Un grazie a Rostropovich
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da interviste:
Conosce una condizione o un’esperienza che possa stare alla pari con la musica?
«Solo la natura, la bellezza della natura. Mi spiego. Dicevo prima che la cosa contro la quale ho sempre lottato, nella vita, è l’abitudine, abitudine ai piaceri, alle emozioni, agli incontri. Così, quando esco di casa e vedo un albero, ancora riesco a pensare: è bellissimo. Una bellezza silenziosa. Ma nel silenzio c’è anche la musica. Per me la natura è la musica del silenzio»
L'immagine
di lei che suona il violoncello sotto la porta di Brandeburgo, a
Berlino, nei giorni della caduta del Muro, è un'icona del '900.
«Quando
sono andato al Muro di Berlino non è stato un atto politico, ma
personale. Ero a Parigi, la sera ho telefonato a un amico che mi ha
detto di accendere immediatamente il televisore, era di sera. All'inizio
non capivo, guardavo quelle immagini e non capivo. Quando ho capito le
lacrime hanno iniziato a scendere. Il Muro di Berlino nella mia vita ha
avuto il ruolo di una cicatrice sul cuore. Avevo 47 anni quando mi hanno
cacciato dall'Unione Sovietica, dopo i 47 anni è iniziata un'altra
vita. E queste due vite non si sono mai riunite. Quando ho visto che
buttavano giù il Muro di Berlino ho pensato che finalmente avrei potuto
avere la speranza che queste due parti della mia vita potessero
ricongiungersi. E come un pazzo la mattina successiva ho preso il
violoncello, sono salito su un aereo. Non
sono andato a Berlino a suonare per la gente, sono andato lì a suonare
affinché Dio mi ascoltasse, direttamente dal Muro di Berlino. Una specie
di preghiera di ringraziamento a Dio. E davvero, dopo quel giorno, le
mie due vite si sono riunite»
Su L'Eco di Bergamo del 3 giugno 2003
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Postato da: giacabi a 08:28 |
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rostropovich
Un grazie a Rostropovich
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Sotto il muro di Berlino
Enrico Parola
Incontro col più grande violoncellista vivente. Nel
1989 suonò sotto il muro che cadeva. «Era il simbolo della mia vita
divisa. Il suo crollo voleva dire che essa si poteva ricomporre»
«Adesso
segnati questo». Ti guarda dritto negli occhi, rivolgendoti l’indice
destro, e ripete sempre questa frase, quando vuole dirti qualcosa di
importante. Non riesci a dimenticare, nemmeno per un istante, che quel
russo corpulento che ti sta davanti è il più grande violoncellista di
tutti i tempi, ma l’evidenza più vivida è quella di trovarsi di fronte a
un grande uomo, che, come si suol dire, molto ha vissuto e che molto ha
da raccontare.
Pochi,
forse, potrebbero elencarne le incisioni fatte, le opere che tutti i
maggiori compositori contemporanei gli hanno dedicato e la sale da
concerto dove si è esibito; ma le immagini che lo ritraggono col suo
strumento sotto il muro di Berlino che sta cadendo, nel 1989, hanno
fatto il giro del mondo.
Perché lui, Mstislav Rostropovich, è fatto proprio così: «Nel
1978 mi era stata tolta la cittadinanza sovietica, e mi era negato
l’ingresso in qualunque Paese comunista». Tolta la cittadinanza a un
musicista, a un violoncellista: già questo è sintomatico. «Da allora la
mia vita era divisa, come spaccata in due: da una parte, in Russia, la
famiglia, i parenti, gli amici, i miei luoghi, il mio passato.
Dall’altra, la casa a Parigi, i concerti, le tournée. Quando mi chiamò
un amico, dicendomi di accendere il televisore, non capii
immediatamente. Vedevo gente che festeggiava, che si abbracciava, che
stappava bottiglie. Quando mi resi conto di cosa stava succedendo, mi
venne spontaneo precipitarmi sotto quel muro che cadeva: era il simbolo
della mia vita divisa, e il suo crollo voleva dire che finalmente essa
si poteva ricomporre. Ero ritornato completamente me stesso: non più da
una parte il concertista che viaggiava per il mondo e dall’altra la mia
storia fino ai 48 anni. Suonare
sotto il muro voleva dire esprimermi completamente, esprimere la gioia
di fare musica e la gioia di riabbracciare quel pezzo di vita che mi era
stato sottratto».
