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lunedì 20 febbraio 2012

reale


LA VOCE UNICA DELL'IDEALE
INCONTRO MATURANDI
CON DON CARRON
***




    .....Immaginate che quello, diventato zoppo, fosse lì tutto testardo a dire:
«No, io voglio andare alle Olimpiadi»; sarebbe una cocciutaggine, un capriccio!
Dal punto di vista vocazionale, don Giussani dice: «La circostanza inevitabile è
al mille per mille con sicurezza assoluta indice della strada da percorrere. Perciò
    non esiste nulla di più amico, di più facilmente amico nostro, della circostanza
    inevitabile, del fatto
». Aggiungo un aspetto fondamentale, una notazione
fondamentale: niente è fatalità in questo, il destino non è il fato:
    tutto, ma tutto, risulta strumento di vocazione! Tu sei sicuro che facendo
    l’atleta potresti raggiungere la tua pienezza e la tua soddisfazione meglio
    che attraverso quella circostanza inevitabile? No. Abbracciare questo incidente
    come parte del cammino al destino è aspettare curioso come il Signore se l
a caverà per portarmi alla felicità attraverso il mio essere zoppo.

    Ma non introduce un dubbio! Non sono lì a lamentarmi per tutta la vita,
    anzi: questa condizione inevitabile diventa elemento fondamentale attraverso
    cui il Mistero mi farà raggiungere il destino, l’ideale, la felicità. Se
    invece ci fermiamo all’arrabbiatura, sarà la tomba, perché nella vita si possono
avere tanti incidenti di percorso che sono inevitabili, ma se noi non
    avessimo la possibilità che la vita continui ad avere senso (e pensiamo che
    possano raggiungere lo scopo soltanto certe persone con certe capacità),
    dipenderemmo soltanto dal caso. Invece qualsiasi circostanza
è parte del
raggiungimento del destino, della felicità.
E questo è veramente liberante,
perché la felicità non
dipende dalla riuscita mondana,ma dal mio servizio

    al tutto, al regno di Dio (perciò può essere lo stesso
fare il portinaio o il
ministro)........
grazie a:pepeannamaria61
Utente: pepeannamaria61

Postato da: giacabi a 15:20 | link | commenti
reale, giussani

mercoledì, 14 settembre 2011


***
Il problema grave oggi è che gli europei non hanno più il senso della loro identità. Di conseguenza ritengono che tutte le culture siano uguali. Donde la famosa questione del multiculturalismo che è affare molto diverso dal pluralismo. Una società pluralista dà ad ogni cultura un valore. Il multiculturalismo, invece, sottintende che tutte le culture siano uguali perché tutte valgono zero. (Giovanni Reale - Tempi 28/07/04)

Postato da: giacabi a 11:31 | link | commenti
reale

domenica, 30 gennaio 2011

Il fallimento dell'arte contemporanea
di Giovanni Reale - 23/11/2009
***

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 
In primo luogo, riflettiamo sulla natura e sulla portata di quella che abbiamo denominata «crisi dell’arte contemporanea». Per fare tali riflessioni, chiameremo in causa alcuni giudizi forniti da pensatori e da sociologi di alta classe, i quali non hanno paura di dire la verità, anche se per molti aspetti si tratta di una verità assai amara, e che quindi costa fatica sia a dirla sia a crederla. Tre sono i concetti-chiave che cercheremo di mettere in evidenza:
a) l’arte contemporanea si è resa sempre più incomprensibile;
b) nelle sue spericolate produzioni ha cercato spesso solo l’originalità al di là di ogni limite, e in molti casi si è pressoché autodistrutta;
c) la ragione di fondo della crisi sta nello smarrimento del senso dei valori, e in particolare del senso del religioso, e quindi nel male del «nichilismo» che ha contagiato la maggior parte degli artisti.

