VIDEO/
Don Aldo e Rose, l'amore che sconfigge la morte (Sulla via di Damasco, Raidue 9/01/10)
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DON ALDO IN PARAGUAY - Don Aldo racconta la sua esperienza alle telecamere di Sulla via di Damasco,
andato in onda su Raidue sabato 9 gennaio. Un esperienza costituita
dalla dedizione ai più poveri tra i poveri del Paraguay: i malati
terminali, le bambine che hanno subito violenza, i bambini più
emarginati della società. Sono coloro di cui Don Aldo si occupa nella
clinica che ha messo in piedi la “Cittadella dell’Amore Asucncion”. In
che modo? «Una ragazza di 27 anni, ormai alla fine» - racconta Don Aldo
nel filmato - «viene in clinica dicendo “io voglio suicidarmi”. Gli ho
risposto» - continua - «Gloria, abbi pazienza, portiamo insieme questo
dolore. La ragazza, due giorni dopo, mi dice: “padre, io sto molto
bene”». Non ha fatto miracoli Don Aldo. Ha solamente avuto nei confronti
della ragazza, come di tutti gli emarginati che assiste «uno
sguardo di tenerezza, uno sguardo di amore. Che è ciò che fa capire
all’altro che la morte è un passaggio necessario, ma non è la sconfitta,
è l’inizio della primavera»
ROSE IN UGANDA - In onda durante la stessa puntata, di Sulla via di Damasco
Rose Busingye racconta un’altra esperienza, in cui un’altra volta
la morte è sconfitta dall’amore. Rose, che ha dato vita
all’International Meeting Point per curare i malati di Aids in Uganda,
afferma: «Sono entrata nel mondo dei malati per digli che Dio gli vuole
bene così come sono. Ciò che viene prima è l’io. Rispondendo ai
loro bisogni, non solo il cibo, le medicine, o le adozioni, dico che la
loro vita ha un senso. Camminiamo insieme per scoprire quale sia questo
senso».
Il
suo progetto? «Far comprendere ad ogni uomo» - dice Rose «grande o
piccolo che sia, che se capisse che è molto più grande di quello che può
immaginare, la vita sarebbe più leggera». Come si fa? Semplice. «Puoi
spiegare loro un metodo. Ci vuole un anno. Possono accorgersi di uno
sguardo. Ci vuole un secondo».
Da: http://www.ilsussidiario.net/ |
Postato da: giacabi a 16:31 |
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rose busingye, padre trento
Rose Busingye
mercoledì 30 settembre 2009
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Il
titolo del Sinodo africano è “La Chiesa in Africa a servizio della
riconciliazione, della giustizia e della pace”. La realizzazione di
questo programma dipende tutta dal cuore dell’uomo africano e dalla sua
educazione. Cristo
è venuto, la questione è accorgersi che questo cambia tutto, cambia il
mio modo di trattare me stessa e di comportarmi con gli altri e con le
cose. La questione è l’appartenenza a Lui. Appartenenza vuol dire essere
stata preferita, vuol dire che Qualcuno mi ha voluto. Questo supera
tutti i contrasti che abbiamo fra tribù, politici e altri interessi
costituiti. Veramente la pace per l’Africa dipende dall’incontro tra il
cuore dell’uomo e Cristo. Perché l’appartenenza a Cristo supera
l’appartenenza al gruppo tribale e colloca quest’ultima al giusto posto,
col giusto valore. Ma questo avviene solo se la fede penetra gli strati
profondi dell’umanità, arriva là dove si formano i criteri di
percezione delle cose. Allora l’appartenenza diventa la forza dell’io, e
la persona diventa libera e protagonista.
Perché
questo avvenga è fondamentale l’educazione. L’uomo africano ha un
altissimo senso religioso, ha un fortissimo senso dell’appartenenza, ma
essi devono essere educati. Ci si deve educare ad accorgersi che il
compimento è già con noi, che la risposta è già presente, e non è una
magia o un modo di credere sentimentale che la rendono presente. L’uomo
africano possiede un senso religioso veramente alto, non c’è un africano
che non sia consapevole di dipendere da Qualche cosa di Altro, che non
abbia questo senso di dipendenza da Qualcosa. Lo chiama “Spirito” o con
un altro nome, lo cerca nelle magie, ma comunque non può vivere senza
avere qualcosa da cui dipendere. Nessun africano mai direbbe, come fanno
tanti europei, «sono nato, adesso sto qua e questo è tutto». No:
l’africano ha sempre viva la questione dell’origine.
