinare in ogni modo, chiudere conventi, seminari, arrestare e deportare cardinali e vescovi, poteva pretendere la fiducia cieca del papa?
Non era forse gravissimo che uno stato incarcerasse decine di vescovi e cardinali? E poi per motivi che hanno dell’incredibile. Bastava che un vescovo si rifiutasse di cantare il Te Deum in Chiesa per il governo (è il caso del cardinal Corsi).
Qual è la risposta di parte governativa? «Quello» ha commentato anni fa il laico Vittorio Gorresio «fu l’esempio più notevole che si trovi nella nostra storia del tentativo di far prevalere la concezione della sovranità dello Stato laico contro la ben radicata tradizione confessionale» (32). Dunque la pura e dura ragion di stato, la forza per la forza.
Le sedi episcopali, inoltre, rimasero a lungo vacanti perché il governo pretendeva di aver parte nella scelta dei vescovi. Sarebbe questa l’illustrazione del tanto declamato principio «libera Chiesa in libero Stato»? Certo, i cattolici erano ancora la stragrande maggioranza della popolazione. Lo Stato temeva il suo stesso popolo, su cui regnava e che non rappresentava in nessun modo. I cattolici organizzarono forme di difesa dei loro diritti civili. Ci provarono. Nel 1865, per esempio, fondarono l’Associazione per la libertà della Chiesa, ma verrà chiusa di forza appena un anno dopo: «La legge dei sospetti» riferisce Spadolini «la colpiva alle radici, disperdendo capi e seguaci, distruggendo sezioni e affiliazioni, obbligandola a dissimularsi e a scomparire» (33). Innumerevoli sono, in questi anni, le violenze, i soprusi, le censure, le persecuzioni. I rapporti giuridici che il nuovo Stato italiano volle stabilire con la Chiesa furono definiti (e lo rimasero fino al 1929) dal Codice di diritto civile (2 aprile 1865), dalla legge Ferraris, «per la soppressione di enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico» del 15 agosto 1867 e dalla legge delle Guarentigie del 1871.
Il sacco di Roma
La legge Ferraris toglieva personalità giuridica agli ordini religiosi sopravvissuti e incamerava un terzo dell’asse ecclesiastico immobiliare (attorno ai seicento milioni del tempo). La legge andò a colpire e sopprimere circa venticinquemila enti ecclesiastici. Migliaia di religiosi si trovarono da un giorno all’altro strappati ala loro vita e ai loro conventi. Questo nuovo «esproprio» era destinato a finanziare la guerra intrapresa nel 1866 contro l’Austria. Nel triennio 1866-1868, grazie anche alle avventure belliche, il disavanzo dello Stato tocca i seicentotrenta milioni. Il Governo lo affronta appunto con la tassa straordinaria sull’asse ecclesiastico e con la famigerata tassa sul macinato.
Le masse popolari insorgono nelle piazze contro questi provvedimenti al grido di «Viva il Papa» e «Viva la Repubblica» (34). Ma la drammatica protesta delle plebi, indice di condizioni sociali tremende, è accolta dal Governo con le forze armate: più di 250 morti e un migliaio di feriti dicono l’assoluta insensibilità dei «liberatori» d’Italia di fronte alle tremende condizioni di vita del popolo.
Proprio dal ‘69 — la tassa sul macinato entrava in vigore il 10 gennaio 1869 — la Destra storica prende saldamente in mano il Governo con l’obiettivo prioritario del pareggio di bilancio e dell’organizzazione amministrativa dello Stato unitario. Tanto è stato decantato il rigore finanziario di questi Grandi Borghesi, non dicendo tuttavia di che lacrime grondi e di che sangue... È curioso, peraltro, che si sia voluto caricare di tanti significati il conseguimento del pareggio di bilancio da parte della Destra storica quando lo Stato Pontificio — su cui tante infamie sono state propalate — raggiunse il pareggio nel 1859 (vent’anni prima dei Grandi Borghesi) e senza affamare così il popolo, né lasciare sulle strade centinaia di morti ammazzati o espropriare chicchessia dei suoi beni (gli storici più seri, fra l’altro, oggi stanno riscoprendo il buongoverno che caratterizzò lo Stato pontificio fino alla sua violenta soppressione. Eccone qualche elemento contemporaneo al raggiunto pareggio di bilancio: la costruzione di linee telegrafiche, della ferrovia Roma-Frascati nel ‘56, il basso numero di detenuti, il traffico fluviale sul Tevere, la laicizzazione dell’amministrazione, una città fra le più «verdi» d’Europa di cui sarà fatto scempio poi con l’arrivo dei piemontesi. Pio IX volle che fosse proclamata perfino la libertà dell’associazionismo operaio).
Ma torniamo al nuovo stato italiano. Proprio mentre venivano varati i due provvedimenti suddetti, nell’estate del 1868, il governo decretò pure la privatizzazione nel settore della fabbricazione dei tabacchi: un affare colossale, che «rafforzô i legami fra lo Stato italiano e i capitalismo bancario e affaristico proprio nel momento in cui si faceva più pesante la pressione fiscale dello Stato sulle masse popolari». Che giudizio dare dunque di questa classe dirigente? Eugenio Scalfari l’ha definita «il partito degli onesti e dei lungimiranti». Una formula che fa a pugni con la congerie di scandali, traffici e rapine in cui subito la nuova classe dirigente si trovò impantanata. «La Destra storica italiana» aggiunge Scalfari «quella dei Minghetti, degli Spaventa e dei Ricasoli, creò lo Stato unitario con uno sforzo politico e morale che durô vent’anni». Più realistico il giudizio di Gramsci: «quella banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che, dopo aver fatto l’Italia, l’hanno divorata» (36) Ma il 1870 è soprattutto l’anno della questione romana. La situazione internazionale favorevole scattò nell’estate del 1870. Il 20 settembre i piemontesi entravano in Roma dalla celebre breccia di Porta Pia. Il Papa ordinando di non resistere volle evitare inutili spargimenti di sangue. Ai primi di ottobre l’ennesimo plebiscito doveva sancire l’approvazione del fatto compiuto da parte dei romani. Invece vi fu un altissimo astensionismo, ad esprimere ben altro stato d’animo dei romani. Ma, naturalmente, nei giornali del tempo e nei libri di storia di oggi non se ne fece e non se ne fa menzione.
La conquista di Roma, nei mesi successivi si risolse in una continua violenta cagnara di squadracce. Più o meno con la connivenza o la passività del governo. Minacce, aggressioni per strada a preti e frati (vi furono degli uccisi), spettacoli propagandistici blasfemi, profanazioni, saccheggi. E poi intimidazioni e pugno di ferro contro le associazioni e i sodalizi cattolici. «La violenza, l’ingiustizia, la forza» ebbe a dichiarare Pio IX il 16 febbraio 1871 ai parroci, dal suo domicilio coatto «rotte le mura, penetrarono nel Luogo Santo, e si fecero precedere da una nube fosca, nera ed orrenda di sicarii, di assassini, d’uomini irreligiosi, spudorati e sozzi. Tutto fu qui da pochi mesi cambiato!». Una volta presa Roma, il governo vara la cosiddetta legge «delle Guarentigie» (13 maggio 1871, n. 214). Formalmente con ciò si diceva di voler dare alcune garanzie di libertà al papa.
In realtà la legge intendeva costringere il Santo Padre a riconoscere il fatto compiuto e soprattutto imponeva l’exequatur per la destinazione dei beni della Chiesa e dei benefici. Cosa significava? «Lo Stato conserva il diritto di nomina degli ordinari delle numerose sedi vescovili» (quelle sotto il patrocinio dei sovrani) e «ha facoltà di impedire a tutti i vescovi di prendere possesso delle provviste beneficiarie delle loro sedi fino all’approvazione regia della loro nomina». (37). Il Papa reagisce con una dura opposizione: «Rifiuta la dotazione assegnatagli e si affida all’obolo di san Pietro, costituito dalle offerte volontarie dei cattolici di tutto il mondo» (38).