a) Paul Virilio, che fu prima architetto e urbanista, poi sociologo ed esperto dei mass media e filosofo, è oggi in Francia - insieme a Jean Baudrillard - autore di libri volutamente graffianti e provocatori contro il preteso sistematico e grandioso «progresso» della civiltà contemporanea. Virilio scrive: «Gli artisti del Ventesimo secolo, alla maniera dell’anarchico e delle sue bombe artigianali, del kamikaze rivoluzionario o dei mass killer celebrati dalla stampa ad alta tiratura, sarebbero diventati posatori di bombe plastiche, fautori di turbe visive, anarchici del colore, delle forme, dei suoni, prima di diventare occupanti del museo degli orrori di una stampa spazzatura». E precisa: «Ben presto, come avrebbe sottolineato René Gimpel o, più tardi, Orson Welles, l’arte contemporanea non avrebbe potuto più fare a meno della compiacenza di quei critici che ci diranno che si tratta di arte, semplicemente perché l’arte sarebbe diventata irriconoscibile». Ed ecco come lo stesso pensiero viene espresso, in modo più misurato, da Nicolás Gómez Dávila in un aforisma: «A differenza dell’arte di altre epoche, l’arte attuale è inintelligibile senza l’estetica dottrinaria che la puntella». Ed ecco come in un altro aforisma, più graffiante, egli esprime una delle ragioni di fondo di questo fatto: «Idee confuse e acque torbide sembrano profonde». In effetti, molte volte le idee espresse dall’arte contemporanea sono appunto «confuse e torbide»; di conseguenza, occorre una dottrina estetica per trarne (non poche volte in maniera subdola) un qualche senso.
b) Ancora con aforismi di Gómez Dávila illustriamo il secondo dei punti prima indicati. In un primo aforisma, assai graffiante, dice: «Le arti stanno morendo di autofagia». In un secondo - veramente rivelativo del dramma in cui l’arte contemporanea si dibatte - dice: «La pittura moderna non è un capriccio, come pensa l’ignorante, è una tragedia». Jean Baudrillard rincara la dose: «La distinzione tra l’arte e le produzioni di immagini comuni, banali, è sempre meno netta. Il solo ad avere preso atto e a gestire con radicalità questa banalizzazione totale dell’estetica, ad essere passato dall’altro lato dell’estetica è Warhol. A mio avviso, all’infuori di lui, si ha a che fare con delle forme artistiche ed estetiche che sono più animate dalla disillusione che non da altro. Si ha l’impressione, cioè, che anche gli artisti non credano più all’illusione estetica, che l’illusione estetica sia morta, che stia gestendo solo la decomposizione del proprio strumento e modo di vedere. Morte dell’arte, già annunciata da Hegel molto tempo fa, scomparsa dalla dimensione estetica: tutto ciò è stato gestito durante, diciamo, un secolo e mezzo. Tutta l’arte moderna è la storia di una scomparsa, di una destrutturazione, di una decostruzione dell’arte. Ma adesso è finita, il processo è arrivato al di là del suo termine e siamo anche al di là della fine. Adesso non facciamo altro che riciclare le forme passate, ma il vero problema del passaggio oltre l’estetica è questo: che cosa c’è al di là dell’estetica? C’è ancora altra illusione che l’estetica?».
c) E veniamo al terzo punto. In che cosa consiste tale tragedia? Come già sopra dicevo, consiste nell’oblio dei valori che hanno le cose e soprattutto l’uomo. Si gioca con un’estetica della sparizione delle cose, e in particolare con l’annullamento del senso profondo dell’uomo e del valore della persona. María Zambrano - filosofa spagnola, allieva di Ortega y Gasset - ha spiegato bene questo punto: «Siamo nella “notte oscura dell’umano”, che si nasconde dietro la maschera, e il mondo è un’altra volta disabitato. Sono i paesaggi lunari: terre secche e biancastre, paesaggi di cenere e di sale. Spiagge gigantesche dietro la ritirata marina, vegetazione minerale, fiori calcarei e conchiglie, alghe informi, creature amorfe di un regno che non è la vita né la morte. Ed è anche il deserto, l’estensione senza fine.
E i residui dell’umano; oggetti consumati dall’uso: scarpe vecchie, spazzole senza setole, scatole irriconoscibili di cartone, tutto disfatto. Ed è quanto di più umano, perché finalmente ne reca l’impronta. Un’impronta che insegna e rende evidente l’eclisse e la tristezza, come se solo queste cose senza alcuna bellezza piangessero l’ospite partito». Si potrebbe parlare dell’«eclisse dell’umano», in seguito alla «morte di Dio» proclamata da Nietzsche: l’uomo, uccidendo Dio, ha ucciso anche se stesso. Michel Foucault scrive: «L’ultimo uomo è, a un tempo, più vecchio e più giovane della morte di Dio; avendo ucciso Dio è lui stesso che deve rispondere alla propria finitudine; ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il suo crimine stesso è destinato a morire; nuovi dei, identici, già gonfiano l’Oceano del futuro; l’uomo scomparirà. Più che la morte di Dio - o meglio nella scia di tale morte e in una correlazione profonda con essa - il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore...».
Ancora la Zambrano scrive: «Vivere nella luce sarebbe stato l’anelito di tutta la cultura occidentale. “Luce da luce” è la formula più alta della teologia che esprime il punto d’identità fra la filosofia greca e la fede cristiana. Nella luce coincisero pensiero e religione cristiana, religione della luce viva e attiva in tutti gli aneliti e tentativi; nelle esperienze, nelle creazioni più disparate e persino contrarie, perché la divergenza di credo estetici non è mai giunta fino a questo inquietante periodo in cui si disfano le forme e il volto umano si nasconde. Eclisse dell’umano che si verifica anche nella vita. È la notte oscura dell’umano che somiglia al sottrarsi di una luce e di un logos nel quale non si trovano più altro che differenze, discernimenti; una ritirata e un retrocedere dal Dio della teologia alla ricerca del Dio che divora e vuol essere divorato». L’arte può uscire da questa grave crisi? Esiste una via d’uscita? A nostro avviso la via d’uscita non può essere se non quella del superamento del nichilismo e del relativismo imperanti con il ricupero dei valori perduti. Concludiamo leggendo una bellissima pagina di Eugène Ionesco, tratta da un suo Discorso di apertura del Festival di Salisburgo 1972, in cui sviluppava pensieri che convergono perfettamente con quanto sto dicendo.
Leggiamo la bella pagina contenuta nel finale del discorso, che contiene un messaggio veritativo e toccante: «Le nozioni di amore e di contemplazione non sono più neanche nozioni diventate ridicole, sono completamente abbandonate. L’idea stessa di metafisica, quando non anima le collere, suscita sogghigni. La crisi è incominciata da molto tempo. Forse a partire dal Diciassettesimo secolo, la cultura ha affrettato il proprio decadimento. È diventata sempre più umanizzante, invece di essere spiritualistica. Ci sono sorrisi di santi, di angeli e di arcangeli sui volti delle sculture che si trovano nelle cattedrali. Non sappiamo più guardarli. Gli uomini girano intorno in quella loro gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato che si può guardare il cielo». Ecco una sicura via d’uscita: dobbiamo cercare di non rimanere prigionieri dalla gabbia in cui siamo rimasti chiusi, ricordandoci che si può guardare il cielo, come facevano gli autori delle cappelle dei Sacri Monti e dei pellegrini che le contemplavano.


