La passione di Cristo raccontata dal grande medico e santo Giuseppe Moscati
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san g moscati
Pensieri di
S. Giuseppe Moscati
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"La
vita è un attimo; onori, trionfi, ricchezza e scienza cadono, innanzi
alla realizzazione del grido della Genesi, del grido scagliato da Dio
contro l'uomo colpevole: tu morrai!
Ma la vita non finisce con la morte, continua in un mondo migliore. A tutti è stato promesso, dopo la redenzione del mondo, il giorno che ci ricongiungerà ai nostri cari estinti, e che ci riporterà al supremo Amore!" [Da una lettera all'Avv.Mariconda, che aveva perduto la sorella. 27 febbraio 1919]
"Ma la vita fu definita un lampo nell'eterno.
E la nostra umanità, per merito del dolore di cui è pervasa, e di cui
si saziò Colui che vestì la nostra carne, trascende dalla materia, e ci
porta ad aspirare una felicità oltre il mondo.
Beati quelli che seguono questa tendenza della coscienza, e guardano all'al di là dove saranno ricongiunti gli affetti terreni che sembrano precocemente infranti". [Da una lettera alla Sig.na Carlotta Petravella, che aveva perduto la madre. 20 gennaio 1920]
"Che cosa possono fare gli uomini? Che cosa possono opporre alle leggi eterne della vita? Ecco la necessità del rifugio in Dio.
Ma tuttavia noi medici dobbiamo cercare di alleviare la sofferenza". [Da una lettera al Dott.Roberto Silvestro, che aveva uno zio affetto da cancro-cirrosi al fegato. 17 settembre 1920]
"Ricordatevi che, seguendo la medicina, vi siete assunto la responsabilità di una sublime missione.
Perseverate, con Dio nel cuore, con gli insegnamenti di vostro padre e
di vostra mamma sempre nella memoria, con amore e pietà per i derelitti,
con fede e con entusiasmo, sordo alle lodi e alle critiche, tetragono
all'invidia, disposto solo al bene."
[Da una lettera al Dott.Giuseppe Biondi, 4 settembre 1921]
"Quali che siano gli eventi, ricordatevi di due cose: Dio non abbandona nessuno.
Quanto più vi sentite solo, trascurato, vilipeso, incompreso, e quanto
più vi sentirete presso a soccombere sotto il peso di una grave
ingiustizia, avrete la sensazione di un'infinita forza arcana, che vi sorregge,
che vi rende capaci di propositi buoni e virili, della cui possanza vi
meraviglierete, quando tornerete sereno. E questa forza è Dio!"
[Da una lettera al Dott.Cosimo Zacchino. 6 ottobre 1921]
"Gli ammalati sono le figure di Gesù Cristo.
Molti sciagurati, delinquenti, bestemmiatori, vengono a capitare in
ospedale per disposizione della misericordia di Dio, che li vuole salvi!
Negli ospedali la missione delle suore, dei medici, degli infermieri, è di collaborare a questa infinita misericordia, aiutando, perdonando, sacrificandosi. Coltivando nel cuore rancori, si finisce per trascurare questa missione, affidata dalla Provvidenza a coloro che assistono gli infermi; si trascurano pure gli infermi. Ogni tanto però il Signore dà un segno della sua presenza e consapevolezza. All'improvviso muore un ammalato, che non si è saputo attrarre e circondare di cure affettuose! Speriamo che il Signore gli sia vicino, nel momento estremo!" [Foglietto scritto da Moscati, datato 17 gennaio 1922, e trovato in un libro dopo la sua morte.]
"Sebbene
lontano, non lascerete di coltivare e rivedere ogni giorno le vostre
conoscenze. Il progresso sta in una continua critica di quanto
apprendemmo. Una sola scienza è incrollabile e incrollata, quella rivelata da Dio, la scienza dell'al di là!