D’altronde, a svelare quali sono le autentiche intenzioni del Governo basta il provvedimento del gennaio 1873 che sopprime le facoltà di teologia di tutte le università e pone i seminari sotto il controllo dello Stato. Non si tratta di provvedimenti episodici dettati da mero anticlericalismo.
Pasquale Stanislao Mancini, una delle menti giuridiche del nuovo regime, formula esplicitamente la filosofia del nuovo potere: «Nello Stato non può esistere che un unico potere, quello della nazionale sovranità, e quindi una sola legge ed una sola universale illimitata giurisdizione» (39).
Nel Sillabo — il documento di Pio IX, allegato all’enciclica Quanta cura, molto diffamato e assai poco conosciuto — la proposizione 39 condanna proprio «lo Stato in quanto origine e fonte di tutti i diritti, che gode di un diritto non circoscritto da alcun limite». Pio IX denuncia questa aberrazione giuridica non solo contro la dottrina dello «Stato etico» elaborata dagli ideologi dello stato risorgimentale, ma probabilmente vedendo profilarsi all’orizzonte anche i micidiali mostri totalitari del Novecento, quando lo Stato eserciterà questo totale diritto di arbitrio sulle persone (e non a caso Giovanni Gentile teorizzerà il fascismo come il perfetto compimento della filosofia dello Stato etico elaborato da Bertrando e Silvio Spaventa e da tutta la filosofia politica del Risorgimento).
Monsignor Luigi Giussani scrive ai giorni nostri: «Al nostro fianco vivono generazioni mute, che non possono dire se stesse: è questo l’esito del’azione omologante e pianificante del Potere, di un Potere che si concepisce senza confini. “Lo Stato in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode del privilegio di un diritto senza confini”. Questa proposizione (XXXIX) condannata dal Sillabo — il “famigerato” documento della Chiesa, famigerato per la cultura dominante — è la definizione dello Stato moderno: di tutti gli stati moderni, di qualunque specie. È questo l’esito dell’illuminismo, cioè dell’uomo che diviene “misura delle cose”. La condanna del Sillabo non è formulata per demonizzare lo stato in sé — il potere in sé non è una cosa cattiva — ma per smascherare e accusare la pretesa dello Stato moderno. Perché se “lo Stato gode di un diritto senza confini” avrà anche il diritto di determinare quanti figli devo avere e come debbano essere; e potrà anche stabilire fino a quando io posso vivere e che cosa significa essere felici» (40).
Insomma, di fronte alle ombre tremende del XX secolo quel pronunciamento di Pio IX appare profetico. Così «Pio IX» nota propriamente Emile Poulat «che era in ritardo sul suo tempo, diventa un profeta per i nostro» (41). Tornando a quel doloroso frangente della vita della Chiesa, attorno al 1864 circa 43 erano i vescovi esiliati, 16 gli espulsi, una ventina processati e incarcerati mentre — secondo i cattolici — circa 16 pare siano morti per le conseguenze delle persecuzioni. Centinaia sono i preti che hanno avuto problemi con la giustizia, 64 sono i sacerdoti fucilati e 22 i frati (perlopiù al Meridione).
Dodicimila i religiosi dispersi per le note leggi. Dopo la presa di Roma, 89 sono le sedi episcopali vacanti. I pastori nominati dal papa non hanno possibilità di prender possesso delle loro chiese perché lo stato non ho permette: esige la più umiliante sottomissione della Chiesa.
Molte delle speranze di Pio IX sono riposte nel genio politico di un grande santo di questi anni: don Giovanni Bosco. È lui che tenta, a costo di immense fatiche, di umilianti trattative e di tradimenti, di raggiungere un ragionevole compromesso con il Governo. In questo frangente, in cui la Chiesa sembra dividersi fra i traditori, corsi sul carro del vincitore a dare man forte al Governo, e gli intransigenti che oppongono ala dura realtà una sterile e dottrinaria intangibilità dei principi, mettendosi così nelle condizioni di far perdere tutto alla Chiesa, don Bosco rappresenta il meglio del realismo cattolico. Don Bosco si rifiuta di vendere l’anima al nemico, ma anche di rassegnarsi a capitolare senz’altro poter fare che lamentarsi. Don Giovanni Bosco di fronte alle difficoltà della presenza pubblica dei cattolici al tempo dei governi liberal-massonici postunitari, stanco dei troppi piagnistei cattolici, dice nel 1877: «Nessuno è che non veda le cattive condizioni in cui versa la Chiesa e la religione in questi tempi. Io credo che da san Pietro sino a noi non ci siano mai stati tempi così difficili. L’arte è raffinata e i mezzi sono immensi. Nemmeno le persecuzioni di Giuliano l’Apostata erano così ipocrite e dannose. E con questo? E con questo noi cercheremo in tutte le cose la legalità. Se ci vengono imposte taglie, le pagheremo; se non si ammettono più le proprietà collettive, noi le terremo individuali; se richiedono esami, questi si subiscano; se patenti o diplomi, si farà il possibile per ottenerli; e così s’andrà avanti . Bisogna avere pazienza, saper sopportare e invece di riempirci l’aria di lamenti piagnucolosi, lavorare perché le cose procedano avanti bene».
Nel 1873 la politica di appropriazione dei beni della Chiesa è estesa anche a Roma. Ancora una volta il governo straccia tranquillamente gli impegni precedentemente assunti. Appena il 12 settembre 1870, una settimana prima dell’invasione di Roma, il ministro della Giustizia Reali, con una circolare inviata all’episcopato italiano, a nome dello Stato si impegnava a non toccare gli ordini religiosi presenti a Roma. Identici impegni erano stati assunti con gli stati cattolici. Ma quello Stato e quel governo «degli onesti e dei lungimiranti» avevano già ampiamente dimostrato in che considerazione tenessero la parola data, gli accordi ufficiali sottoscritti, le più elementari norme del diritto.
Il provvedimento legislativo, accompagnato da violente manifestazioni anticattoliche e da una pesante campagna di stampa non comporta solo l’estensione a Roma, da parte del governo Lanza, della legge per la soppressione degli ordini religiosi. A Roma infatti ha un effetto ancor più dirompente perché in questa città si trovano le case generalizie di tutti gli Ordini religiosi presenti sulla terra.
Per il solito Mancini gli ordini religiosi sono «inconciliabili con gli ordini liberi, coi bisogni civili ed economici del paese, con ho spirito della società moderna». Vengono dunque confiscati i beni delle corporazioni religiose. Quella borghesia, che era la base sociale del «partito degli onesti e dei lungimiranti», può adesso scatenare una speculazione di dimensioni eccezionali. In barba alla Chiesa che commina la scomunica a chiunque speculasse sui beni ad essa rapinati, vi è una vera corsa all’accaparramento di questo tesoro. Centinaia di poveri preti, frati e suore, nonostante le loro flebili proteste, nel giro di un mese vengono cacciati dalle loro case e dalle loro proprietà. E queste vengono date in pasto agli speculatori.
«È meglio per noi il morire che vedere lo sterminio delle cose sante» scriverà il Santo Padre il 21 novembre 1873. Ma nemmeno la morte, nel 1878, placô l’odio forsennato contro Pio IX dal momento che i suoi funerali, quel 12 luglio, nonostante il dolore e la preghiera di centomila fedeli, furono funestati dall’aggressione, dalle urla, dalle sassate, dalle bastonature e gli insulti di squadracce che volevano impossessarsi della salma per gettarla nel Tevere e non facevano mistero delle loro intenzioni, gridando: «Le carogne nella chiavica!».
Ma torniamo agli espropri romani. Lo scandalo — anche internazionale — per questi provvedimenti che minano lo stesso diritto all’esistenza della Chiesa cattolica è tale che il 12 novembre 1873 il ministro Sella informa la Santa Sede che, in base alla legge delle Guarentigie, sarebbero stati accreditati ala stessa tre milioni e duecentoventicinquemila lire. Pio IX perô non accetta mai questo (peraltro assai esiguo) indennizzo, ritenendolo il prezzo di un vergognoso e ben più cospicuo ladrocinio.