L’incontro che manca
Il
problema è che la maggior parte degli africani, e anche dei cristiani,
non può testimoniare di un incontro in cui si è sentito dire: «Sono Io
che cerchi». Perché troppo spesso Cristo non è stato presentato come
qualcosa che è già presente in noi, ma come qualcosa che arriva dal di
fuori.
Così oggi tanti studiosi africani scrivono che il Dio cristiano è stato
importato dai bianchi e che il cristianesimo non è riconciliato con
l’identità e la cultura africane. Per me e per tanti amici non è così,
perché il modo in cui ci è stato presentato il cristianesimo, attraverso
la persona di don
Luigi Giussani e di chi lo seguiva, è stato diverso. È come se ci fosse
stato detto: «Tutto quello che hai cercato negli spiriti, nelle magie,
c’è già, è presente, è quello che ha fatto te, ti ha fatto nascere, ti
fa respirare. E io ti dico il suo nome». Invece
è come se a tanti africani chi ha presentato il cristianesimo avesse
detto: «Metti via tutti gli idoli, tutte le tue cose, io ti ho portato
Dio, io ti ho portato Cristo». Come se Cristo fosse una proprietà. Ma
Cristo non lo possiede nessuno, viene come vuole Lui, come disegna Lui,
viene in ogni uomo di questo mondo.
La magia, gli spiriti e la vita quotidiana
La
conseguenza del non presentare Cristo come qualcosa che è in te, ma
come qualcosa che viene da fuori, fa sì che alla fine, per molti, c’è un
Dio del bianco e un Dio dell’africano. E quando c’è una difficoltà, una
malattia, anche i cristiani a volte guardano dalla parte del Dio
africano e dicono: «Forse sono gli spiriti». Così vanno da quelli che
voi europei chiamate gli “stregoni”. Che riempiono la loro mente di
paura. Gli stregoni li terrorizzano, la loro mente si riempie di
reazioni che vengono dalla paura: e loro stessi si convincono che per
guarire la loro mente dovrà essere torturata e riempirsi di credenze
frutto della paura. Anche le sètte che mescolano il cristianesimo con
gli spiriti, quelle dei cosiddetti “salvati”, seguono lo stesso metodo
degli stregoni: producono agitazione e suggestione nella mente, ti
convincono che la presenza di Dio o degli spiriti buoni è legata a una
magia, e che tutto nella vita può essere ottenuto in modo magico. È un
Dio che ti dice: «Posso farti avere tutto per magia». Ma non è un Dio
che entra nella tua vita normale, che la vive con te, che la porta con
te. È un Dio della suggestione psicologica: alla fine della preghiera ti
senti guarito, ma il giorno dopo stai peggio di prima.
Ma
Dio è questa tenerezza che è venuta nel mondo, che ha avuto pietà di
noi e ci tocca tutti quanti. È ciò che Benedetto XVI ha espresso nelle
sue tre encicliche, soprattutto nella Deus caritas est, dove descrive
Dio con questo amore infinito: «la pazzia divina», come ha scritto. La
pace e la riconciliazione nascono da questa esperienza di Dio: Dio ha
preso me, che ero niente e che sono niente, mi ha preso così come sono, e
nella quotidianità. Quel che viene naturale dire è: «Io voglio
partecipare a questa pazzia di Dio, a questo essere di Dio». Questa
cosa, nel tempo, fa sì che non mi adiro più per i peccati altrui, per le
ingiustizie che l’altro ha compiuto nei confronti miei e di altre
persone. Nell’esperienza dell’amore divino, non ha più senso che io
misuri i peccati miei e degli altri.
Nel tempo questo produce serenità e il desiderio che il mio incontro
con ogni essere umano sia tenerezza, non uno sforzo o un ripetere parole
o un cercare di essere più bravi degli altri.
Qui
da me a Kampala arrivano ragazze di tribù ostili alla mia, giovani che
hanno combattuto o sono stati bambini soldato. Dovrei averne paura o
provare disprezzo per loro. E invece queste cose non mi toccano più: per
me sono persone amate e volute da Dio, che hanno continuamente bisogno
di essere amate e volute. Se hanno bisogno di mangiare do loro da
mangiare, se hanno bisogno delle medicine do loro le medicine. Quando
arrivano le accolgo come tutti gli altri bambini, non in base al
discrimine se hanno rubato e ucciso oppure no. Appartengono a Cristo, e
quindi appartengono anche a me.