Postato da: giacabi a 11:18 | link | commenti
reale, jonesco

sabato, 11 settembre 2010

. La realtà come Presenza
***
28 agosto 1940
Presenza di Françoise. Storia della nostra piccola Françoise, che sembra
continuare la sua esistenza con dei giorni privi di storia.
Il primo sforzo è stato quello di superare la psicologia della sventura. Questo
miracolo che un giorno si è spezzato, questa promessa su cui si è richiusa la lieve
porta di un sorriso cancellato, di uno sguardo assente, di una mano senza progetti,
no, non è possibile che ciò sia casuale, accidentale. “È toccata loro una grande
disgrazia”. Invece non si tratta di una grande disgrazia: siamo stati visitati da
qualcuno molto grande. Così non ci siamo fatti delle prediche. Non restava che fare silenzio dinanzi a questo nuovo mistero, che poco a poco ci ha pervaso della sua gioia.
Ricordo i miei permessi a Dreux, ad Arcachon, quest’ultimo avvenuto in una
grande angoscia. Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi ad un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione.
Certamente non ho mai conosciuto così intensamente lo stato di
preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva,
come quando i miei occhi hanno osato rivolgersi a quello sguardo assente, che
volgeva lontano, lontano dietro di me, una specie di cenno simile allo sguardo, che
vedeva meglio del mio sguardo. Se è vero che ogni autentica preghiera si fonda
sulla morte delle potenze sensibili, intellettuali, volontarie, se la sottile punta
dell’anima di un bambino battezzato, come ha scritto non so più quale grande
autore spirituale, è messa immediatamente a contatto diretto con la vita divina,
quali splendori si nascondono allora in questo piccolo essere che non sa dire nulla
agli uomini? Per molti mesi, avevamo augurato a Françoise di morire, se doveva rimanere così com’era. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia? Chi sa se non ci è domandato di
custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me l’immagine
della fede. Quaggiù, la conoscerete in enigma e come in uno specchio.
«In questa storia, la nostra disgrazia ha assunto un'aria di evidenza, una familiarità rassicurante, o, piuttosto, non è la parola giusta, impegnata: un richiamo che non dipende più dalla fatalità. La guerra è scoppiata, tanto da coinvolgerla nella grande miseria comune. Così immerso, il peso è divenuto più lieve. La guerra ha offerto a Paulette i momenti più atroci della solitudine e dell'angoscia. In settembre, in aprile. Ma, nonostante questi momenti, essa ha finito per guarirci dalla malattia di Françoise. Quanti innocenti straziati, quanti innocenti calpestati! Questa piccola bambina immolata giorno per giorno è stata forse la nostra vera presenza nell'orrore dei tempi. Non si può soltanto scrivere libri. Bisogna pure che la vita ci stacchi ogni tanto dall'impostura del pensiero, del pensiero che vive sulle azioni e i meriti altrui.
Ora che la minaccia di aprile si è allontanata, ora che sembra si debba continuare a vivere insieme, Françoise, piccola mia, sentiamo una nuova storia intervenire nel nostro dialogo: occorre resistere alle forme facili della pace segnata dal destino, rimanere padre e madre, non abbandonarti alla nostra rassegnazione, non abituarci alla tua assenza, al tuo miracolo; donarti il tuo pane quotidiano di amore e di presenza, continuare la preghiera che tu rappresenti, ravvivare la nostra ferita, poiché questa ferita è la porta della presenza, restare con te. Forse occorre invidiarci questa paternità incerta, questo dialogo inespresso, più bello dei giochi infantili»
Mounier di fronte alla figlia sentì la responsabilità del mondo

Postato da: giacabi a 18:32 | link | commenti
reale, mounier

sabato, 26 giugno 2010

La realtà è segno di Dio
***
“Ricordo le mie impressioni di bambino e non mi sbaglio: sulla riva del mare mi sentivo faccia a faccia con l’Eternità amata, solitaria, misteriosa e infinita dalla quale tutto scorre e alla quale tutto ritorna. L’Eternità mi chiamava, e io ero con lei”.
***
«Nelle cose più ovvie e ordinarie è nascosto un vertigino sosenso dell’infinità e della trascendenza»