Un bilancio
Dunque una Chiesa impaurita dalla modernità, reazionaria, refrattaria alla democrazia è quella che ci si presenta davanti in questi decenni? Sfogliare La Civiltà Cattolica di quegli anni può riservare tante sorprese. Nel 1879 (X, 385) l’autorevole rivista, ad esempio, esce con una sorprendente difesa del Manifesto lanciato da Garibaldi per una democrazia effettiva. Insomma i cattolici si trovano accanto proprio ai radical socialisti nel rivendicare il diritto al suffragio universale, la più rivoluzionaria delle frontiere politiche di quel tempo.
Si fa un’analisi della situazione al 1876: su circa 30 di abitanti hanno diritto al voto solo 605.007 italiani. «Questi privilegiati« scrive La Civiltà Cattolica «erano 2,18 per cento italiani dei due sessi.
Può darsi prova più evidente che gli elettori inscritti la rappresentano fra noi una minoranza al tutto minima?» Considerando poi i votanti effettivi (368.750) si arriva a fatica allo 0,94 per cento. Se si pensa che circa centomila di costoro «sono pagati dal governo e da lui in qualche modo dipendenti» (la classe politica del tempo esercitava un controllo ferreo su di loro) è venuto il momento, per la casta al potere di fare i conti «di buon grado o di malavoglia» osserva la rivista cattolica «cola potenza della democrazia».
Nel 1881 dunque i cattolici, in prima linea nella battaglia per il suffragio universale e il riconoscimento dei diritti civili per «milioni di italiani poveri o analfabeti». Sidney Sonnino, davanti al Parlamento, il 30 marzo 1882, ammise. «La grandissima maggioranza della popolazione, più del 90 per cento di essa, si sente estranea affatto alle nostre istituzioni; si vede soggetta silo Stato e costretta a servirlo col sangue e coi denari, ma non sente di costituirne una parte viva ed e non prende interesse alcuno alla sua esistenza ed al suo svolgimento».
A consuntivo di quella impresa chiamata «risorgimento» si può ricordare quanto Ferdinando Martini confessava in una lettera al Carducci il 16 ottobre 1894: «Abbiam voluto distruggere, e non abbiamo saputo nulla edificare» (42). Che non è davvero un gran bilancio per chi ostentava virtù muratorie» (43).
(1) Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1954, p. 108.
(2) Gramsci, op. cit., pp. 108-109.
(3) Alberto Polverari, Vita di Pio IX, «Studi piani» (4), Roma 1986, p. 185.
(4) Lo stesso Mazzini, ad esempio, coglie l’occasione «per eccitare gli animi contro l’Austria e per alienarli dal potere temporale», in Giacomo Martina, Pio IX (1845-1850), Miscellanea historiae pontificiae, vol. 38, Roma 1974, p. 108.
(5) Cit. in Polverari, op. cit., pp. 195-196.
(6) Gramsci, op. cit., p. 90.
(7) Guido Sommavilla, La Compagnia di Gesù, Rizzoli, Milano 1984, p. 191.
(8) Francesco Cognasso, I Savoia, Dall’Oglio, Varese 1981, pp. 627-628.
(9) Gramsci, op. cit., pp. 45-46.
(10) Ambrogio Eszer, Pio IX dal 1851 al 1866, in «Studi cattolici», (marzo 1986) p. 208.
(11) Scrive Rober Aubert: «Infatti bisogna constatare che ai liberali di allora, persino ai moderati tra essi, l’incondizionata rinunzia a qualsiasi forma di potere temporale appariva come dogma assolutamente intangibile, ed una soluzione del tipo dei Patti Lateranensi del 1929, per loro, non sarebbe stata accettabile» (in Eszer, op. cit., p. 212).
(12) Vedi Giacomo Martina, Pio IX (1851-1866), Miscellanea historiae pontificiae, vol. 51, Roma 1986, p. 146 e n. 93.
(13) Vedi Eszer, op. cit., 208.
(14) Vedi Polverari, op. cit., p. 188.
(15) Denis Mack Smith, Cavour, Bompiani, Milano 1988, p. 273.
(16) Alberto Caracciolo, Stato e società civile (Problemi dell’unificazione italiana), Einaudi, Torino 1960, p. 19.
(17) In Anteo D’Angiò, La situazione finanziaria dal 1796 al 1870, in Storia d’Italia, De Agostini, Torino 1973, vol. VI, p. 241.
(18) A.A.VV., La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria (Atti del convegno di Torino 24-25 settembre 1988, a cura di Aldo A. Mola), Bastogi, Foggia 1990, p. 307. Cfr. anche Rosario Romeo, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Einaudi, Torino 1964, pp. 225-247.
(19) AA.Vv., La liberazione..., pp. 379-381.
(20) Ibid, p. 380.
(21) «Il Sabato», 19.6.1993.
(22) Carlo Alianello, La Conquista del Sud, Rusconi, Milano 1972, p. 133.
(23) Giacinto de Sivio, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, ed. Forni, Bologna 1965.
(24) Questi i due capisaldi positivi della Lega. Che, però, spesso si traducono in una deteriore ostilità verso il Meridione (e gli stranieri in genere).
(25) Cfr. Gramsci, op. cit., p. 171.
(26) L’unità d’Italia, Nascita di una colonia, Jaca Book, Milano 1976, p. 21.
(27) Cit. in Alianello, op. cit., pp. 98-101.
(28) Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Bompiani, Milano 1985.
(29) Cit. in Alianello, op. cit., p. 103.
(30) C’è chi lega proprio a questo fenomeno la nascita del fenomeno mafioso, che si impone come controstato nel momento in cui lo stato si presenta con un volto particolarmente odioso: il piombo della conquista coloniale. Cfr. G.C. Marina, Il Meridionalismo della Destra Storica e l’inchiesta parlamentare del 1867 su Palermo, Palermo 1971.
(31) Francesco S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1958, p. 7.
(32) Vittorio Gorresio, Risorgimento scomunicato, Bompiani, Milano 1977, p. 110.
(33) Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica (Da Porta Pia al ‘98), Vallecchi, Firenze 1961, p. 56.
(34) Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna (1860-1871), Feltrinelli, Milano 1978, vol. V, p. 351.
(35) Cfr. Candeloro, op. cit., p. 355.
(36) Gramsci, op. cit., p. 158.
(37) Lorenzo Frigiuele, La Sinistra e i cattolici (Pasquale Stanislao Mancini giurisdizionalista anticlericale), ed. Vita e Pensiero, Milano 1985, p. 11.
(38) Frigiuele, op. cit., pp. 111-112.
(39) Frigiuele, op. cit., p. 98.
(40) Luigi Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, ed. Il Sabato 1993, pp. 425 -426.
(41) Emile Poulat, Chiesa contro borghesia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 76.
(42) Ferdinando Martini, Lettere, Roma 1934, p. 291.
(43) Per uno sguardo d’insieme sui cattolici e il risorgimento vedi anche Antonio Socci, La società dell’allegria. Il partito piemontese contro la Chiesa di don Bosco, Sugarco, Milano 1989.
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Ma ci voleva un comico per farci sentire un popolo?
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Roberto Benigni merita un grande “grazie!”. Certo, alcune baggianate le ha dette nella sua performance al festival di Sanremo.
Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.
Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.
Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.
Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”.
Ma chissà se ascolteranno.
Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.
In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).
Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.
E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.
E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.
Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.
Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.
Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.
Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).
In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).
Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.
Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.
Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).
C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.
Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.
Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.
Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).
Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).
Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.
Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.
Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.
Antonio Socci
Da Libero, 19 febbraio 2011
Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.
Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.
Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.
Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”.
Ma chissà se ascolteranno.
Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.
In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).
Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.
E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.
E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.
Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.
Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.
Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.
Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).
In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).
Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.
Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.
Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).
C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.
Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.
Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.
Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).
Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).
Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.
Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.
Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.
Antonio Socci
Da Libero, 19 febbraio 2011
Postato da: giacabi a 17:19 |
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risorgimento
Il Risorgimento ha ucciso l'Italia
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risorgimento
Il declino del sud comincia con la fine del Regno delle due sicilie
di Domenico Bonvegna
Devo a Tommaso Romano la presentazione del suo libro (che gentilmente mi ha inviato), Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud, edizioni Thule di Palermo (2a edizione settembre 2010). Un agile testo di poche pagine ben documentato.