La domanda sorge spontanea: ma che cos’è
la musica, anzi, più in generale la bellezza perché un uomo possa
dedicarvi tutta la sua vita, e usarla per esprimere la gioia più grande?
«La musica è la cosa più bella che ha regalato Dio all’uomo: pochi suoni, ma molti strumenti. Ed è possibile fare tutto». L’affermazione, considerando chi sta parlando, potrebbe sembrare almeno un po’ faziosa. «La
musica è il linguaggio più universale che l’uomo possa concepire. Non
c’è distinzione di razza, di nazione, di tempo: la musica parla a tutti». La chiacchierata inizia a entrare nel vivo, soprattutto quando Rostropovich allarga la prospettiva. Perché proprio a tutti? «Prendi
Shakespeare: parla anche lui a tutti, ieri come oggi. Perché nelle sue
tragedie si trova mirabilmente descritto tutto ciò che è più profondo,
più proprio dell’uomo: l’amore, la speranza, la gioia, ma anche la
disillusione, il dolore e persino l’odio. Tutto ciò che un uomo può
scorgere dentro di sé, è stato espresso da Shakespeare e dagli altri
grandi geni della storia dell’umanità con commovente chiarezza. Pensa al
Romeo e Giulietta di Prokof’ev: la cattiveria, la morte di
Tebaldo, il dolore, e quel “do maggiore” usato per la morte di
Giulietta, così carico di speranza e di presentimento dell’aldilà».
Così
si sente chiedere come sia possibile essere sicuri di che cosa un
musicista volesse comunicare scrivendo questo o quell’altro pezzo,
ancora una volta dà una risposta spiazzante: «È chiaro». Punto e basta.
Vorresti almeno un accenno al cuore dell’uomo, alla sua capacità di
conoscere, puoi anche insistere, ma lui ti guarda e ripete «È chiaro».
Ed è chiaro, e lo sai benissimo. È chiaro per te come sai che è chiaro
per lui: basta vederlo suonare o dirigere, basta, semplicemente,
sentirlo parlare. Ad esempio quando, per farmi capire il nesso tra la
musica, la bellezza che ne costituisce la forma, la verità che comunica e
la libertà dell’uomo, dopo aver scherzosamente sbuffato («Non hai una
domanda più facile?»), racconta di come i russi ascoltavano le musiche
di Shostakovich. «Eravamo
sotto il regime, e nessuno poteva parlare della situazione vigente. Ma
quella musica, attraverso quella musica Shostakovich raccontava la
verità ai russi. In quelle note era descritta veramente la loro vita,
come non potevano trovar descritta in nessuna altra parte. La gente
veniva al concerto per sentirsi dire la verità su di sé, e, mi capitava
spesso, quando ero sul podio, di veder qualcuno piangere. Niente della
loro storia era sottaciuto. Vedi - e fa ancora il gesto con l’indice, per sottolineare l’importanza della cosa - Shostakovich
parlava di cose dolorose, ma la musica che le descriveva era così
bella, così perfetta, che diveniva impossibile a chi era lì di pensare
alla propria tragedia senza percepire una seppur flebile, ancora sfocata
speranza. Se anche da una condizione così brutta può nascere una cosa
così bella, allora in una cosa così brutta non può non esserci il posto
per la speranza». Eccoci serviti. Senza
astruse disquisizioni filosofiche, è la storia, è la realtà che fa
emergere potente e, a chi vuole, inequivoca, la verità.
Quando
cita Dostoevskij («Solo la bellezza salverà il mondo», riprendendo
Solov’ëv), c’è dentro tutto il sangue, il dolore e i fatti di una vita.
La
musica di Shostakovich, il crollo del muro di Berlino: per poter
sperare c’è bisogno di qualcosa di reale, di vero. E la bellezza, la
musica, non sono meno concrete dei mattoni, franti, di un muro.
di Enrico Parola
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Postato da: giacabi a 07:52 |
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rostropovich
Un grazie a Rostropovich
Una ribellione senza mezzi toni
di Renzo Foa
da:www.ilgiornale.it/n. 100 del 2007-04-28 pagina 31
Il mito pubblico di Mstislav Rostropovich è in gran parte legato a quelle immagini, che fecero il giro del pianeta e che amplificarono la musica - erano note di Bach - davanti al Muro di Berlino finalmente crollato.
