Verità nell'arte 
*** 
  
Tratto da   del 21 agosto 2007  ( 
             
            (Roger Scruton ha
 pronunciato ieri questo discorso al Meeting di Rimini, intervenendo a 
un incontro dal titolo "Verità nell'arte"con monsignor Massimo 
Camisasca, superiore generale della Fraternità sacerdotale Missionari di
 san Carlo Borromeo. Traduzione dall'inglese di Elia Rigolio) 
             
            Uno dei componimenti più accattivanti di Mozart è l'opera 
comica "Il ratto dal serraglio", che racconta la storia di Konstanze, 
rapita e separata dal fidanzato Belmonte e ridotta a servire nell'harem 
del pascià Selim. Dopo vari intrighi, Belmonte la salva, aiutato dalla 
clemenza del pascià, che rispetta la castità di Konstanze, rifiutandosi 
di prenderla con la forza. L'improbabile trama permette a Mozart di 
esprimere la propria convinzione illuministica, secondo cui la carità è 
una virtù universale, vera nell'impero Musulmano dei Turchi così come in
 quello cristiano dell'illuminato Giuseppe II. L'amore fedele di 
Belmonte e Konstanze ispira la clemenza del pascià. E per quanto 
l'innocente visione di Mozart manchi di un fondamento storico, la sua 
fede nella realtà dell'amore disinteressato è sempre espressa e 
sostenuta dalla musica. Il ratto dal serraglio propone un'idea morale, 
le sue melodie condividono la bellezza di quell'idea, presentandola in 
modo persuasivo all'ascoltatore. Nella produzione del 2004 del Ratto 
alla Comic Opera di Berlino, il produttore catalano Calixto Bieito 
decise di ambientare l'opera in un bordello berlinese in cui Selim è il 
protettore e Konstanze una delle prostitute. Anche durante le musiche 
più tenere, il palco era cosparso di coppie copulanti, e tutte le scuse 
per rappresentare la violenza, con o senza acme dell'attività sessuale, 
ampiamente sfruttate. A un certo punto si tortura graziosamente una 
prostituta e le si staccano i capezzoli in modo sanguinoso e realistico,
 prima di ucciderla. Le parole e la musica parlano di amore e 
compassione, ma il messaggio è coperto da scene di dissacrazione, 
omicidi e sesso narcisistico che ingombrano la scena in 
un'orchestrazione chiassosa. 
             
            E'un esempio di un fenomeno con cui, ne sono certo, avete 
sviluppato dimestichezza a partire dall'esperienza in ogni àmbito della 
nostra cultura contemporanea. Non basta che artisti, registi, musicisti e
 quanti altri operano nel mondo dell'arte siano in fuga dalla bellezza. C'è
 il desiderio di eliminare la bellezza, di cancellarla. Ovunque essa 
giaccia in nostra attesa, il desiderio di vanificarla garantisce che 
sarà coperta da scene di bruttezza e distruzione. Le opere di 
arte contemporanea creano il poco effetto di cui dispongono 
somministrando traumi alla nostra fievole fede nella natura umana, come 
testimonia, ad esempio, il crocefisso sotto urina di quei due ciarlatani
 di Gilbert e George. Il cinema contemporaneo abbonda di scene di 
cannibalismo, smembramenti e dolore insensato, tanto che alcuni registi,
 come Quentin Tarantino, hanno poco altro nel loro repertorio emotivo. 
La musica pop è stata invasa dal rap, i cui testi e ritmi parlano di una
 violenza incessante, e che rifiuta la melodia, l'armonia e ogni altro 
strumento che potrebbe creare un collegamento con l'antico mondo della 
canzone. La musica seria è stata a sua volta colpita, con l'obbligo di 
inserire dissonanze e sonorità aspre che impediscono il flusso musicale.
 Le opere di letteratura indugiano su violenza e trasgressione, 
dilungandosi morbosamente sulle funzioni corporali una volta considerate
 troppo private e inviolabili per essere menzionate sulla carta 
stampata. 
             