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Postato da: giacabi a 16:00 |
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rose busingye
PRIMO MAGGIO
Che senso ha il lavoro per donne malate di Aids che spaccano sassi in Uganda?
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Intervista a Rose Busingye da: Il Sussidiario:
Troppo spesso abbiamo un’idea un po’ convenzionale del lavoro: l’ufficio, le giornate passate di fretta, le telefonate. Ma la dimensione del lavoro è qualcosa di molto più profondo, e valido in qualunque circostanza. Ad esempio: che cosa significa lavorare per una donna malata di Aids che vive in Uganda e passa la giornata a spaccare le pietre? Non è un esempio inventato: è la realtà della maggior parte delle donne del Meeting Point International di Kampala, donne sieropositive che hanno trovato in questo luogo un motivo per affrontare con gioia la fatica del vivere. E l’incontro con il significato della vita ha per queste donne un nome preciso: è Rose Busingye, fondatrice e ora presidente del Meeting Point Kampala Association.
Rose,
oggi è la festa del lavoro: una festa che spesso qui da noi è segnata
da una certa connotazione politica e ideologica. Qual è per te il senso
del lavoro?
Innanzitutto una persona lavora bene e con soddisfazione solo quando sa chi è e sa a chi appartiene. Questa consapevolezza rende la vita avvincente, e permette di affrontare il lavoro sapendo il perché della propria fatica; quando una persona scopre il senso del vivere, allora anche il lavoro diventa espressione di questo. E ciò vale naturalmente in qualsiasi circostanza: sia per chi sta davanti al computer tutto il giorno, sia per chi, come molte delle donne del Meeting Point di Kampala, passa la giornata spaccando sassi. Non c’è differenza, perché il lavoro più grande è far venire a galla il valore della singola persona.
Che
cosa spinge le donne del Meeting Point, malate di Aids, a continuare ad
impegnarsi nel lavoro, anziché abbandonare tutto e lasciarsi andare?
Innanzitutto le donne che lavorano qui scoprono il fatto che la loro vita non è definita dalla malattia, ma da qualcosa di più grande. Da qui nasce l’impegno a lavorare anche duramente per migliorarla questa vita, che è così preziosa: nasce una grande responsabilità su sé stessi. È solo un io così, costituito da qualcosa di più grande, che può affrontare ogni giorno le fatiche e le crisi, sia personali, sia dovute alla malattia.
Prima accennavi al fatto che il tipo di lavoro di queste donne è molto duro: potresti spiegarci bene che cosa fanno?
Sì, come dicevo, molte delle donne che sono qui ospitate al Meeting Point di lavoro spaccano i sassi, riducono le pietre in pezzi piccoli e poi li vendono ai costruttori. E lavorano tutti i giorni, tranne il giovedì, che è una giornata di canti, di danze e di lavori manuali, quindi più leggera. Ma lo spaccare i sassi è comunque un lavoro che devono continuare a fare, altrimenti non hanno letteralmente da mangiare. Sono mamme, con figli che vanno a scuola mentre loro lavorano; le spese scolastiche vengono per la maggior parte finanziate con le adozioni a distanza. Un’altra cosa importante che caratterizza il loro lavoro è che stanno in gruppo, fanno tutto insieme, e si danno una mano vicendevolmente.
Che cos’è che unisce queste donne, così da aiutarsi anche sul lavoro?
Le nostre donne sono come una vera e propria banda. Pensate: addirittura è capitato che una volta è venuta la polizia per cercare una delle donne. Prima ancora di sapere il perché, le donne si sono schierate davanti ai poliziotti dicendo: “non vi diamo la nostra sorella”. Si difendono proprio come tra fratelli. E poi accolgono anche i bambini orfani, li portano a casa e danno loro da mangiare quello che danno ai propri figli.
Tra le tante storie di queste donne, ne hai qualcuna in particolare che secondo te merita di essere raccontata?