Non conosco personalmente Tommaso Romano ma per il suo impegno poliedrico, ne ho sentito parlare un gran bene negli ambienti di Alleanza Cattolica in Sicilia, infatti Romano è stato Consigliere e quattro volte assessore alla Cultura della provincia di Palermo (di cui è stato vicepresidente per quattro anni) e del Comune di Palermo. Docente di filosofia, Italiano e Storia, docente all'Accademia di Belle Arti e di scienza della Comunicazione. Ha fondato l'Archivio Biografico Comunale della Città di Palermo. Infine è autore di numerose opere di saggistica e poesia.
Nonostante tutte queste esperienze socio culturali, Tommaso Romano come lui stesso scrive, non si sente di essere uno storico togato anche perché ama occuparsi degli studi filosofici-letterari. Tuttavia il libro può dare un ottimo contributo a comprendere le insorgenze antigiacobine, il risorgimento, la tradizione nel Sud e in Sicilia, lo stato in cui versa il meridione, anche se il testo non ha la pretesa di esaustività degli argomenti.
Dal Regno delle Due Sicilia al declino del Sud, denuncia come tanti altri libri, tra l'altro presenti nelle 5 pagine della bibliografia, il modo violento dell'unificazione del nostro paese ai danni del popolo meridionale, gli effetti perniciosi che noi siciliani e meridionali abbiamo patito, senza però invocare il revanscismo sterile, o la nostalgia incapacitante, oppure il 'primato' supposto di un sistema sull'altro, attento a non cadere, nella contrapposizione Nord-Sud, che favorisce le follie della parte più estrema del leghismo detto padano, di quella pseudo-antropologia che classifica come 'inferiori' le donne e gli uomini del Sud.
Il merito del testo di Tommaso Romano è di collegare gli eventi passati alla realtà odierna che si affretta a scrivere: ilmio Meridione non esclude né il Nord né tantomeno l'Europa e ancor di più l'intero Mediterraneo. Il libro non manca di esaltare la civiltà, l'accoglienza solare, autenticamente umana della terra di Sicilia, anche se paga e continua a pagare la sua atavica incapacità di apparire protagonista; uno dei frutti più evidenti è la tragedia di una gioventù che continua ad emigrare malgrado diplomi e lauree, intelligenze e meriti.
Il Sud resta da 150 anni sempre drammaticamente al palo - scrive Romano - Certo anche per le sue incongruenze e per l'incapacità di scuotersi come dovrebbe e forse potrebbe. In ogni caso - continua Romano - riflettere sul passato non appare pratica antichista né esercizio filologico, né tanto meno banale esaltazione dell' Ancien Regime, del bel tempo andato. In pratica studiare la nostra Storia significa comprendere e rimuovere la radice della crisi, in questo caso dei popoli meridionali.
Da buon politico l'autore sostiene che i problemi del meridione, tra l'altro ancora irrisolti, non sono nati per caso, ma non ci potrà essere futuro migliore, di reale integrazione senza riconoscere le cause storiche dei nostri problemi, senza studiare attentamente gli avvenimenti, non obliando la memoria.
Romano comincia il libro sostenendo la tesi che l'unità del popolo italiano c'era già ed è da ascrivere all'ethos della 'nazione spontanea', a quella dimensione profonda, 'transpolitica' secondo la definizione di Augusto Del Noce, che sedimenta nella coscienza determinando i tratti della tradizione di un popolo. Lo spirito italiano è dunque pre-politico, genetico e linguistico affonda le sue radici nella romanità, nella cultura greco-latina e nel medioevo cristiano da san Tommaso a san Bonaventura, da Dante a Petrarca, fino a Leonardo e Galilei, Vico e Rosmini, e non coincide certamente con la nascita dello stato unitario.
Nel II capitolo Romano ricorda con dati alla mano la profonda ricchezza del Regno delle Due Sicilie nel momento in cui viene barbaramente conquistato. Per evidenziare le ricchezze del Regno napoletano, Romano parte dall 'opera poderosa di revisione compiuta da Francisco Elias de Tejada nella sua monumentale Napoles Hispanica, edita da Controcorrente di Napoli, sulla presenza della corona spagnola, sul concetto missionario confederale e cristiano delle Hispanidad, a Napoli e nel Meridione.
Romano ci invita pacatamente a ripartire dalle condizioni sociali dell'Antico Regno prima dell'unità d'Italia. Scopriremo che il Sud si avviava ad essere, e in molti campi lo era, un Regno fra i maggiori d'Europa. Il libro di Romano snocciola una serie di dati, con riferimento alla cultura, l'arte, l'economia, la finanza, la politica, dove risulta che il Regno delle Due Sicilie era di gran lunga superiore al piccolo regno sardo, il Piemonte, riportando a pagina 25, le cifre del bilancio commerciale degli Stati italiani preuniti, tutti attivi tranne il Piemonte.
Addirittura all'Esposizione internazionale di Parigi nel 1856 il Regno delle Due Sicilie era premiato per il livello raggiunto e giungeva al terzo posto fra gli Stati, dopo Inghilterra e Francia.
Nel III capitolo Romano tratta della cosiddetta leggenda risorgimentale, sfatando i miti, i soliti schemi, che purtroppo ancora imperano nelle scuole e anche intorno ai festeggiamenti dei 150 anni dell'unità d'Italia. Dai re Borboni sempre inetti e pavidi, ai lealisti divenuti pessimi briganti da sterminare, malgrado la loro resistenza durerà fino al 1870. Alle vaste insurrezioni delle masse, come risvegli della volontà popolare, fino a scoprire che si è trattato di un movimento risorgimentale sempre sotto l'impulso di minoranze selezionate, di élite intellettuali, gruppi sparsi e sconnessi, spesso personaggi fantastici. Occorre sgombrare la storia del Risorgimento dalle tinte rosee, dall'oleografia demagogica. Le grandi masse furono estranee a questo movimento, il famoso 'grido di dolore', fu una vera e propria invenzione. Bisogna, scrive Romano, soffiarne via tutta la la teologia demo-massonica e umanitarista che gli storici impeciati di radicalismo vi hanno appiccicato.
Il Regno di Francesco II fu rapinato da un manipolo di uomini, per gran parte, bande armate provenienti dal malaffare (i cosiddetti "picciotti"), grazie ai tradimenti e alla corruzione dei capi militari, di aristocratici e politici. Romano fa riferimento allo stesso La Farina che in una lettera rivelatrice evidenzia di che pasta erano fatti i cosiddetti volontari di Garibaldi. Anche il testo di Romano descrive il mito Garibaldi, creato ad arte nelle logge massoniche d'Inghilterra. Colpisce la faccenda della morte della compagna Anita, pare per strangolamento, naturalmente tutto insabbiato.
Nel IV capitolo, Romano affronta il costo altissimo della conquista militare del Sud italiano. Alla fine si conteranno dopo dieci anni dall'unificazione, in tutto l'ex Reame, un milione di morti, fra civili, briganti e militari, 54 paesi rasi al suolo, 500. 000 prigionieri politici e una economia totalmente distrutta, con un carico fiscale aumentato dell'87 per cento.
Il professore Romano chiede, per tutti giustizia, pietà, pacificazione ma nella verità storica e nella chiarezza e non oblio in nome di una retorica lontana dal comune sentire, e neanche si pretende impossibili restaurazioni.
In Romano trapela appena qualche critica nei confronti della Lega e forse una certa sfiducia nella politica, ma certamente sono d'accordo con lui quando scrive che sono patetici certi esponenti di governi regionali del Sud che inneggiano al Risorgimento e a Garibaldi. Senza una profonda revisione culturale, a vecchi sistemi di potere se ne sostituiscono soltanto altri di pari matrice e non cambierà un bel nulla. Non bastano pertanto le dichiarazione e gli intenti - scrive Romano - bisogna risanare dalle menzogne, scuotere le coscienze, reagire, creare una cultura seria di governo non propagandistica o ad effetto e quindi obiettiva e documentata, in grado di rimettere a posto prima le idee e poi i mali della sanità, dell'istruzione, le infrastrutture, le industrie locali, la qualità della spesa pubblica, le grandi incompiute (a cominciare dalle ferrovie e dalle strade interne, specie in Sicilia).