            Insomma, lo sapete bene. Viviamo in
 una cultura di dissacrazione, in cui la vita non è tanto celebrata 
dall'arte, ma piuttosto presa di mira. Gli artisti si fanno una 
reputazione costruendo una cornice originale in cui mettere in mostra il
 volto umano e gettargli addosso del letame. Cosa possiamo farne e come 
trovare la strada che ci riporti a ciò cui tutti noi aspiriamo, ovvero 
la visione della bellezza? Forse sembrerà un po'sentimentale parlare in 
questo modo di una "visione della bellezza". Quello che intendo però non
 è un'immagine edulcorata, da biglietto natalizio, della vita umana, ma 
piuttosto i modi elementari in cui gli ideali e il decoro fanno il loro 
ingresso nel nostro mondo e si fanno conoscere, così come avviene per 
l'amore e la carità nella musica di Mozart.
 C'è grande fame di bellezza nel nostro mondo, una fame che l'arte 
popolare non riesce e riconoscere e a cui l'arte seria sfugge. Poco fa 
ho usato la parola "dissacrazione"per descrivere quanto trasmetteva la 
produzione del Ratto di Bieito e i vani sforzi di Gilbert e George di 
dire qualche cosa. Cosa implica esattamente questa parola? E'collegata, 
da un punto di vista etimologico e semantico, con sacrilegio e quindi 
con l'idea della santità e sacralità.
 Dissacrare significa sprecare quanto altrimenti potrebbe essere messo 
da parte, nella sfera delle cose sacre. Possiamo dissacrare una chiesa, 
un cimitero, una tomba; e anche un'immagine sacra, un libro sacro o una 
cerimonia sacra. Possiamo anche dissacrare un cadavere, un'immagine 
cara, persino un essere umano vivente, nella misura in cui queste cose 
contengono, com'è vero, un presagio di una qualche santità originale. La
 paura della dissacrazione è un elemento vitale di tutte le religioni. E
 infatti questo era in origine il significato della parola religio: un 
culto o una cerimonia pensata per proteggere dal sacrilegio un qualche 
luogo sacro. 
             
            Nel diciottesimo secolo, quando le religioni organizzate e 
la monarchia cerimoniale stavano perdendo autorità nella mente delle 
persone pensanti, mentre lo spirito democratico metteva in dubbio le 
istituzioni ereditate dal passato e circolava l'idea che non fosse Dio, 
ma l'uomo, a fare le leggi per il mondo umano, l'idea del sacro soffrì 
un'eclissi. Sembrava,
 ai pensatori dell'illuminismo, che fosse poco più di una superstizione 
credere che manufatti, edifici, luoghi e cerimonie potessero avere 
carattere sacro, dato che tutte queste cose erano il risultato di un 
progetto umano. L'idea che il divino si rivelasse nel nostro mondo e 
cercasse la nostra venerazione sembrava sia inverosimile di per sé che 
incompatibile con la scienza. 
             
            Contemporaneamente, filosofi
 come Kant, Burke e Adam Smith riconoscevano che non guardiamo il mondo 
solo con gli occhi della scienza. C'è un altro atteggiamento, che non è 
che di indagine scientifica, ma di contemplazione disinteressata, che 
rivolgiamo al mondo alla ricerca del suo significato. Quando scegliamo 
questo atteggiamento mettiamo da parte i nostri interessi, non ci 
occupano più gli obiettivi e i progetti che ci spingono avanti nel 
tempo, non siamo più impegnati a spiegare qualcosa o ad accrescere il 
nostro potere. Lasciamo che il mondo si presenti e traiamo conforto dal 
suo presentarsi. Questa è l'origine dell'esperienza del bello. Potrebbe 
essere impossibile far rientrare quell'esperienza nella nostra ricerca 
ordinaria di potere e conoscenza. Potrebbe essere impossibile 
assimilarla all'utilizzo quotidiano delle nostre facoltà. Ma è 
un'esperienza che evidentemente esiste e che ha grandissimo valore per 
chi la riceve.
 Quando si verifica quest'esperienza, e cosa significa? Ecco un esempio.
 Immaginiamo di stare camminando verso casa sotto la pioggia, coi 
pensieri occupati dai problemi del lavoro. Strade e case sfilano via 
senza che le notiamo, così come le persone; nulla invade i nostri 
pensieri, se non i nostri interessi e le nostre ansie. Poi d'improvviso 
il sole emerge dalle nubi, un raggio di luce illumina un vecchio muro in
 pietra dall'altra parte della strada, tremolante. Alziamo lo sguardo al
 cielo, dove le nuvole si diradano e un merlo si mette improvvisamente a
 cantare da un giardino dietro il muro. Il cuore si riempie di gioia e i
 nostri pensieri egoisti sono svaniti. Il mondo è davanti a noi, felici 
semplicemente di guardarlo e lasciare che sia. Forse esperienze del 
genere sono più rare oggi di quanto non lo fossero nel diciottesimo 
secolo, quando poeti e filosofi guardavano ad esse come a una nuova 
strada verso la religione. Forse la fretta e il disordine della vita 
moderna, le forme alienanti dell'architettura moderna, il rumore e il 
carattere spoglio delle industrie moderne, forse queste cose hanno fatto
 dell'incontro con il bello un qualcosa di più raro, più fragile e più 
imprevedibile per noi. Eppure
 tutti sappiamo com'è, essere trasportati improvvisamente dalle cose che
 vediamo, dal mondo ordinario dei nostri appetiti alla sfera illuminata 
della bellezza. Avviene spesso durante l'infanzia, anche se raramente, 
allora, viene interpretata. Avviene durante l'adolescenza, quando si 
concede ai nostri desideri erotici. E avviene in modo smorzato durante 
l'età adulta, in cui dà forma segretamente ai nostri progetti per la 
vita e ci offre un'immagine di armonia che noi perseguiamo con le 
vacanze, la costruzione della casa e i nostri sogni privati. 
             