Sono tutte importanti, ed è quasi impossibile raccontare una storia singola, diversa dalle altre: loro sono come una tribù, vanno insieme ovunque, non solo al lavoro, ma anche all’ospedale per prendere le medicine. E le persone che le vedono dicono: queste stanno meglio di noi, anche noi vogliamo stare qua e vivere con loro. Persone sane e ricche dicono questo di donne povere e malate di Aids. Questo accade perché vedono persone cambiate, in cui la fede è penetrata nei tratti profondi della vita, arrivando dove si forma la percezione di sé e delle cose. La fede redime, nel senso che permette di stare di fronte a un sasso da spaccare sapendo che quello non ti definisce. In questo senso la cultura diventa una bellezza di vivere; ma devi incontrare qualcuno che ti dà questo senso.
Eppure rimangono persone povere, che continuano a vivere in una grandissima difficoltà.
Racconto un episodio, per spiegare bene questo punto. Quando è venuto l’ambasciatore italiano, una donna parlandogli ha detto: “non pensare che noi siamo poveri, perché in realtà siamo più ricchi degli altri”. L’ambasciatore a sentire questo si è commosso. Queste donne non sono povere perché hanno scoperto che c’è qualcuno che le ama, e quindi sentono di avere quello che molte altre persone non hanno. E questa constatazione non è solo spirituale, ma arriva fino agli aspetti più concreti, al punto che in alcuni casi hanno voluto anche donare un po’ di soldi ad altre persone in difficoltà.
Cioè?
Quando ad esempio c’è stato l’uragano Katrina negli Stati Uniti hanno voluto raccogliere un po’ di soldi per mandarli alle persone in difficoltà. E anche adesso con il terremoto in Abruzzo hanno avuto una reazione straordinaria, e totalmente spontanea. Hanno detto: «quelle persone ci appartengono, sono dei nostri, perché sono della “tribù di don Giussani”!». E hanno raccolto un po’ di soldi: sono pochi, ma hanno un valore immenso. Anche perché la persona che è in difficoltà non sente tanto il bisogno dei soldi, quanto il fatto che dentro quel gesto possa avvertire la presenza di qualcuno che dice: non piangere, io sono con te. |
Postato da: giacabi a 22:16 |
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rose busingye
AFRICA/ 1. Jovine (malata Aids):
senza marito e con sei figli ormai orfani, a che mi servono i condom?
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venerdì 20 marzo 2009
Discutere
del problema dell’Aids dalle redazioni dei giornali o dagli uffici
politici delle varie istituzioni europee è una cosa; parlarne avendo
negli occhi la situazione di decine di donne sieropositive, e dei loro
figli che hanno preso il contagio, è tutt’altro affare. Rose
Busingye dirige il Meeting Point di Kampala, un luogo di rinascita per 4
mila persone, tra malati e orfani, altrimenti condannate a vivere nel
silenzio e nell’abbandono il loro destino di marchiate dall’Hiv.In
questo luogo di intensa umanità, le polemiche sull’uso del preservativo
per abbattere il flagello dell’Aids giungono come un’eco lontana.
Rose, che effetto le fa sentire tante voci polemiche intorno a un problema col quale lei lotta ogni giorno?
Chi
alimenta la polemica intorno alle dichiarazioni del Papa deve in realtà
capire che il vero problema della diffusione dell’Aids non è il
preservativo; parlare di questo significa fermarsi alle conseguenze e non andare mai all’origine del problema. Alla radice della diffusione dell’Hiv c’è un comportamento, c’è un modo di essere. E
poi non dimentichiamo che la grande emergenza è prendersi cura delle
tante persone che hanno già contratto la malattia, e per quelle il
preservativo non serve.
Però
resta il fatto che comunque si può fare qualcosa per evitare che il
contagio si diffonda ulteriormente: in questo caso la prevenzione non è
uno strumento utile?
Riporto
un esempio, per far capire come veramente a volte non ci si rende conto
della situazione in cui viviamo qui in Africa. Un
po’ di tempo fa erano venuti alcuni giornalisti per fare un reportage
sull’attività del Meeting Point: videro la condizione delle donne
sieropositive che sono qui, e rimasero commossi. Decisero allora di
rendersi utili, facendo un piccolo gesto per loro: regalarono alcune
scatole di preservativi. Vedendo questo, una delle nostre donne, Jovine,
li guardò e disse: «Mio marito sta morendo, e ho sei
figli che tra poco saranno orfani: a cosa mi servono queste scatole che
voi mi date?». L’emergenza di quella donna, e di tantissime altre come
lei, è avere qualcuno che la guardi e le dica: «donna, non piangere!».