Rozzano MI, 17 gennaio 2011
Festa di S. Antonio Abate, patrono degli animali
Postato da: giacabi a 18:43 |
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risorgimento
Il Padre della Bandiera Italiana: l'Abate Giuseppe Compagnoni
Il Padre della Bandiera Italiana:
l'Abate Giuseppe Compagnoni
(Lugo di Romagna, 3 marzo 1754 – Milano, 29 dicembre 1833)
l'Abate Giuseppe Compagnoni
(Lugo di Romagna, 3 marzo 1754 – Milano, 29 dicembre 1833)
L'abate
Compagnoni era una persona buona e semplice. Era un filologo, scienza
letteraria che si propone di studiare il passato attraverso le
testimonianze scritte. Era esperto di latino e greco, e di queste due
lingue impartiva lezioni negli istituti dove veniva chiamato. Al
collegio della "Viola"
dava ripetizioni di latino, ma era preparato anche nell'idioma
francese. Era nato a Lugo di Ravenna nel 1754. Quando divampò la
sommossa di De Rolandis e Zamboni aveva quindi 40 anni. Era umile
sorridente, stava bene assieme ai ragazzi. Giocava con loro e gli
correggeva i compiti. Si interessava di ciò che accadeva a Parigi, ma
non esprimeva mai commenti ad alta voce. Preferiva maturare nella sua
coscienza quelle "novità" che riteneva destinate ad attecchire in tutta
Europa. Nel segreto della sua cameretta, componeva piccoli poemi
romantici e poesie. Gli piacevano i classici e cercava di emularne la
metrica e l'impostazione. Alcune di queste opere erano particolarmente
gentili e riflettevano il suo carattere dolce e buono. Ma non osava
firmarle col proprio nome, gli pareva un atto di superbia, di boria, di
alterigia. La maggior parte di questi sonetti sono quindi firmati
"Ligofilo", termine che egli stesso aveva coniato sull'assonanza greca,
"amante della lettura" quasi un anagramma di "filologo" ma forse
lui intendeva "piccolo amico". Ed in questo pseudonimo c'è tutto il suo
carattere, schivo, dimesso e fragile. Intuì immediatamente che la
Rivoluzione, francese avrebbe sconvolto l'Italia e che la libertà
esportata da Napoleone avrebbe incendiato gli animi. Sommessamente
partecipò alle riunioni giacobine, standosene in disparte, com'era
principio del suo carattere. Sin dall'inizio del processo assistette
alle udienze aperte al pubblico, ma quando vide il suo allievo Giò,
trascinato in catene, col viso e il corpo lacerati dalle ferite delle
torture, la sua veste insudiciata di sangue, non resistette. Si tolse la
veste e abiurò i voti sacerdotali. Sulla scena politica lo ritroviamo a
Reggio Emilia, a fianco dell'avvocato Aldini, ove svolge mansioni di
segretario del convegno del 7 gennaio 1797. Quando
all'assemblea venne proposta l'adozione di una bandiera egli non esitò a
suggerire i colori della coccarda: verde, bianco e rosso, simboli di
Unità Nazionale, espressione di libertà, uguaglianza, giustizia. Gli furono affidati alcuni incarichi politici, ma Compagnoni
sapeva bene che quello non era pane per i suoi denti. E gradualmente si
ritirò. Si riavvicinò nuovamente alla Chiesa, ben consapevole che un
conto era il sacro messaggio di Cristo e altro conto le follie di alcuni
suoi ministri impazziti. Riprese l'abito talare e tornò alle sue
ricerche classiche. Scrisse anche alcune opere, ma non furono accolte bene. Le veglie del Tasso fu giudicato testo troppo retorico e pesante, Anti Mitologia un sermone noioso, Spedante è privo di spunti originali, scritto unicamente per confutare l'opera di Vincenzo Monti Sermone sulla. Mitologia. Così i giudizi dei critici lo condussero nell'anonimato di un silenzioso convento.
Estratto del verbale della seduta 7 gennaio 1797
Nel documento si legge: " ... Sempre
Compagnoni fa mozione che lo stemma della Repubblica sia innalzato in
tutti quei luoghi nei quali è solito che si tenga lo Stemma della
Sovranità. Decretato.del secondo Congresso riunito in Reggio Emilia, che reca la storica delibera, vergata manualmente, da Giuseppe Compagnoni. (Il documento è conservato presso l'Archivio di Stato di Milano) Fa pure mozione che si renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti. Viene decretato. Fà un'altra mozione, che alla testa di tutti gli atti pubblici si ponga L'intestatura - Repubblica Cispadana una ed indivisibile -. Si decreta pure questo. Dietro ad altra mozione di Compagnoni dopo qualche discussione, si decreta che l'Era della Repubblica Cispadana incominci dal primo giorno di gennaio del corrente anno 1797, e che questo si chiami Anno I° della Repubblica Cispadana da segnarsi in tutti gli atti pubblici, aggiungendo, se si vuole, l’anno dell’Era volgare. ... " E' indubbio che in questo testo "mozione che si renda universale lo Stendardo o Bandiera", non si parli di creazione di Bandiera, segno evidente che la Bandiera esisteva già. Mentre nel documento varato dal Senato di Bologna datato 18 ottobre 1796, è scritto chiaramente: "Bandiera coi colori Nazionali - Richiesto quali siano i colori Nazionali per formarne una bandiera, si è risposto il Verde il Bianco ed il Rosso," E qui invece si parla di formazione, ossia creazione. |
(Testo)
IL CONGRESSO DELLA REPUBBLICA CISPADANA CONVOCATO IN QUESTO PALAZZO NEL 21 GENNAIO DEL 1797 CONFERMANDO LE DELIBERAZIONI DI PRECEDENTI ADUNANZE DECRETÓ VESSILLO DI STATO IL TRICOLORE PER VIRTÙ D'UOMINI E DI TEMPI FATTO SIMBOLO DELL'UNITÀ INDISSOLUBILE DELLA NAZIONE ______________ MODENA VOLLE RICORDATO NEL MARMO IL FAUSTO AVVENIMENTO LIETO PRESAGIO ED ARRA AGLI ITALIANI DI CONCORDIA NELLA LIBERTÀ ______ 21 GENNAIO 1897 |
Questa stele si trova in piazza Martiri - Lugo, RA
|
Essendo il Compagnoni un uomo di grande cultura, ha trovato forse l'ispirazione nei versi dei Canto XXIX del Purgatorio dantesco (vv, 121 126) laddove le virtù teologali sono rappresentate da tre donne, vestite rispettivamente di Verde (Speranza), di Bianco (Fede) e di Rosso (Carità).
"Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;
l’altr’era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;"
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;
l’altr’era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;"
IL TRICOLORE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Il 19 giugno 1946 viene decretato il Tricolore dell'attuale Repubblica dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi con i poteri di Capo Provvisorio dello Stato; Guardasigilli Palmiro Togliatti. Nel testo della vigente Costituzione Italiana, promulgata il 27 dicembre 1947 dal Capo Provvisorio della Repubblica Enrico De Nicola, controfirmata dal Presidente dell'Assemblea Costituente Umberto Terracini e dal Presidente dei Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi, l'art. 12 stabilisce che la bandiera della Repubblica è il Tricolore italiano: "verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".