            Ecco un altro esempio: è un'occasione speciale, in cui la 
famiglia si riunisce per una cena di rito. Prepariamo la tavola, con la 
tovaglia ricamata pulita sotto i piatti, sistemiamo i piatti, i 
bicchieri, il pane in un cestino e qualche caraffa di acqua e vino. Lo 
facciamo con amore, traiamo piacere dall'aspetto, cercando di 
raggiungere un effetto di pulizia, semplicità, simmetria e calore. La 
tavola è divenuta simbolo del ritorno a casa, delle braccia tese della 
madre universale, che invita suo figlio ad entrare. E tutta questa 
abbondanza di significato e gioia in qualche modo è racchiusa 
nell'aspetto della tavola. Anche questa è un'esperienza della bellezza. 
Un'esperienza che incontriamo, in versione magari diverse, ogni giorno 
della nostra vita. Siamo creature bisognose, e il nostro bisogno 
maggiore è la casa, il luogo in cui siamo, in cui troviamo protezione e 
amore. Raggiungiamo questa casa tramite delle rappresentazioni della 
nostra appartenenza. La raggiungiamo non da soli, ma in unione con gli 
altri. E tutti i nostri sforzi per far sì che l'ambiente intorno a noi 
abbia il giusto aspetto, quando decoriamo, riordiniamo, creiamo, sono 
tentativi di porgere il benvenuto a noi e a quelli che amiamo. 
             
            Questo secondo esempio è molto importante per me. Perché indica
 che il nostro bisogno umano di bellezza non è semplicemente un'aggiunta
 ridondante alla lista degli appetiti umani. Non è un qualcosa che 
potrebbe mancarci e senza cui saremmo comunque appagati in quanto 
persone. E'un bisogno che nasce dalla nostra condizione metafisica, di 
individui liberi, che cercano il proprio posto in un mondo obiettivo. 
Possiamo vagare per il mondo, alienati, risentiti, colmi di sospetto e 
sfiducia. O possiamo trovare qui la nostra casa, e venire per riposare 
in armonia con gli altri e con noi stessi. E l'esperienza della bellezza
 ci guida lungo questo secondo cammino: ci dice che siamo a casa nel 
mondo, che il mondo è già ordinato secondo le nostre intuizioni, 
affinché sia un luogo adatto alla vita di esseri come noi.
 Guardate uno qualunque dei quadri dei grandi pittori di paesaggi, 
Poussin, Guardi, Turner, Corot, Cézanne, e vedrete quest'idea di 
bellezza celebrata e fissata nell'immagine. Non è che quei pittori 
chiudessero gli occhi davanti al dolore, o alla vastità e alla 
minacciosità dell'universo di cui occupiamo un angolo tanto piccolo. 
Anzi. I pittori di paesaggi ci mostrano la morte e il decadere nel cuore
 stesso delle cose: la luce sulle colline è una luce evanescente; i muri
 delle case sono rattoppati e sgretolati come lo stucco dei paesini di 
Guardi. Ma quelle immagini indicano la gioia incipiente nella decadenza e
 l'eterno implicito nel transitorio. Non sorprende sapere che i filosofi
 siano rimasti sconcertati davanti all'idea di bellezza. L'esperienza 
della bellezza è così vivida, così immediata, così personale, che sembra
 difficile che appartenga al mondo ordinario. Eppure
 la bellezza brilla su di noi dalle cose ordinarie. E'una caratteristica
 del mondo o una finzione dell'immaginazione? Ci dice qualcosa di reale e
 vero, per riconoscere il quale basta quest'esperienza? O è solo un 
momento di sensazioni intensissime, che non ha significato alcuno a 
parte il piacere della persona che ne fa esperienza? Queste domande sono
 estremamente urgenti per noi, poiché viviamo in un momento in cui la 
bellezza è eclissata: un'ombra scura di scherno e alienazione che si è 
aperta un varco nella superficie prima splendente del nostro mondo, come
 l'ombra della terra sulla luna. Quando cerchiamo la bellezza, troppo 
spesso troviamo l'oscurità e la dissacrazione. 
             