Pavel Florenskij


Postato da: giacabi a 13:55 | link | commenti
reale, senso religioso, florenskij

mercoledì, 02 giugno 2010


Dalla neve a Debussy

***

http://www.galois.it/drupal/materiali/moduliapprofondimento/scalaurea.jpg


ABBAZIA BENEDETTINA DI MELK
Scala a chiocciola a forma di spirale logaritmica

CAVOLFIORE CON RAMI SPIRALIFORMI
Il “numero d’oro”. Con cui l’artista si rifà alla Creazione. Se grandi e antiche architetture, opere pittoriche e composizioni musicali sono nate dall’armonia di un numero dalle infinite cifre dopo la virgola (1,6180...), è perché “dentro” alla realtà circostante quell’armonia già esisteva. Decifrata da quel numero.
Si chiama f. Come l’iniziale dello scultore e architetto greco Fidia, da cui prende il nome. È il numero che rappresenta la sezione aurea: il rapporto tra due grandezze, diverse tra loro, dove la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la loro somma. È il rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica con il tutto.
Si ritrova nella composizione di un girasole visto al microscopio, nella geometria delle farfalle, nei cristalli di ghiaccio dei fiocchi di neve. Nel corpo umano. Se proporzionato, ripete dalla testa ai piedi questo rapporto (la distanza dal gomito alla mano, per esempio, moltiplicata per 1,618 dà la lunghezza del braccio).
Si può scorgere negli animali: nelle corna a spirale di un ariete, in una stella marina a cinque punte. Nei minerali, nella chimica. Nella botanica: nella spaziatura tra le foglie su uno stelo, nella disposizione dei petali di una margherita, in una pigna. Tutte “figure” che presentano schemi riconducibili alla sezione aurea e ai numeri della successione di Fibonacci. Una sequenza di numeri interi naturali, strettamente legata alla “divina proporzione”, in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti. E il rapporto tra due termini successivi si avvicina molto rapidamente a quello “aureo”.
C’è quindi una dimensione armonica, che imprime la natura vivente come la creazione artistica. Quella che si sorprende nel rapporto tra base e altezza della piramide egizia di Cheope. Nel rettangolo “aureo” più volte ripetuto nell’architrave del Partenone di Atene. O in una spirale logaritmica, come quella che crea la scala a chiocciola dell’abbazia benedettina di Melk. Fino alla musica. Claude Debussy è tra i compositori che più rimasero affascinati dalle proporzioni della sezione aurea. L’esempio più rigoroso è l’opera per orchestra La Mer, basata sul “numero d’oro”.


da: www.tracce.it di marzo 2010

Postato da: giacabi a 07:52 | link | commenti
bellezza, reale


La Realtà è una promessa
***
" L'uomo non si rivolge alla realtà per conoscerla meglio o peggio, se non dopo,e a partire da, l'averla sentita come una promessa, come una patria dalla quale in linea di principio ci si attende tutto, nella quale si crede possibile trovare tutto".
Maria Zambrano

Postato da: giacabi a 07:26 | link | commenti
reale, senso religioso, zambrano

mercoledì, 30 dicembre 2009

L’ intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà
***

Vi è una possibilità di dirigere l'evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell'odio e della distruzione?
Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L'esperienza prova che piuttosto la cosiddetta "intellighenzia" cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l'intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.
Albert Einstein in una lettera del 1932 a Freud

 


Postato da: giacabi a 20:44 | link | commenti (1)
einstein, reale


La realtà: un sogno reale
***
Si è tanto parlato, descritto, divulgato l’allarme sulla nostra vita, sul nostro mondo, sulla nostra cultura, che vedere il sole, le nuvole, uscire in strada e trovare dell’erba, dei sassi, dei cani, commuove come una grande grazia, come un dono di Dio, come un sogno. Ma un sogno reale, che dura, che c’è.

Cesare Pavese, in Il mestiere di vivere


Postato da: giacabi a 09:20 | link | commenti
reale, pavese

sabato, 03 ottobre 2009

Il realismo clinico
***
«Io volevo fare una pittura “clinica” nella mia accezione del termine. I più grandi oggetti artistici sono “clinici”. In inglese si dice clinical. Quando adopero la parola “clinico”, voglio indicare il realismo più assoluto. In effetti è impossibile parlarne». “Clinico” significa freddo? «Una sorta di realismo, ma non necessariamente freddo; è un atteggiamento, è come tagliare qualcosa. Ma è innegabile che in tutto ciò ci sia della freddezza e della distanza. A priori non ci sono sentimenti. E paradossalmente questo può provocare un enorme sentimento. Clinico”significa essere il più vicini possibile al realismo, essergli vicini nella parte più profonda di sé. Il realismo è qualcosa che sconvolge».
Francis Bacon

«La creazione è una necessità assoluta che fa dimenticare tutto il resto. Io non pensavo che mi sarei mantenuto grazie alla pittura, volevo solo chiarire delle cose con me stesso. La creazione è come l’amore, non ci si può fare niente. È una necessità. In quel momento, non si capisce come le cose accadano. L’importante è che accadano. Per se stessi e basta. Dopo ci si può divertire a trovare delle spiegazioniPer  quanto mi riguarda, la pittura serve soprattutto a me stesso, se poi uno ci può vivere, tanto meglio».

Postato da: giacabi a 22:30 | link | commenti
reale

domenica, 27 settembre 2009

Obbedire alla realtà
***
foto: Hans Scholl
costruire una bella casetta con dei fiori alla finestra e un
bel giardino sul davanti
e lì lodare il Signore,
e ringraziarLo, e voltare
le spalle al mondo
e alla sua sporcizia?”
 “Non posso
Hans Scholl


Postato da: giacabi a 20:56 | link | commenti
reale, la rosa bianca

giovedì, 17 settembre 2009

 

La realtà lascia un segno
 ***
«La realtà, passando davanti agli occhi, non è come se passasse davanti agli occhi di un morto o ad uno specchio inerte; passa davanti a degli occhi vivi, perché ci lascia un segno, shocka la nostra coscienza», lascia sempre «un’impronta di paura o di speranza».
 «La conoscenza implica un’affezione, implica un contraccolpo che si chiama affezione, affectus. Il nostro io è touchée»
don Giussani



Postato da: giacabi a 23:07 | link | commenti
reale, giussani

domenica, 08 marzo 2009

 La realtà non tradisce
***
il
l'ideologia marxista ha  capovolto la realtà
Ma .."il mondo rotea il mondo cambia"  T.S.Eliot
l'  68
la realtà ha mostrato l'illusione dell'ideologia marxista
 
  pochi chilometri più in la è già caduto il primo blocco (a destra).
La gente è ancora incredula, ma comincia a capire che sta succedendo qualcosa di veramente grande.