È assurdo pensare di rispondere al suo bisogno con una scatola di
preservativi, e l’assurdità è nel non vedere che l’uomo è amore, è
affettività.
E per quanto riguarda invece le persone che possono avere rapporti con altre e diffondere il contagio?
Anche lì vale lo stesso discorso: bisogna innanzitutto guardare la loro umanità. Una
volta stavamo parlando ai nostri ragazzi dell’importanza di proteggere
gli altri, di evitare il contagio; uno di loro si mise a ridere,
dicendo: «ma cosa me ne importa, chi sono gli altri? Chi sono le donne
con cui vado?». E un altro diceva: «anch’io sono stato infettato, e
allora?». L’Aids è un problema come tutti i problemi della vita, che non
si può ridurre a un particolare. Bisogna innanzitutto partire dal fatto che bisogna essere educati, anche nel vivere la sessualità. Ma
l’educazione riguarda innanzitutto la scoperta di sé stessi: la persona
che è cosciente di sé, sa che ha un valore che è più grande di tutto.
Senza la scoperta di questo valore – di sé e degli altri – non c’è nulla
che tenga. Anche il
preservativo, alla fine, può essere usato bene solo da una persona che
abbia scoperto qual è il valore dell’umano, se ama veramente, e se è
amato.
Si pensa forse che dove il preservativo viene distribuito non prosegua
il contagio dell’Aids? E poi in certi casi il discorso del preservativo,
nelle condizioni in cui ci troviamo, può sembrare a tratti anche
ridicolo.
In che senso?
Pochi
giorni fa, ad esempio, abbiamo fatto vedere alle nostro donne che cos’è
il preservativo, spiegando anche le istruzioni per l’uso: prima di
usarlo bisogna lavarsi le mani, non ci deve essere polvere, deve essere
conservato a una certa temperatura. Sono state loro stesse a
interrompermi: lavarsi le mani, quando per avere un po’ d’acqua dobbiamo
fare venti chilometri a piedi? E poi la polvere: anche qualche granello può essere pericoloso e rischiare di strappare il preservativo. Ma queste donne spaccano le pietre dalla mattina alla sera, e hanno la pelle delle mani screpolata e dura come la roccia! Per questo dico che si parla senza minimamente conoscere il problema e la condizione in cui ci troviamo.
Alla
luce di questa diffusa ignoranza riguardo ai problemi reali della gente
che vive in Africa, che effetto le fanno le polemiche contro il Papa?
Il
Papa non fa altro che difendere e sostenere proprio quello che serve
per aiutare questa gente: affermare il significato della vita e la
dignità dell’essere umano. Quelli che lo attaccano hanno
interessi da difendere, mentre il Papa di interessi non ne ha: ci vuole
bene, e vuole il bene dell’Africa. Da lui non arrivano le mine che fanno
saltare per aria i nostri ragazzi, i nostri bambini che fanno i
soldati, che si trovano amputati, senza orecchie, senza bocca, incapaci
di deglutire la saliva: e a loro cosa diamo, i preservativi?
In effetti l’Aids non è certo l’unico problema che attanaglia l’Africa.
Ci
sono moltissimi altri problemi e situazioni tragiche su cui c’è totale
indifferenza. Quando qualche anno fa c’è stato il genocidio del Ruanda
tutti stavano a guardare. Qui vicino c’è un paese piccolissimo, che
poteva essere protetto, e non si è fatto nulla: lì c’erano i miei
parenti, e sono morti tutti in modo disumano. Non si è mosso nessuno, e
adesso vengono qui con i preservativi. Ma anche a livello di malattie
vale lo stesso discorso: perché non ci portano le aspirine, o le
medicine anti-malaria? La malaria è una malattia che qui miete più vittime rispetto all’Aids.
Qual è la situazione ora in Uganda riguardo alla diffusione dell’Aids?