            L'abitudine attuale di dissacrare la bellezza indica, 
secondo me, che siamo consci come non mai della presenza delle cose 
sacre. La dissacrazione è una sorta di difesa contro il sacro, un 
tentativo di distruggere le sue pretese. In
 presenza di cose sacre la nostra vita viene giudicata, e per schivare 
quel giudizio distruggiamo ciò che sembra accusarci. I Cristiani hanno 
ereditato da Sant'Agostino e da Platone la visione di questo mondo 
transitorio come di icone di un ordine altro e immutabile. Vedono nel 
sacro la rivelazione nel qui e ora del senso eterno del nostro essere. 
Ma l'esperienza del sacro non è limitata ai Cristiani. Secondo molti 
filosofi e antropologi, è una caratteristica universale della condizione
 umana. La maggior parte della nostra vita è organizzata da fini 
transitori: le preoccupazioni quotidiane delle questioni economiche, la 
ricerca nel nostro piccolo di potere e agio, il bisogno di divertimento e
 piacere. Ma di tutto questo, poco è degno di memoria o capace di 
toccarci. Qui e là però ci sentiamo scossi dal nostro compiacimento e in
 presenza di qualcosa tanto più significativo che non i nostri interessi
 e desideri presenti. Percepiamo la realtà di un qualcosa di prezioso e 
misterioso, che si rivolge a noi con una domanda che in qualche modo non
 è di questo mondo.
 Avviene in presenza della morte, e in special modo della morte di una 
persona amata. Guardiamo con timore reverenziale al corpo umano da cui è
 sfuggita la vita. Non è più una persona, ma sono "spoglie mortali" di 
una persona. E questo pensiero ci colma di un inquietante mistero. Siamo
 riluttanti a toccare il corpo morto; ci sembra che non faccia veramente
 parte del nostro mondo, quasi come un visitatore proveniente da una 
qualche altra sfera. Quest'esperienza è paradigmatica del nostro 
incontro col sacro. E richiede, da parte nostra, una sorta di 
riconoscimento cerimoniale. Il corpo morto è oggetto di rituali e atti 
di purificazione, pensati non solo per mandare felicemente il suo 
precedente occupante nell'aldilà, dato che anche chi non ha fede 
nell'aldilà sceglie di attenersi a queste pratiche, ma per superare la 
spaventosa meraviglia, il carattere soprannaturale della forma umana 
morta. Il corpo è rivendicato da questo mondo tramite quei rituali che 
riconoscono anche la sua separazione dal mondo stesso. 
             