In tutte le vostre opere, mirate al Cielo, e all'eternità della vita e dell'anima, e vi orienterete allora molto diversamente da come vi suggerirebbero pure considerazioni umane, e la vostra attività sarà ispirata al bene". [Da una lettera al Dott.Consoli, allievo di Moscati, che doveva lasciare Napoli. 22 luglio 1922]
"Mio Gesù amore!
Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi santifica, mi
volge non verso una sola creatura, ma a tutte le creature, all'infinita
bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza!"
[Preghiera scritta da Moscati, datata 5 giugno 1922, ritrovata dalla sorella Nina.]
"Non la scienza, ma la carità
ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini
son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere
imperituri, simbolo dell'eternità della vita, in cui la morte non è che
una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno
al bene.
Io ho sempre vivo nel cuore il rammarico di sapervi lontano; e solo mi conforta che abbiate conservato in voi qualche cosa di me; non perché valga nulla, ma per quel contenuto spirituale, che mi sforzai di trattenere e diffondere intorno: compito sublime, ma tanto irragiungibile con le mie povere forze." [Da una lettera al Dott.Antonio Guerricchio, 22 luglio 1922]
"Ama la verità;
mostrati qual sei, e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi.
E se la verità ti costa la persecuzione, e tu accettala; e se il
tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te
stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio."
[Biglietto scritto da Giuseppe Moscati il 17 ottobre 1922]
"Ricordatevi che vivere è missione, è dovere, è dolore! Ognuno di noi deve avere il suo posto di combattimento... [...]
Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete occupare, ma delle anime gementi, che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio, e scendendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista! Siate in gaudio, perché molta sarà la vostra mercede; ma dovrete dare esempio a chi vi circonda della vostra elevazione a Dio". [Da una lettera al Dott.Cosimo Zacchino. Ascensione 1923]
Non c'è che una gloria, una speranza, una grandezza: quella che Dio promette ai suoi servi fedeli.
Vi prego di ricordarvi dei giorni vostri d'infanzia, e dei sentimenti che vi tramandarono i vostri cari, la vostra mamma; tornate all'osservanza e vi giuro che, oltre il vostro spirito, ne sarà nutrita la vostra carne: guarirete con l'anima e con il corpo, perché avrete preso la prima medicina, l'infinito Amore". [Da una lettera a un suo paziente, il Sig.Tufarelli di Norcara, in Calabria. 23 Giugno 1923.]
"Ho
creduto che tutti i giovani meritevoli, avviatisi tra le speranze, i
sacrifici, le ansie delle loro famiglie, alla via della medicina
nobilissima, avessero diritto a perfezionarsi, leggendo in un libro che
non fu stampato in caratteri neri su bianco, ma che ha per copertura i
letti ospedalieri e le sale di laboratorio, e per contenuto la dolorante
carne degli uomini e il materiale scientifico, libro che deve essere
letto con infinito amore e grande sacrificio per il prossimo.
Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i giovani, aborrendo dall'andazzo di tenere misterioso gelosamente il frutto della propria esperienza, ma rivelarlo a loro..." [Da una lettera al Prof.Francesco Pentimalli. 11 settembre 1923]
"Il
medico si trova poi in una posizione di privilegio, perché si trova
tanto spesso a cospetto di anime che, malgrado i loro passati errori,
stanno lì lì per capitolare e far ritorno ai principii ereditati dagli
avi, stanno lì ansiose di trovare un conforto, assillate dal dolore. Beato quel medico che sa comprendere il mistero di questi cuori e infiammarli di nuovo.
Ma è indubitato che la vera perfezione non può trovarsi se non estraneandosi dalle cose del mondo, servendo Iddio con un continuo amore, e servendo le anime dei propri fratelli con la preghiera, con l'esempio, per un grande scopo, per l'unico scopo che è la loro salvezza". [Da una lettera al Dott.Antonio Nastri, di Amalfi (Salerno), 8 marzo 1925.]
"Ahimè
la nostra scienza, se fosse tutta fredda e destinata solo a mantenere i
minuti piaceri del corpo, a che cosa servirebbe? Sarebbe un'ancella del
materialismo e dell'egoismo!