In Uganda si stanno facendo grandi progressi, e il nostro presidente sta operando benissimo e ottenendo ottimi risultati. E il suo metodo non è puntare sulla diffusione dei preservativi, ma sull’educazione: ha
istituito un ministero per questo, e ha mandato la gente in giro, nei
villaggi di analfabeti per educarli a un cambiamento della vita. La
moglie del presidente è stata qui da noi poco tempo fa, e ha detto con
forza che il vero punto che può far cambiare la situazione è smettere di
vivere come i cani o i gatti, che devono sempre soddisfare i loro
istinti; e ha parlato del fatto che l’uomo è dotato di ragione, che lo
rende responsabile di quello che fa. Se l’uomo rimane legato all’istinto
come un animale, dargli un preservativo non serve a nulla. Questo è il metodo che sta dando risultati, e ha portato la diffusione dell’Aids in Uganda dal 18% della popolazione al 3%. Il
metodo funziona, e il cuore del metodo è fare in modo che la gente si
senta voluta bene. Lo vediamo qui al Meeting Point: quando le persone
arrivano qua, non vogliono più andare via.
(Rossano Salini) da: http://www.ilsussidiario.net/
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Postato da: giacabi a 20:15 |
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rose busingye
È Lui che prende una cosa che è niente e la salva
tratta da 30Giorni:
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La
prima volta che ho visto di persona don Giussani era l’estate del 1990.
Ero salita fino a Corvara, ero entrata nell’albergo, e lì c’era un uomo
che stava pregando. Era lui, ma io non lo conoscevo ancora. Siamo
entrati insieme nello stesso ascensore. Lui si è girato e mi ha detto:
ma tu sei Rose! Ci siamo abbracciati forte e a lungo, e l’ascensore
continuava a aprirsi e a chiudersi e nessuno spingeva il bottone per
partire.
A
quel tempo avevo letto un articolo su 30Giorni in cui don Giussani
parlava dei Memores Domini. Diceva che Cristo poteva abbracciare tutti i
momenti e tutti gli aspetti della vita. Allora – avevo pensato io –
anche il mio niente, la mia incapacità, Gesù poteva prenderla e
abbracciarla così come era, se voleva. Mi avevano avvertito che per
entrare nei Memores Domini avrei dovuto fare dieci anni di noviziato.
«Gesù mio, ma quanto tempo ci vuole per stare con Te», pensavo. Quando
don Gius mi ha detto che sarei potuta entrare subito, ho avuto paura.
«Ma sai quanti anni ho? Non so neanche cosa siano questi Memores», gli
ho detto. «Ma tu vuoi bene a Gesù?», mi ha chiesto Giussani. «Beh,
quello sì», ho risposto io. «E vuoi dare la vita?». «Eh, la vita... Io
non ho niente di importante nella vita da dare a Gesù», ho risposto io,
«ma se Lui vuole, voglio che Lui si prenda questo niente». A quel punto
Giussani si è alzato, quasi gridando: «Questa cosa qui, vai fuori e
dilla a tutti, a tutti! Perché tutti pensano di avere qualcosa di
importante da dare a Gesù, e così per tutta la vita è come se
aspettassero la ricompensa. E invece è Lui che prende una cosa che è
niente, e la salva».
Così
era don Gius. Io non bevo vino, e lui, ogni volta: «Bevi il vino, senti
come è buono! Ma lo sai come lo fanno, il vino?». Ti spiegava tutto
sulle viti, la vendemmia, le botti, le cantine, e ti trovavi a bere il
vino… Era così bello mangiare così, che mangiavi e bevevi anche le cose
mai assaggiate.
Don
Gius ti faceva gustare tutto. E non ti parlava di Dio. Non c’era
bisogno di parlare di Dio. Diceva sempre che un bambino non fa fatica a
descrivere come è il papà: sa come fa le boccacce, come fa i muscoli...
Anzi, nemmeno lo descrive. Semplicemente, uno vede il bambino e dice: è
proprio figlio di suo padre! Ha un modo di fare che assomiglia a suo
padre. Giussani diceva che noi non siamo immersi in Cristo, e per questo
moltiplichiamo parole su Cristo, fino alla noia. Invece chi è immerso
in Cristo è cambiato. Uno vede come tocca le cose, come mangia, come
beve, e pensa: ma come mangia! Avrei voglia di mangiare come lui. Di
fare le cose come le fa lui.