 Adesso la realtà inizia a mostrare l'illusione del capitalismo


Postato da: giacabi a 09:43 | link | commenti (1)
reale, ideologia

sabato, 07 marzo 2009

 I pensatori e l’estasi
***
Olavo de Carvalho
O Globo, 10 de junho de 2000
Arriva a essere un insulto chiamare i filosofi di “pensatori”. Pensare è andare da un’idea a un altra, sia svolazzando tra similitudini, sia cadendo dalle scale, dall’universale al particolare, come un corpo inerte trascinato dalla forza gravitazionale delle conseguenze. Un gatto realizza la prima di queste modalità senza grande sforzo, una scimmia la seconda. Queste attività sono così banali e senza merito che non possiamo smettere di praticarle. È più facile smettere di respirare che trattenere il flusso incoercibile delle sinapsi. Non è giusto che tipi strani e stravaganti come i filosofi ricevano il loro nome da qualcosa che tutti fanno in continuazione. Alcuna originalità devono averla, accidenti, almeno in una dose tale che giustifichi il fatto di dare loro la cicuta perché la smettano di parlare, e poi restare a domandarci per duemila anni cosa è che davvero stavano dicendo.
L’originalità del filosofo consiste nel fatto che egli non lascia che il pensiero segue la sua linea spontanea dell’associazione di idee o dell’automatismo della pura deduzione, ma lo obbliga a uscire dal suo corso naturale e a rivolgersi a qualcosa che non è pensiero. Questa cosa – o mondo, o essere, la realtà o come si voglia chiamarla – è ostile al pensiero perché insiste nell’avere una volontà propria e ignora sovranamente le vie grammaticali, logiche e semantiche per le quali il nostro pensare scorre con così tanta naturalità e conforto. “Le mie vie non sono le vostre vie, né i miei pensieri sono i vostri pensieri, dice il Signore” (Is 55,8). Il pensiero del non-filosofo vive di pensieri: da un’idea ne estrae un’altra, e un’altra, e un’altra ancora, estraneo a interventi supeiori, e così produce variazioni e florilegi finché la vecchiaia non lo obblighi a ripetersi. Ecco il perché della facilità con la quale questo uomo crede nelle sue proprie conclusioni. 
Al contrario, il filosofo forza il suo pensiero ad alimentarsi di un materiale estraneo e indigeribile: fatti, percezioni, dati – informazioni, insomma, che a volte non hanno neppure il nome per mezzo del quale si possa pensarle. Se il non filosofo prende come premesse i suoi pensieri anteriori o frasi imparate, il filosofo si obbliga ad ammettere, come premessa, ogni e qualsiasi cosa che giunga alla sua conoscenza, per inammissibile o strana che sia. La grande premessa del pensiero filosofico si chiama “dato”. “Dato”, in filosofia, è il contrario di pensato. “Dato” è ciò che non ho inventato io. “Dato” è ciò che si impone per se stesso, senza che vi sia bisogno di pensarlo perché esso si dia. Così profonda è l’ossessione dei filosofi per il “dato”, che la maggior parte di essi si dedicò alla ricerca del Dato assoluto e primo, di quello che si imponesse proprio a un pensiero incapace di pensarlo. Dal “primo motore” aristotelico al “mondo della vita” di Husserl, passando per la “cosa in sé” di Kant e per la “sostanza” di Spinoza, quello che i filosofi cercarono fu sempre questo: qualcosa che essi non potevano inventare. Anche l’oggetto delle scienze fisiche è già un arrangiamento intellettuale, un ritaglio operato dalla ragione nel corpo del dato. Solo i filosofi si interessano per quello che semplicemente sta lì, per quello che l’essere dice di se stesso prima che qualcuno inizi a parlarne. Il filosofo, quindi, è proprio il contrario del “pensatore”. Platone lo chiamava “amante di spettacoli”. Sì, quello che il filosofo ama è quello che, venendo dallo spettacolo dell’essere, trascende infinitamente la clausura del pensare e del pensato. Per questo egli è anche l’amante della sapienza: il cammino della sapienza può essere soltanto “verso l’alto” e “verso fuori” – l’io pensante si sacrifica, consente di lasciare di essere il centro del mondo per cedere il passo alla realtà che lo trascende. “Essere oggettivo è morire un poco”, diceva F. Schuon.
Questo si dà tanto nella più minima percezione sensibile quanto nella suprema contemplazione spirituale. L’incontro con il Dato supremo prende la forma di “estasi”. Sono stati necessari millenni di imbecillità accumulata perché la parola “estasi” venisse a significare il rapimento di un cretino dentro una cassettina di sogni; ed è stato necessario arrivare all’ultima degradazione per dare questo nome a una droga con il compito di produrli. I sogni, in fondo, sono cose pensate, e è dalla prigione del pensato che l’estasi ci libera. L’estasi è la piena presenza del dato, è la suprema forma di realismo quella perfetta sottomissione del pensiero al reale, della quale, in un piano più modesto, Hegel dette un esempio nel contemplare per lungo tempo una grandiosa montagna e dopo emettere il celebre commento: “Sì, di fatto è così”. Solo l’estasi dà conoscenza. Il resto è pensiero. Augusto Comte — chi l’avrebbe detto? — intuì questo in qualche modo quando formulò la sua massima; régler le dédans par le dehors, modellare il dentro con il fuori. Il fatto che altri al contrario cercassero di attirare l’uomo verso “l’interiore”, non ci deve confondere. Quando Agostino grida noli foras ire, questo “fuori” che ci proibisce non è quello al quale ci riferiamo io e Comte — il dato — bensì il “mondo” nel senso biblico del termine: il chiacchiericcio ambiente che, venendo dagli altri e venendo così incessantemente ripetuto, ci dà l’illusione di essere, a sua volta, dato e realtà. È il pensiero collettivo che copre il dato e in seguito ci consola della nostra impotenza cognitiva infondendoci l’illusione di “fare storia”, di “creare un mondo” con i nostri pensieri. Agostino ci invita a distoglierci dall’ubriacatura del pensato per dirigerci verso l’autenticità dell’essere spirituale, tanto “esterno” al pensiero quanto la montagna di Hegel.
Pensare? Che a forza di pensare sia morto un asino, niente di più banale. Ciò che dispiace è che tanti “vivano” di questo, e, non essendo niente di più che “pensatori”, si arroghino – o lo ricevano da altri asini – il titolo di filosofi.
grazie a: cabasilas