Testimoniò così la riunificazione del mondo, quindici anni dopo aver
sofferto in prima persona la sua divisione, quando fu costretto a
lasciare la sua terra e a spezzare in due la sua vita. Fu l’inno della
ricomposizione. Di una gioia mite, non affidata alle parole, ma alle
corde del violoncello. Il
senso della sua presenza nel ’900 va però oltre quel gesto simbolico. Il
suo vero gesto simbolico fu precedente, quando diventò uno dei «grandi
ribelli» del secolo, nel momento in cui rifiutò di essere
corresponsabile della ricomposizione del regime sovietico, dopo
la breve stagione del «disgelo kruscioviano». Se gli anni ’60 in
Occidente sono ricordati come la stagione della «liberazione», a Mosca
quel che avvenne fu esattamente l’opposto. E Rostropovich fu tra coloro che fecero la scelta più difficile e più scomoda, quella di resistere nelle forme possibili.
Quando decise di aiutare Aleksandr Solzenitsjn, sapeva che non gli sarebbe stato perdonato. Che il nome più grande della musica sovietica avrebbe potuto far tutto, ma non permettere a uno scrittore che il regime voleva costringere al silenzio di continuare a vivere e a scrivere; non criticare i processi che via via colpivano gli intellettuali; non sostenere quel fenomeno chiamato «dissenso» che stava assumendo un ruolo sempre più importante perché coinvolgeva pensiero e cultura. In altre parole, sapeva che non gli sarebbe stato consentito di ribellarsi al conformismo. Quando decise di scrivere una lettera aperta a Breznev e di farla pubblicare in Occidente - perché nessun organo di stampa a Mosca ne avrebbe fatto parola - era consapevole del fatto che per lui quel gesto avrebbe significato una condanna all’emarginazione, a quello che si chiama «esilio interno». Che sarebbe stato costretto ad emigrare all’estero. Rostropovich e poi Solzenitsjn e poi Andrej Sacharov: quando vengono pronunciati questi nomi, oggi sembra un po’ riduttivo iscriverli alla categoria del «dissenso». Si trattò di una rete che, sia in Unione Sovietica sia in Polonia, in Cecoslovacchia e altrove, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli ’80 svolse un ruolo decisivo. Coinvolse essenzialmente delle élites e mostrò che il secondo totalitarismo del secolo era contestato e sfidato dall’interno, da persone che non avevano paura di finire in prigione o nei campi di lavoro. Persone, come poi ricordò Anatolij Sharanski, che sapevano anche di essere minoranza in Europa quando venivano colte da un infinito senso di felicità nell’apprendere che Reagan aveva finalmente parlato di «impero del male». Però nel gesto che lega Rostropovich e Solzhenitsyn e Sacharov c’è qualcosa di più del «dissenso». Quando il più grande musicista, il più grande scrittore, il più grande scienziato dicono «no» al potere esprimono una ribellione individuale non richiesta. Testimoniano di poter sacrificare il loro rango, il loro ruolo, i loro titoli a una condizione che considerano insopportabile. Propongono un gesto che ha un significato infinitamente superiore a quello della semplice azione politica. È, appunto, la ribellione dell’élite intellettuale. Venne capita allora? A rileggere oggi gli anni ’70 - l’esilio di Rostropovich, l’uscita di Arcipelago Gulag, la nascita di Charta 77 a Praga e così via - sembra di no. Parlo di una stagione in cui sembrava a tutti, con rare eccezioni, che la divisione in due del mondo ci sarebbe sempre stata e che il comunismo sarebbe stato eterno. In cui il problema era essenzialmente trovare la misura di una coabitazione. Allora, era quasi considerato normale che la classe dirigente della seconda potenza mondiale potesse decidere di privarsi di Rostropovich, la leggenda del violoncello. Esattamente nello stesso modo in cui aveva ritenuto di mettere a tacere per poi esiliare Solzhenitsyn. Per non parlare dell’arresto e della deportazione di Sacharov. Era considerato normale, ma era l’anticamera dell’estinzione di un regime che riteneva di non aver bisogno delle intelligenze. Anzi, le considerava «nemiche». Oggi, invece, sappiamo che Rostropovich non solo ha vinto il suo Novecento, rappresentandone l’epilogo nel novembre del 1989 a Berlino. Sappiamo anche perché è riuscito a vincere, nonostante non sia stato un leader politico e abbia sempre usato in modo mite l’arma della parola. È riuscito a vincere perché ribellandosi al totalitarismo, si è ribellato anche al conformismo che lo sorreggeva in patria e all’estero. Così come Solzenitsjn, così come Sacharov. È stata cioè la ribellione dell’intelligenza. |
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