Una
volta sono andata da lui e mi ha detto una cosa sulla Madonna. Che è
grazie alla Madonna che capiamo di più come opera l’umanità di Cristo,
che guardava magari un mendicante, o una prostituta, e chiedeva che il
suo destino si compisse. La Madonna ha fatto quello che Dio le aveva
chiesto. E basta. Non è andata in giro a far prediche. Noi non avremmo
fatto così. Se a uno di noi fosse capitato ciò che è capitato a lei,
figùrati, saremmo andati in giro sventolando la bandiera, a dire a
tutti: l’angelo di Dio è venuto a parlarmi! Don Gius mi ha detto:
«Guarda, se davvero ci tieni che le persone si salvino, fai un passo
indietro e chiedi che accada. Perché alla fine puoi solo chiedere a chi
può salvare te, se vuole, che salvi anche chi ti sta a cuore».
Comunque,
quando incontravi don Giussani, la prima cosa di cui ti accorgevi era
che era bello stare con lui. Anche se non capivi niente, questo lo
capivi: ci saresti tornato volentieri, domani, e anche dopodomani.
Quando lo portavano a fare il riposino, lui ripeteva: «Non andar via,
aspettami, ci rivediamo dopo». Io e lui non ci siamo mai salutati.
Finiva sempre così: ci vediamo dopo. Una volta mi ha telefonato. «Non
vieni in Italia?». «Gius, sto qua, a Kampala, non ho in mente di
venire». E lui: «Dai, vieni! Vieni!». Io prendo l’aereo, e passo tutto
il viaggio a chiedermi: chissà cosa deve dirmi. Arrivo lì, saluti, e
lui: «Niente, volevo vederti... ».
Per
le mie amiche del Meeting Point, è come un padre. Hanno chiamato i loro
figli Luigi, non sanno che significa quel nome. Non lo fanno perché è
amico mio: quello che è mio è loro, perciò don Gius è diventato il loro
grande amico. La sua faccia, adesso, la metterebbero su tutti gli alberi
dell’Africa.
Mi manca la sua fisicità. Però adesso vede di cosa abbiamo bisogno, prima ancora che noi ce ne accorgiamo.
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Postato da: giacabi a 20:32 |
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giussani, rose busingye
Uganda - Rose Busingye
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Spike Lee sceglie GREATER come miglior documentario Babelgum
I I nostri bambini di valore: Uganda - Rose Busingye
L'incontro al meeting di Rose Busingye
I nostri bambini di valore: Uganda
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Postato da: giacabi a 15:37 |
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rose busingye
L'incontro al meeting
di Rose Busingye
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Postato da: giacabi a 18:14 |
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rose busingye
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8 Agosto 2008
Meeting
2008 - martedì 26 agosto 2008 - Ore: 15.00 Sala A1 - Incontro con Vicky
Aryenyo (Meeting Point International, Uganda), Marguerite Barankitse
(Fondatrice Maison Shalom, Burundi), Rose Busingye (Infermiera
professionale, Uganda).
don Giussani e Rose (2000) - La mia felicità era la sua premura
Rose Busingye
A
Kampala Rose assiste, con l’aiuto di due dottori, due infermieri e
cinquanta tra assistenti sociali e volontari, 2000 malati di Aids e 2050
orfani attraverso le adozioni a distanza di Avsi. «Io ho cominciato a
lavorare veramente quando qualcuno mi ha detto: “Tu sei mia”. Quando ho
scoperto di chi sono, non solo chi sono. Io ho sempre lavorato per Gesù,
ma c’è stato un momento nella mia vita in cui rincorrevo qualcosa che
non riuscivo ad afferrare. Perché finché le cose vanno bene uno dice:
che bello, Gesù! Poi arrivano le difficoltà: i malati che si lamentano
sempre, gli amici che non ci sono…Volevo andarmene. Ho ricominciato a
lavorare quando ho risposto a quella domanda: di chi sono? La risposta
si è incarnata in facce precise, con nomi e cognomi. Non era più un
Cristo immaginario. Ho risposto alla mia vocazione». Fiorisce una
creatività nuova, originata da una acuta osservazione della realtà, del
bisogno dell’altro visto nella sua totalità. «Una volta alcuni amici
italiani mi portarono a vedere la bellezza di un tramonto. Pensai:
questo vale anche per le mie donne al Meeting Point. Così ora
organizziamo gite per andare a vedere i tramonti! Ultimamente abbiamo
anche organizzato partite di calcio per le nostre donne». Cambia il modo
di lavorare e gli altri se ne accorgono. «Prima mi vedevano come una
persona che “doveva” fare, invece ora mi vedono attenta a quello che
faccio. E quando vado via fanno le stesse cose». Un esempio: l’uragano
Katrina che si è abbattuto due anni fa sulla Louisiana (cfr. Tracce,
dicembre 2005). Rose chiede alle donne, che per vivere spaccano le
pietre più grandi in pietre più piccole e le vendono agli imprenditori
stradali ed edili, di pregare per quelle persone rimaste senza casa e
senza famiglia. Una donna le si avvicina e le dice: «Quando mi hai
incontrato, non hai pregato. Voglio anche io morire avendo amato
qualcuno. Non voglio che un domani chi incontri i miei figli preghi e
basta!». «Sono tornata dopo quattro settimane. Avevano raccolto 1200
dollari. Un giornalista americano, saputa la notizia, era rimasto
scandalizzato. Ci aveva detto: “Chi dà la carità, dà ciò che avanza. E
invece voi avete dato tutto quello che avete. È ingiusto! È l’America
che deve dare a voi”. Una delle mie donne gli ha risposto: “Il cuore
dell’uomo è internazionale, si commuove”. Se ne è andato scioccato».