Le bandiere dello Stato e delle Forze Armate hanno delle misure determinate, esse sono:
1ª grandezza: larghezza m. 5,50 lunghezza m. 8,25
2ª grandezza: larghezza m. 4,00 lunghezza m. 6,00
3ª grandezza: larghezza m. 2 50 lunghezza m. 3,75
4ª grandezza: larghezza m. 1:50 lunghezza m. 2,25
5ª grandezza: larghezza m. 1,00 lunghezza m. 1,50
Bandiera delle Forze Armate istituita con D.L. n. 1252 in data 25.10.1947. Essa è di forma quadrata come tutti gli Stendardi dei reparti militari. Fu approvata dall'Assemblea Costituente il giorno 24 marzo 1947 ed è tutt'ora stabilita dall'art. 12 della Costituzione
Dal discorso di Giosuè Carducci, tenuto il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia per celebrare il centenario della nascita del Tricolore
"Sii benedetta! Benedetta nell'immacolata origine, benedetta nelle via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre, nei secoli! Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nosttro paese, dal Cenisio all'Etna; le nevi delle alpi, l'aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e sì augusta; il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l'anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de' poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi."
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risorgimento
RISORGIMENTO =DISTRUZIONE
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risorgimento
A 150 anni dalla malaunità
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di Francesco Agnoli - il Foglio del 26/09/2009A 150 dall’Unità si preparano le celebrazioni. Solo che stavolta, causa la crisi economica, i fondi sono pochi e quindi il fiume di retorica a pagamento forse non ci sommergerà. Chi scrive non sogna un’Italia pre-unitaria, né la divisione del paese, che oggi non interessa a nessuno. Anche la Lega ha utilizzato quest’idea più che altro come slogan, per farsi strada nel dibattito sul federalismo. E con indubbi risultati. Epperò, senza pensare affatto a improbabili nostalgie, è giusto piantarla con i miti fondatori. Altrimenti non si capisce nulla della nostra storia recente: dell’emigrazione di massa post unitaria; dell’aggravarsi del fenomeno del brigantaggio in meridione, dopo il 1960; della politica di Giolitti verso il sud del paese; della partecipazione dell’Italia a quell’ “inutile strage” che fu la I guerra mondiale; dello strapotere torinese e agnelliano nella storia italiana; dell’adesione delle plebi meridionali al fascismo, nel quale spesso videro una maggior attenzione alle loro esigenze; della nascita della Lega in Sicilia, all’indomani della seconda guerra mondiale, prima, e della Lega veneta e lombarda al nord, poi; infine, del partito del sud di cui si parla oggi. Ammettiamolo: Garibaldi, Cavour, Mazzini non hanno fatto risorgere nulla. Da cosa doveva risorgere la patria delle università, della scienza, della medicina, dell’arte, di Dante, Giotto, Cimabue, Petrarca….? La storia degli stati pre-unitari è storia sovente gloriosa, di repubbliche come Genova e Venezia, che hanno dominato i mari, di ducati come quelli di Mantova e Parma, delle decine di capitali che costellavano la nostra penisola… Insomma, il “bel paese” dove i romantici venivano a godere l’arte, la poesia, la musica, la buona cucina… Da cosa dovevamo risorgere, se non, come voleva Cavour, dalle tenebre della storia cristiana? L’unità politica ed economica era forse un’esigenza, benché i popoli della penisola non ne sapessero nulla. Anche Pio IX e buona parte del clero italiano la avrebbero appoggiata. Nei primi anni del Risorgimento non mancavano i sacerdoti e i seminaristi che partivano volontari, che agitavano la coccarda tricolore nelle strade, che si arruolarono nella I guerra di indipendenza. Ma ad un certo punto non fu più possibile farlo, perché si capì che chi si stava appropriando del movimento di unificazione voleva un’Italia elitaria, “illuminata”, che tagliasse le sue radici col passato. L’unità avrebbe potuto nascere per consenso, con la dovuta calma e cautela, federando stati, culture, economie diverse, e mantenendo uguali diritti per tutti. Coniugando la storia e i costumi del nord con quelli del centro e del sud. Invece Garibaldi, Mazzini, Cavour, le sette segrete, con l’appoggio di parte della borghesia capitalista, puntarono a fare dell’Italia un’appendice del Piemonte, con l’ausilio non degli italiani, ma dell’esercito di Napoleone e dei soldi dell’Inghilterra. Ha scritto Antonio Gramsci: “I liberali concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia…”. Si volle dunque fare dell’Italia un paese “liberale”, nel senso di borghese, dove contadini e operai non erano neppure considerati, mentre i diritti dei più ricchi erano garantiti dall’apertura delle frontiere, da leggi speciali a vantaggio di determinate industrie e di certe categorie di persone, e dal diritto di voto al 2% della popolazione (i benestanti). Anche da queste miopìe derivarono non solo i problemi del sud, ma anche i fatti di Milano del 1898, l’uccisione di Umberto I e un socialismo massimalista che avrebbe poi formato spiriti violenti e totalitari come quelli di Mussolini e di tanti uomini del PcI. Non è un caso che Torino, per una sorta di vendetta della storia, dopo essere stata la prima capitale dell’Italia borghese, liberale, industriale, sia divenuta poi una delle patrie del comunismo italiano, ed infine la meta di migliaia e migliaia di meridionali e di extracomunitari. La politica di Cavour fu quella, furbesca, ma non certo patriottica, del carciofo: annettere gli stati italiani uno alla volta, come si sfoglia un carciofo, cercando di volta in volta alleati ingenui, da scaricare al momento opportuno. Persino Napoleone III fu concepito come un uomo da addomesticare con una bella donna e promesse irrealizzabili. Il tutto in vista di un centralismo alla francese, giacobino, che rinnegava le storie molteplici, e persino la varia geografia, del nostro paese. Riguardo alla Chiesa si volle servirsi di Pio IX, contro l’Austria, con cui si cercò a tutti i costi un ‘casus belli’: e così facendo prima trascinarono il papa, controvoglia, nella guerra del 1848, poi lo dipinsero come un mostro reazionario, nemico della modernità. A tirare le fila di tutto, quei politici piemontesi, che si definivano liberali, ma che per raggranellare i soldi per le loro imprese espansionistiche confiscavano i beni della Chiesa e indebitavano l’erario statale, in attesa poi di riempirlo nuovamente, ai danni degli stati conquistati; che mandavano a morire i soldati sabaudi in Crimea, a migliaia di chilometri da casa, e avrebbero poi imposto una leva militare obbligatoria lunghissima, negli stati italiani ove essa non esisteva. In effetti la I guerra di Indipendenza costò 295 milioni di lire, cioè quanto lo stato spendeva in due anni e mezzo di vita pacifica; costò tanti uomini, troppi per un paese così piccolo. Mentre i Savoia concepivano i loro sogni espansionistici, pronti a servirsi di chiunque, e creavano uno stato a misura di borghesia rampante, a costruire scuole, tipografie, falegnamerie per i poveri piemontesi, per gli orfani e le vittime dell’industrializzazione accelerata di Cavour, ci pensava Giovanni Bosco; mentre i malati incurabili li raccoglieva, nella sua splendida opera della Provvidenza, il canonico Cottolengo. I diritti dei più forti erano garantiti, quelli dei deboli ignorati. In questo il regno dei Savoia era all’avanguardia: “Fino al 1844 i rapporti tra apprendisti, garzoni di bottega e lavoratori erano regolati, in Piemonte, da norme precise che difendevano il giovane e obbligavano il padrone a insegnargli bene il mestiere e a non sfruttarlo. Un editto reale del 1844 (strappato dai liberali in nome del progresso) ha abolito queste norme. Da quel momento i garzoni e i giovani operai sono rimasti soli e indifesi nelle mani del padrone. A otto, nove anni vengono gettati in un lavoro estenuante di 12-15 ore al giorno, in mezzo ad abusi, scandali, sfruttamenti, negli ambienti malsani delle fabbriche e delle officine”. Nello stesso 1844 i ragazzini al di sotto dei 10 anni impiegati nelle fabbriche piemontesi sono quasi ottomila. Lo stesso Cavour, favorevole al liberismo, mentre Giovanni Bosco raccoglie questi ragazzi per le strade, gli insegna un mestiere e cerca di strappare per loro la domenica libera e contratti migliori, afferma: “forse troppo poco ci curiamo di sapere che da noi, nei nostri opifici, le donne e i fanciulli lavorano quasi un terzo di più, se non il doppio di quello che si lavori in Inghilterra” (Teresio Bosco, “Don Bosco”, 1988, p. 201) Dopo la vittoria, grazie ai francesi, nella II guerra d’indipendenza, i sabaudi si sarebbero spinti al sud, tramite gli avventurieri di quel Garibaldi che nelle sue memorie scriveva: “Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente molto alle affamate popolazioni); sull’eucarestia, cioè sul modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque. Sacrilegio che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX…. Un’altra volta, dal balcone del palazzo della Foresteria io dicevo a codesto popolo: Il più atroce nemico dell’Italia è il Papa!” (Giuseppe Garibaldi, “Memorie”, Rizzoli). Cosa fece Garibaldi in meridione? Basterebbe leggere gli autori siciliani che credettero in lui, da Giovanni Verga a Luigi Pirandello. Oppure quelli che non gli credettero mai: tutti quelli di cui è stata cancellata in buona parte la memoria, come i sessanta vescovi meridionali allontanati dalle loro sedi “per trame politiche contro il regno d’Italia”. Bisognerebbe ricordare coloro che divennero “briganti”, non di rado per lottare contro l’occupazione; coloro che nei plebisciti avrebbero votato contro l’unità, ma poi si trovarono ingannati, perché quella che doveva essere la loro prima esperienza di voto libero, fu invece una beffa vera e propria. Tomasi di Lampedusa ce la descrive ne “Il gattopardo”, attraverso la figura di Ciccio Tumeo: “Io, eccellenza, avevo votato no… e quei porci in municipio si inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco”. Dopo Garibaldi, Vittorio Emanuele II e le leggi marziali applicate nel meridione. Dovunque esercito, coprifuoco, pena di morte eseguita con estrema facilità; deportazione sulle montagne del nord; prefetti e sindaci piemontesi, di nomina governativa, in quelle terre che si proclamavano “liberate”, e, infine, l’acquisizione della complicità di parte della nobiltà e della borghesia meridionale con la cessione di terre del demanio, di proprietà ecclesiastiche confiscate, e di posti a sedere nel Senato di nomina regia, e cioè, ancora una volta, piemontese. Ne “Il gattopardo” questo tentativo di comperare le elite meridionali, allo scopo di completare la piemontesizzazione di tutto, è descritto nell’incontro tra il messo del re, Chevallay, dal cognome poco italico, e il principe di Salina, che alla proposta di far parte del nuovo Senato, risponde: “Stia a sentire, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare…”; ma “in questi sei ultimi mesi da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e di portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male”. E’ proprio per la rilettura della storia del recente passato che in meridione pullulano, ultimamente, le riviste e i libri revisionisti che ribaltano la storia degli ultimi 150 anni, e presentano Garibaldi per quello che fu veramente. Per questo le infinite vie dedicate all’ “eroe dei due mondi” vengono ormai sempre più spesso eliminate e sostituite, con una certa enfasi, da sindaci e consigli comunali iconoclasti e stufi della retorica. Certo non basterà a risollevare un sud in perenne difficoltà, ma personalmente penso che questa revisione, se condotta senza inutili vittimismi e con un certo patriottismo “leghista”, possa fare più bene al nostro sud, risvegliando in esso un sano orgoglio, delle ennesime celebrazioni che vogliono trasformare i fatti storici in mitologia patria. Dietro il fenomeno Raffaele Lombardo, in ogni modo, c’è anche questo desiderio di rivincita, questa revisione del Risorgimento, che non deve però divenire volontà di rifugiarsi nel pozzo oscuro dei soldi “romani”. Sarebbe un paradossale ricadere nel centralismo risorgimentale.
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gramsci, risorgimento, agnoli
La vera storia del Risorgimento
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risorgimento
Il vero Risorgimento fu distrutto dal falso risorgimento
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risorgimento
La favola di Porta Pia s’infrange sui dati della storia
sabato 20 settembre 1870: la storia proibita
fonte Di Don Maurizio CERIANI – storia Libera
“A
volte ritornano…” e sono sempre loro, i falsi miti, le storie
mistificate, gli eroi finti del nostro Risorgimento. Noi Piemontesi, in
fondo, ci siamo pure affezionati, perché ne siamo stati i grandi
protagonisti. Furono i nostri Re, i nostri generali, le nostre armate a
“fare l’Italia” ed infine coronarono il grande sogno (ma di chi poi?) di
Roma capitale, il 20 settembre 1870.
Nei
piani misteriosi della Provvidenza i nostri trisnonni framassoni
fecero, senza volerlo, un gran favore a Santa Madre Chiesa, liberandola
da quel tipo di potere temporale ma, a vedere come andarono i fatti, non
c’è proprio nulla di cui essere orgogliosi nella mitica “breccia di
Porta Pia”, a cui augusti pensieri ancor oggi si levano al suono
dell’inno di Mameli.
11 settembre 1870
Era
l’11 settembre (da sempre gran brutta data) del 1870, alle cinque del
pomeriggio, quando 65.000 soldati piemontesi passano la frontiera tra il
Regno d’Italia e quello che resta dello Stato Pontificio.
Dieci
anni prima, sempre l’11 settembre, era iniziata l’aggressione alle
province pontificie delle Marche e dell’Umbria con l’offensiva di
Cialdini su Pesaro. Coincidono volutamente le date e coincidono anche le
modalità: aggressione ad uno stato sovrano senza dichiarazione di
guerra.
Nessuna
guerra è “legale” senza l’atto formale della sua dichiarazione, un
documento che denuncia gravi trasgressioni e accuse, che chiede
riparazioni e che prevede la soluzione armata qualora non vengano
accettate.
L’invasione
quindi va dalla storia annoverata tra gli atti di brigantaggio e
Vittorio Emanuele II (me ne dispiace assai!) finisce sottobraccio a
Saddam Hussein che centovent’anni dopo avanza tra le sabbie del Kuwait. A
posteriori si giustificò l’aggressione, motivandola col fatto che gravi
disordini erano scoppiati a Roma e nel suo contado per il malcontento
della popolazione oppressa dai mercenari papalini.
Peccato
però che a Roma fosse tutto tranquillo e che, a parte qualche attentato
terroristico ad opera di infiltrati stranieri, in quegli anni la gente
continuasse a volere un gran bene e Pio IX e a manifestarglielo in ogni
occasione.
Parola
di Garibaldi, nel suo “Il governo del monaco” del 1867: tutto il popolo
romano, salvo una sparuta minoranza, era clericale! Ci penserà Nino Bixio a fargliela purgare il 20 settembre.
I mercenari papalini
Dai
vecchi sussidiari delle elementari in su, l’esercito pontificio è così
descritto: mercenari papalini, soldataglia prezzolata arruolata tra la
feccia del pianeta, gente che per amor di soldo e saccheggio difendeva
il traballante trono di Pio IX e opprimeva il popolo romano, ultimo
residuo delle tristi compagnie di ventura del peggior medioevo. Se si
guarda con attenzione, si scopre le cose erano all’opposto. Di questi
“mercenari”, 13.624 per l’esattezza agli ordini del generale Kanzler,
8.300 erano romani e 5.324 volontari stranieri (tra cui una buona parte
italiani). Quindi più
di un terzo dell’esercito era costituito da sudditi pontifici,
volontari pure loro giacché nelle terre del Papa non vi era la
coscrizione obbligatoria.
Gli
stranieri erano ancor più strani “mercenari”, appartenevano per la
maggior parte alla nobiltà e alle classi possidenti e si vantavano di
militare sotto le insegne pontificie, non solo senza ricevere “soldo
alcuno”, ma pagando di tasca propria vitto, divisa e armamento.
Eloquente è la vicenda di Giuseppe
Sacchetti, fondatore nel 1868 del secondo circolo italiano di Azione
Cattolica, quello di Padova, e in seguito grande figura del giornalismo
italiano. Dopo aver fatto testamento, parte per Roma nell’agosto del
1870 per arruolarsi nel corpo dei volontari pontifici della riserva; ha
venticinque anni. Dalla Città Eterna scrive alla madre tre lettere,
rispettivamente il 31 agosto, il 4 e il 24 settembre, dalle quali appare
la sua straordinaria fede di giovane disposto al sacrificio supremo per
amore di Dio e del Pontefice e, contemporaneamente, ancora sottomesso
alla madre, tanto da chiederle il permesso per passare dalla riserva a
un corpo attivo e stabile.