Postato da: giacabi a 14:10 | link | commenti
reale, de carvalho

domenica, 22 febbraio 2009

Il realista
***

“Ancor più la Parola di Dio è il fondamento di tutto, è la vera realtà. E per essere realisti, dobbiamo proprio contare su questa realtà. Dobbiamo cambiare la nostra idea che la materia, le cose solide, da toccare, sarebbero la realtà più solida, più sicura. Alla fine del Sermone della Montagna il Signore ci parla delle due possibilità di costruire la casa della propria vita: sulla sabbia e sulla roccia. Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia. Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza.
BENEDETTO XVI
NEL CORSO DELLA PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE 6 ottobre09


Postato da: giacabi a 07:35 | link | commenti
reale, benedettoxvi

sabato, 14 febbraio 2009

La realtà è
segno del Mistero
***
Il cuore che ride
la tua vita è la tua vita.
non lasciare che le batoste la sbattano nella cantina dell'arrendevolezza.
stai in guardia.
ci sono delle uscite.
da qualche parte c'è luce.
forse non sarà una gran luce ma la vince sulle tenebre.
stai in guardia.
gli dei ti offriranno delle occasioni.
riconoscile, afferrale.
non puoi sconfiggere la morte ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta.
e più impari a farlo di frequente, più luce ci sarà.
la tua vita è la tua vita.
sappilo finché ce l'hai.
tu sei meraviglioso gli dei aspettano di compiacersi in te
Charles Bukowski

Postato da: giacabi a 09:33 | link | commenti
reale

sabato, 31 gennaio 2009

Se la realtà non aderisce alla fede
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« Se la realtà non aderisce alla fede,si alterano  tutti i termini dei  i rapporti .L'esempio che sempre bisogna fare e quello dell'affezione tra l'uomo e la donna, perche questo e l'esempio che Dio ha messo per primo nel mondo. Si altera il rapporto tra l'uomo e la donna: diventa egoismo invece che amore, negazione invece che affermazione, fragilità rinsecchita invece che creatività feconda, chiusura invece che apertura. Invece che spalancare le braccia ad abbracciare il mondo, si vuole ridurre l'abbraccio all'oggetto che piace, che ci e davanti, e così uno lancia le braccia -secondo il paragone dell' Eneide -e stringe il nulla, abbraccia e stringe il niente..»
Luigi Giussani, Si può vivere così, Ed. Rizzoli

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giovedì, 29 gennaio 2009

La realtà e l’astrazione
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"Che cosa distrugge più in fretta che lavorare, pensare, sentire senza un'intima necessità, senza una scelta profondamente personale, senza gusto? Nulla corrode più profondamente, più intimamente di ogni dovere "impersonale", di ogni sacrificio dinanzi al Moloch dell'astrazione..."
F. Nietzsche
"Io non ho altro metodo, infatti, che obbedire a quello che accade, non ho nessuna pagina segreta nascosta, nessun filo diretto con lo Spirito Santo, ho quello che avete tutti: il reale, l'esperienza, quello che accade; una accanita lealtà con quello che accade.[...] E' la verifica della fede, la verifica di Cristo, non come astrazione, ma come intensità del vivere: si chiama centuplo. "
J. Carron
grazie a : nihilalieno.

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mercoledì, 10 dicembre 2008

La profondità prospettica della realtà
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·                     «Noi non ci accontentiamo della "superficie" della realtà, pretendiamo il "riconoscimento" del suo carattere prospettico, noi vediamo "la gelida altezza", "le ampiezze sfuggenti". Questa profondità prospettica consiste nel fatto che noi non livelliamo tutta la multiformità della realtà alla sola superficie, quella percepibile sensorialmente, non schediamo la realtà, schiacciandola e seccandola nel grosso registro contabile del positivismo.»