            I rituali, in altre parole, consacrano il corpo, 
purificandolo così dal suo miasma. Allo stesso modo, il corpo può essere
 dissacrato, ed è certamente uno degli atti di dissacrazione primari, a 
cui siamo dediti da tempo immemorabile, come quando Achille trascinò in 
trionfo il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia. Ci sono altre 
occasioni in cui siamo distolti a sorpresa dalle nostre preoccupazioni 
quotidiane dalla presenza di una domanda trascendente. In particolare, c'è
 l'esperienza dell'innamoramento. Anche questo è un universale umano, ed
 è un'esperienza delle più strane. Il volto e il corpo della persona 
amata sono pervase dalla vita più intensa. Ma da un certo punto di 
vista, essenziale, sono come il corpo di un morto: sembrano non 
appartenere al mondo empirico. L'amata guarda all'amante come Beatrice a
 Dante, da un punto esterno al flusso delle cose temporali. L'oggetto 
amato esige che lo adoriamo, che ci rivolgiamo a lui con una riverenza 
quasi rituale. E da quegli occhi e da quelle membra irradia una sorta di
 pienezza di spirito che rende tutto nuovo. I poeti hanno speso migliaia
 di parole su quest'esperienza, che nessuna parola sembra essere in 
grado di cogliere interamente.
 E' un'esperienza che ha alimentato il senso del sacro nei secoli, 
ricordando a personaggi tanto diversi come Platone e Calvino, Virgilio e
 Baudelaire, che il
 desiderio sessuale non è il semplice appetito che vediamo negli 
animali, ma la materia prima di una bramosia che non ha soddisfazione 
semplice o mondana, ma che ci impone niente di meno che di cambiare la 
nostra vita.  
Se
 osserviamo le brutture coltivate nel mondo odierno, scopriamo che molte
 di loro si rifanno alle due esperienze che ho indicato. Il corpo negli 
spasimi della morte; il corpo negli spasimi del sesso: sono cose che ci 
affascinano facilmente. Ci affascinano dissacrando la forma umana, 
mostrandoci l'essere umano come soverchiato da forze esterne, lo spirito
 umano eclissato e inefficace e il corpo umano come mero oggetto tra gli
 oggetti, invece di un soggetto libero, legato da una legge morale. Ed è
 su queste cose che l'arte del nostro tempo sembra concentrarsi, 
offrendoci non solo la pornografia sessuale, ma una pornografia della 
violenza, in cui l'essere umano è ridotto a un cumulo di carne 
sofferente, resa pietosa, impotente e disgustosa. 
             
            Perché
 tutto questo può essere diventato normale? Perché, a parte, ovviamente,
 i soldi che ci si possono fare? La risposta è che si tratta di 
tentazioni primarie. Tutti noi desideriamo fuggire dagli imperativi di 
un'esistenza responsabile, in cui ci comportiamo con gli altri in un 
certo modo perché sono degni di riverenza e rispetto. Tutti noi siamo 
tentati dall'idea della carne, e dal desiderio di rifare l'essere umano 
rendendolo pura carne, un automa, obbediente ai desideri meccanici. Per 
cedere a questa tentazione, però, dobbiamo prima rimuovere l'ostacolo 
principale al suo raggiungimento, ovvero la natura consacrata della 
forma umana. Dobbiamo
 corrompere le esperienze, come la morte e il sesso, che altrimenti ci 
allontanerebbero dalle tentazioni e ci spingerebbero verso una vita più 
alta di amore, dovere e soddisfazione. Questa dissacrazione volontaria è
 anche una negazione dell'amore, un tentativo di rifare il mondo come se
 l'amore non ne fosse più parte. E questa, certamente, è la 
caratteristica più importante della cultura postmoderna che ho descritto
 all'inizio dell'intervento: una cultura priva d'amore, determinata a 
rappresentare il mondo umano come se fosse qualcosa che non si può amare. 
             
            Il che suggerisce un rimedio semplice, ovvero resistere alle
 tentazioni. Invece di dissacrare la forma umana dovremmo imparare 
nuovamente a riverirla. Perché non c'è assolutamente nulla da guadagnare dal tipo di insulti scagliati contro la bellezza da
 chi, come Calixto Bieito, non sopporta di guardarla in faccia. 
Certamente, possiamo neutralizzare gli alti ideali di Mozart mettendo in
 secondo piano la sua musica, facendone mero accompagnamento di un 
carnevale disumano di sesso e morte. Ma cosa ci insegna tutto questo? Cosa
 ci guadagniamo, in termini di sviluppo emotivo, spirituale, 
intellettuale o morale? Nulla, se non ansia. Dovremmo trarre una lezione
 da questo tipo di dissacrazione: nel tentativo di dimostrare che i 
nostri ideali umani sono privi di valore, dimostra di essere lei stessa 
priva di valore. E se un qualcosa dimostra di essere privo di valore, è il caso di disfarsene. 
 
             | 
        
Nessun commento:
Posta un commento