La
risposta della madre la dice lunga sui sogni della gente italiana su
Roma capitale; la donna del Veneto cattolico non ha dubbi e sprona il
figlio “a difendere una causa tanto giusta che nobilita l’uomo e lo fa
maggiore di sé”.
Gli squadriglieri di Viterbo
La
provincia di Viterbo da sola fornì all’esercito di Pio IX 2.000
volontari, che organizzati e guidati dal colonnello Azzanesi, un
veterano di Castelfidardo, formarono il corpo degli squadriglieri
pontifici.
Erano
compagnie di contadini, vestiti col loro costume tradizionale, ben
addestrati alla guerriglia, perfetti conoscitori del territorio, armati
di tutto punto e ben inquadrati; avevano ripulito le province
meridionali del Patrimonio di San Pietro dal brigantaggio e soprattutto
avevano dato filo da torcere ai diversi tentativi di infiltrazioni
garibaldine del decennio 1860-1870.
Azzanesi
avrebbe voluto impegnare con i suoi uomini, in un’estenuante
guerriglia, l’esercito che, superato il Garigliano, avanzava verso Roma
da sud al comando del generale Angioletti, ma Pio IX era stato
tassativo: non voleva spargimenti di sangue, ma solo la chiara
dimostrazione per il mondo che il Papa cedeva solo davanti alla violenza
dell’invasione di un esercito nazionale.
Tra
il 12 e il 16 settembre, gli squadriglieri si ritirarono così senza
combattere, accolti e aiutati ovunque dalle popolazioni fedeli al
Papa-Re, mentre l’esercito piemontese entrava in Viterbo “liberata”
acclamato da una folla di dodici “patrioti”.
Le mura di Roma
A
parte la battaglia di Civita Castellana, dove 3.400 piemontesi, ebbero
la meglio sulla disperata resistenza dei 110 zuavi del capitano De
Rèsimont, dopo aver cannoneggiato per una mattina il vecchio castello
con una pioggia di duecentoquaranta proiettili da 18 bocche da fuoco (i
difensori avevano solo i fucili), Cadorna giunse sotto le mura di Roma
senza colpo ferire e il 15 settembre pose la città sotto assedio. A
parte Trastevere, col suo terreno dominante, Castel Sant’Angelo e le
mura bastionate della Città Leonina, nessun’altra zona di Roma poteva
pensare ad una difesa prolungata.
La
Città era infatti cinta, più che difesa, da Porta del Popolo al
Testaccio, da un lungo muro, che per lunghi tratti era ancora quello
edificato dall’imperatore Aureliano 1.500 anni prima, senza alcuna
piattaforma per posizionare l’artiglieria. Le mura, pensate per
difendere Roma in epoche ormai lontane e con altri criteri d’assedio,
erano troppo alte per piazzarvi i fucilieri e in alcuni punti così poco
spesse per opporre resistenza all’artiglieria.
La breccia di Porta Pia venne aperta in un tratto dove le fortificazioni avevano meno di un metro di spessore.
Il
16 settembre Pio IX, alle cinque del pomeriggio, uscì per l’ultima
volta dal palazzo apostolico per recarsi a pregare nella chiesa
dell’Aracoeli: una folla immensa lo acclamò ovunque, mentre volontari
romani accorrevano sulle mura della Città Leonina per unirsi agli
Svizzeri nella difesa della persona del Papa.
La giornata del 19 vide alcune scaramucce attorno alle mura e niente più.
Dopo
avere inviato a Kanzler alcuni inviti alla resa, puntualmente respinti,
il generale Cadorna aveva deciso di sferrare l’attacco all’alba del
giorno successivo per porre fine a quella che diceva essere “la
dominazione di truppe straniere che imponevano la loro volontà al Papa e
ai Romani”.
Nino Bixio “uomo d’onore”
La notte tra il 19 e il 20 settembre passò insonne entro le mura di Roma.
I soldati del Papa si confessarono tutti e ricevettero il viatico e l’unzione.
Erano
convinti di morire uno ad uno nella difesa, casa per casa, della Città
Santa. La croce rossa fu appuntata sul petto di quegli ultimi crociati e
risuonò per le mura il grido di “W Pio IX, W il Papa-Re”.
Cadorna
aveva pianificato di attaccare Roma lungo tutto il perimetro delle
mura, ad eccezione di quelle della Città Leonina, aprire diverse brecce e
penetrare in città da più parti per spezzare la difesa degli zuavi.
Alle cinque del mattino i cento cannoni italiani aprirono il fuoco
martellando le difese.
Sull’altra
sponda del Tevere il generale Nino Bixio, eroe dell’impresa dei Mille,
aveva posto il suo quartier generale a Villa Pamphili e aveva l’ordine
di attaccare Porta San Pancrazio e le mura fortificate di Trastevere.
Sicuro che il popoloso quartiere sarebbe insorto e gli avrebbe aperto le
porte e informato che il settore era difeso solo da truppe indigene,
Bixio aveva inviato emissari per invitare alla diserzione i difensori di
Trastevere; pensava che sarebbe toccata a lui la gloria di entrare per
primo in Roma “liberata”.
Per
questo tardò l’ordine di aprire il fuoco di circa un’ora. Non sapeva
però che solo tre giorni prima una delegazione di Trastevere era salita
dal Pontefice per offrire l’intera popolazione del quartiere come
guardia personale di quello che consideravano “il loro Papa”.
Iniziato
l’attacco, si avvide presto che la resistenza a Trastevere era più
decisa che negli altri settori: le mura solide non cedevano, gli
abitanti del quartiere erano saliti a difenderle e le sue truppe si
trovavano ora tra il tiro incrociato delle mura leonine e di quelle
trasteverine. Irritato, tra le otto e le nove, fece dirigere il fuoco di
alcuni cannoni sugli edifici all’interno delle mura, devastando case,
conventi e ospedali e facendo vittime tra i civili.
Poco
prima delle dieci, quando le artiglierie italiane avevano aperto una
larga breccia nelle mura di Porta Pia e si stava preparando l’assalto,
giunse alla porta un dragone a cavallo con l’ordine di resa da parte di
Pio IX: il Papa non voleva uno spargimento di sangue.
Alle dieci e dieci minuti la battaglia per Roma era finita.
Anche
sulle mura di Trastevere venne issata la bandiera bianca, ma le
batterie di Nino Bixio continuarono a bombardare il quartiere ancora per
mezz’ora.
Anche
dieci anni prima, ad Ancona, i cannoni di Cialdini e Fanti avevano
continuato a sparare per molte ore sulla città, rea di essersi arresa
all’ammiraglio Persano.
La gioia dei Romani liberati
I
Romani si chiusero in casa e sbarrarono porte e finestre, appendendo
drappi neri alle finestre in segno di lutto. Alcuni portoni di case
nobiliari non riaprirono i loro battenti che nel 1929, all’indomani
della “Conciliazione”.
Cinquemila
facinorosi, autoproclamatisi “esuli romani”, erano al seguito
dell’esercito ed entrarono subito in città, inneggiando a Vittorio
Emanuele e all’unità d’Italia, mentre nel pomeriggio treni speciali
portarono a Roma nuova gente a far gazzarra, al punto che “La Nazione”,
giornale liberale di Firenze, poté scrivere: “Roma è stata consegnata
come res nullius a tutti i promotori di disordini e di agitazioni, a
tutti gli approfittatori politici di professione, a coloro che amano
pescare nel torbido, ai bighelloni di cento città italiane. Si potrebbe
pensare che il governo voglia fare di Roma il ricettacolo della feccia
di tutta Italia”. I disordini continuarono per giorni in Roma finalmente
“liberata”.
tratto da: Il Popolo, (settimanale della diocesi di Tortona), 6.10.2005
Postato da: giacabi a 20:25 |
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IL RISORGIMENTO
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