Pavel Florenskij

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giovedì, 04 dicembre 2008

Realismo
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" L'oggetto è un oggetto; può esistere ed esiste infatti al di fuori dalla mente, o in assenza della mente. E perciò allarga la mente di cui diviene parte. La mente conquista una nuova provincia, come un imperatore; ma solo perché ha risposto al suono di un campanello, come un servitore. La mente [...] è se stessa per questo nutrirsi di fatti, [...] questo cibarsi della strana, dura carne della realtà. ".

G. K. Chesterton, San Tommaso d'Aquino

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sabato, 01 novembre 2008

La realtà è Cristo
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“Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. … Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni. (Q IV 182-183).”


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mercoledì, 29 ottobre 2008

La realtà è un'unità a molti livelli
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«La realtà è un'unità a molti livelli. Posso percepire un'altra persona come un aggregato di atomi, ma anche come un sistema biochimico aperto in interazione con l'ambiente, o come un esemplare di homo sapiens, come un oggetto di bellezza, o come qualcuno i cui bisogni meritano il mio rispetto e la mia compassione, o infine come un fratello per cui Cristo è morto. Tutti questi aspetti sono veri e coesistono in maniera misteriosa in quell'unica persona. Se ne negassi uno, significherebbe che sminuisco sia quella persona che me stesso, che tento di capirla; significherebbe non rendere giustizia alla ricchezza della realtà.»
John Polkinghorne, Riduzionismo

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domenica, 19 ottobre 2008

Il desiderio e la realtà
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I nostri desideri han l'ali del falco, la realtà i monconi della tartuca”
Prezzolini 

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domenica, 12 ottobre 2008

Vedere e commuoversi
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“In questo mondo si parla troppo. Bisogna vedere, vedere e commuoversi. Perché il fare non basta, stanca. Invece il guardare ti commuove e ti muove senza sosta. "

Rose Busingye

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mercoledì, 06 agosto 2008

La realtà
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 “Di solito la realtà è qualcosa che non si sarebbe mai potuta immaginare”
C.S. Lewis



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venerdì, 18 luglio 2008

La realtà è un miracolo
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“Edschmid afferma che inserisco miracoli in avvenimenti comuni. È un grave errore da parte sua. Le cose comuni sono per se stessi miracoli. Io non faccio che registrarle. Può anche darsi che io illumini un pochino le cose come fa l'operatore delle luci su un palcoscenico semibuio. Ma non è esatto. In realtà il palcoscenico non è affatto buio, è inondato dalla luce del giorno. Perciò gli uomini chiudono gli occhi e vedono così poco.”

«Lo scrittore ha il compito di elevare ciò che è isolato e mortale alla vita infinita, di stabilire un legame tra il caso e la Legge. Ha un compito profetico».

«Un poeta può mettersi al di sopra delle cose? No! È prigioniero del mondo in cui vive e che rappresenta come Dio lo è delle sue creature».

 Franz Kafka, Diari


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venerdì, 04 luglio 2008

Abbiamo bisogno di pulire le nostre finestre
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Dovremmo di nuovo guardare il verde, e ancora una volta dovrebbero farci trasalire (senza accecarci) il blu, il giallo e il rosso. Dovremmo incontrare il centauro e il drago, e quindi forse scorgere improvvisamente, come gli antichi pastori, pecore, e cani, e cavalli- e lupi. Questa riscoperta, le favole ci aiutano a farla. Soltanto in tal senso la propensione per essere può renderci, o mantenerci, infantili.
La Riscoperta (che comprende un ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un ri-acquisto, il riacquisto di una chiara visione. Non dico che si tratti di “vedere le cose come sono”, e non mi mescolo coi filosofi, anche se potrei azzardarmi a dire di “vedere le cose come noi siamo (o eravamo) destinati a vederle”, quali cose distinte da noi. Abbiamo bisogno, in ogni caso, di pulire le nostre finestre, cosicché le cose viste con chiarezza possano essere liberate dal grigio offuscamento della banalità e della familiarità – liberate dalla possessività. Di tutti i volti, quelli dei nostri familiares, sono insieme quelli con cui è più difficile fare giochi con la fantasia, e quelli che è più difficile vedere con fresca attenzione, percependo la loro somiglianza e la loro differenza: il fatto che sono dei volti, e tuttavia dei volti unici. Questa banalità è in realtà la pena che si sconta per l’ “appropriazione”: le cose che sono trite, o (in senso cattivo) familiari, sono le cose di cui ci siamo appropriati, legalmente o mentalmente. Diciamo di conoscerle. Sono divenute come le cose che un tempo ci hanno attratto con il loro splendore, il loro colore o la loro forma: ci abbiamo messo sopra le mani, e le abbiamo rinchiuse col nostro tesoro, le abbiamo fatte nostre, e facendole nostre abbiamo smesso di guardarle. Naturalmente le fiabe non sono il solo mezzo di riscoperta, la sola profilassi contro la perdita. Basta l’umiltà.
grazie a: AnninaVisualizza Windows Live Spaces

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mercoledì, 18 giugno 2008

La realtà
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"La realtà esige serietà per poter essere conosciuta, esige occhi aperti, mente attenta e cuore ospitale affinché il Mistero che essa cela si riveli nella sua verità profonda.
Albert Einstein