[Tracce, settembre 2007]
Vicky Aryenyo
Madre
di tre figli, vive a Kampala, in Uganda, dove è volontaria al Meeting
Point International, un centro che si occupa dei malati di Aids. Si è
coinvolta nel Meeting Point dopo essersi rivolta al centro per chiedere
aiuto per sé e per il figlio piccolo. Ha detto: «Ogni
volta che ricevo delle persone dico loro che il valore della vita è più
grande di quello del virus che portano dentro di sé. Questa
affermazione nutre la speranza di una persona che soffre e sta per
morire, e la riporta alla vita».
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Postato da: giacabi a 07:44 |
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rose busingye
***
A Kampala Rose
assiste, con l’aiuto di due dottori, due infermieri e cinquanta tra
assistenti sociali e volontari, 2000 malati di Aids e 2050 orfani
attraverso le adozioni a distanza di Avsi. «Io
ho cominciato a lavorare veramente quando qualcuno mi ha detto: “Tu sei
mia”. Quando ho scoperto di chi sono, non solo chi sono. Io ho
sempre lavorato per Gesù, ma c’è stato un momento nella mia vita in cui
rincorrevo qualcosa che non riuscivo ad afferrare. Perché finché le cose
vanno bene uno dice: che bello, Gesù! Poi arrivano le difficoltà: i
malati che si lamentano sempre, gli amici che non ci sono…Volevo
andarmene. Ho ricominciato a lavorare quando ho risposto a quella
domanda: di chi sono? La risposta si è incarnata in facce precise, con
nomi e cognomi. Non era più un Cristo immaginario. Ho risposto alla mia
vocazione». Fiorisce
una creatività nuova, originata da una acuta osservazione della realtà,
del bisogno dell’altro visto nella sua totalità. «Una
volta alcuni amici italiani mi portarono a vedere la bellezza di un
tramonto. Pensai: questo vale anche per le mie donne al Meeting Point.
Così ora organizziamo gite per andare a vedere i tramonti! Ultimamente
abbiamo anche organizzato partite di calcio per le nostre donne». Cambia il modo di lavorare e gli altri se ne accorgono. «Prima
mi vedevano come una persona che “doveva” fare, invece ora mi vedono
attenta a quello che faccio. E quando vado via fanno le stesse cose». Un esempio: l’uragano Katrina che si è abbattuto due anni fa sulla Louisiana (Tracce, dicembre 2005).
Rose chiede alle donne, che per vivere spaccano le pietre più grandi in
pietre più piccole e le vendono agli imprenditori stradali ed edili, di
pregare per quelle persone rimaste senza casa e senza famiglia. Una
donna le si avvicina e le dice: «Quando
mi hai incontrato, non hai pregato. Voglio anche io morire avendo amato
qualcuno. Non voglio che un domani chi incontri i miei figli preghi e
basta!». «Sono tornata dopo quattro settimane. Avevano raccolto 1200
dollari. Un giornalista americano, saputa la notizia, era rimasto
scandalizzato. Ci aveva detto: “Chi dà la carità, dà ciò che avanza. E
invece voi avete dato tutto quello che avete. È ingiusto! È l’America
che deve dare a voi”. Una delle mie donne gli ha risposto: “Il cuore
dell’uomo è internazionale, si commuove”. Se ne è andato scioccato».
grazie a: |
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