Grazie:  a KarommahBlogger: Karommah

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domenica, 01 giugno 2008


 Lo sguardo alla realtà
con negli occhi la Sua presenza
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Lo sguardo alla realtà con negli occhi la Sua presenza esalta l'esperienza della corrispondenza, rende più capaci di percepire la corrispondenza dell'oggetto considerato col proprio cuore, al proprio cuore. Se si guardano le cose dal di dentro del rapporto con quell'Uomo, si vedono di più, si capisce di più se sono d'accordo con quello che il nostro io aspetta, con quello che il nostro cuore esige, oppure no.
Luigi Giussani Un caffè in compagnia Rizzoli

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sabato, 31 maggio 2008

Giovanni Reale:
«Emergenza educativa, una crisi che inizia dai padri»
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da: Avvenire  del 30-05-08

 DI EDOARDO CASTAGNA


 « Non è un proble­ma. È il proble­ma » . Il filosofo Giovanni Reale apprezza sen­za riserve l’intervento di Bene­detto XVI sull’emergenza edu­cativa, ritenendola «il proble­ma, in senso assoluto, che do­mina la situazione attuale». E ne indica immediatamente la radice: «Il relativismo pervasi­vo, e non di rado aggressivo, che mina alla base tutte le cer­tezze e tutti i valori – quindi, tutti i punti di riferimento per l’educazione. Così, il problema dell’educazione è in realtà il problema dell’essere uomo nella società di oggi. Perché la questione, a mio modo di ve­dere, è questa: è crisi tra i gio­vani perché è crisi tra i padri e le madri».
 È in questo senso cha va com­preso l’appello agli educatori, affinché siano «testimoni cre­dibili di quei valori su cui è pos­sibile costruire sia l’esistenza personale sia progetti di vita comuni e condivisi»?
 «Certo, è l’unica cosa da fare.
Per i Greci, nostri maestri, la ve­rità di una filosofia si misurava non nella coerenza delle idee e delle dimostrazioni che il filo­sofo presentava, ma nella coe­renza con la sua vita: se è vero quello che dici io lo verifico nel­la vita che conduci. A maggior ragione questo vale oggi per i padri, le madri, gli educatori. Le chiacchiere non servono a nulla: del padre e della madre i figli colgono ciò che fanno prima di ciò che dicono, che è, se non secondario, perlomeno conseguente. Del resto, il pon­tefice fin dalla sua prima enci­clica ha detto chiaramente che l’incontro con Cristo non è un incontro con delle idee, ma con una persona. Così Kierkegaard, alla domanda se avrebbe volu­to aver visto Cristo in faccia, ri­spondeva: Cristo lo devi sem­pre vedere in faccia; essere cre­dente significa sentire Cristo come contemporaneo. Il cri­stianesimo finisce nel momen­to in cui cessa questa contem­poraneità, perché allora Cristo diventa una cosa immensa­mente lontana da noi».
 Come è possibile far rinascere questa idea e metterla in atto? Il discorso di Benedetto XVI ri­chiama l’idea di persona.
 «Purtroppo il concetto di per­sona oggi è stato completa­mente dimenticato a favore dell’individuo, dell’individua­lismo.
Invece il concetto di per­sona, che non è greco ma esclusivamente cristiano, impli­ca un rapporto strutturale del­l’io con il tu. E non solo a livel­lo orizzontale, ma anche con il Tu maiuscolo; triangolare, quindi. Io l’ho imparato bene da Giovanni Paolo II, che dice­va che la persona umana è un rispecchiamento della Trinità. Recentemente sono stato mol­to colpito dalla lettura de L’e­poca della passioni tristi, dove due psicoterapeuti francesi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, scrivono che non han­no mai avuto così tanti pazien­ti giovani da curare come a­desso. E trovano la ragione di fondo di questa crisi dei giova­ni: il caos, che trovano sia in ca­sa, sia fuori. Rieducarli è asso­lutamente fondamentale, e per farlo occorre superare quel re­lativismo – che è nichilismo – dilagante. Non con parole, ma con testimoni».
 
La sua lunga esperienza di in­segnamento glielo conferma?
 « Io, che sono nella scuola da sempre, capisco e soffro mol­tissimo nel vederla corrotta e decadente, nel senso che si è dato un peso determinante al­la preparazione per l’utile, per ciò che concretamente è utile, scacciando tutto ciò che è 'i­nutile'. Per fortuna non siamo noi al vertice di questa sciagu­ra; ha iniziato la Germania, poi in Francia hanno tolto la filo­sofia dai licei… che però è quel­lo che insegna a pensare. A es­sere uomini».
 
Eppure anche nei nostri licei si sentono gli studenti dire: perché devo studiare latino, a che mi serve?
 «È quello il problema! Ma chi lo dice davvero? Prima degli studenti, lo dicono i padri e le madri. Ricordo una lettera: 'A mio figlio fanno studiare Man­zoni, ma a che cosa gli serve, vi­sto che farà l’ingegnere…'. Ma
scriveva il pensatore cinese T­chouang Tse: 'Tutti conoscono l’utilità dell’utile. Ma pochi co­noscono l’utilità dell’inutile'. E aggiungeva: 'L’inutile produce talvolta ciò che è più utile di ciò che tu ritieni inutile'. Sono queste le cose che dovremmo far capire. Anche a qualche pro­fessore, perché molti sono an­cora figli del Sessantotto e non hanno recuperato i valori che e­rano stati contestati».

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