E perciò per metterla al riparo di simile accusa, noi medici, in momenti supremi, [...]ricordiamoci di avere di fronte a noi, oltre che un corpo, un'anima, creatura di Dio. [...] Vi garantisco che attraverso i miei diuturni studi compiuti, e le conoscenze dei vari popoli d'Europa e dei loro costumi, ho radicato sempre più la credenza dell'al di là; l'ingegno umano così possente, capace di manifestazioni di bellezza e di verità e di bene, non può essere che divino, e l'anima e il pensiero umano a Dio devono ritornare". [Da una lettera al Dott.Giuseppe Borgia, dopo aver visitato e confermato una diagnosi letale di un amico di quest'ultimo. Ottobre 1925.]
"Tutti i giovani dovrebbero comprendere che nella pratica della continenza
è il modo migliore per tenersi lontani dalla massima malattia
trasmissibile... Mantenendo il loro spirito e il loro cuore lontano
dalla turpitudine, in un esercizio di rinuncia e di sacrificio,
dovrebbero giurare di concedere la loro maturità e sanità sessuale
solamente all'essere unicamente amato."
[Dalla prefazione di Giuseppe Moscati a un libro di Giuseppe De Giovanni s.j. e del Prof.Mario Mazzeo dal titolo: L'Eugenica. 1925]
"Ho
qui sul mio tavolino, tra i primi fiori di primavera, il ritratto di
vostra figlia, e mi soffermo, mentre vi scrivo, a meditare sulla
caducità delle umane cose! Bellezza, ogni incanto della vita passa... Resta solo eterno l’amore, causa di ogni opera buona, che sopravvive a noi, che è speranza e religione, perché l’amore è Dio.
Anche l’amore terreno Satana cercò d’inquinare, ma Dio lo purificò attraverso la morte. Grandiosa morte che non è fine, ma è principio del sublime e del divino, al cui cospetto questi fiori e la bellezza son nulla! Il vostro angelo, rapito nei suoi verdi anni, come la sua diletta amica, ritrovata negli ultimi giorni, la beata Teresa, assiste voi e la mamma sua dal cielo..." [Da una lettera al Notaio De Magistris, a cui era morta la giovane figlia. 7 marzo 1924. * Giuseppe Moscati era molto devoto della allora Beata Teresa del Bambino Gesù (S.Teresa di Lisieux). Ne parla in alcune lettere e ne aveva nella sua stanza un'immagine. Si può leggere su questo l'articolo di Giuseppe Samà s.j.: S.Teresa di Lisieux e S.Giuseppe Moscati, due grandi santi del nostro tempo.]
"Voglio ancora una volta animare la vostra speranza, trasformarla in sicurezza, guarirete! Iddio poi vi domanderà conto della vita che vi donerà.
E quando, da qui a mille anni, comparirete alla sua presenza, voi dovete poter rispondere: 'Signore, ho compiuto bene la giornata! Ho operato per la maggiore tua gloria!'. Dunque, guarirete; ma pazienza, ci vuole tempo. Non dimenticate di alimentare l'anima col ricevere nostro Signore nella S.Comunione, così come alimentate - ed è vostro imprescindibile dovere - il corpo." [Da una lettera al Dott.Francesco Pansini, ammalato, che era stato visitato da Moscati. 30 Gennaio 1926.]
"Stasera abbiamo letto la vostra tesi. E' stato un successo enorme... Tutti della commissione non hanno potuto che applaudire...
Vedrete che chi non abbandona Dio, avrà sempre una guida nella vita, sicura e dritta. Non prevarranno deviazioni, passioni, a smuovere colui che del lavoro e della scienza - di cui l'initium est timor Domini - ha fatto il suo ideale." [Da una lettera al Dott.Francesco Pansini. 10 marzo 1926]
"Dalla mia infanzia mi sono inteso trasportato verso la terra ove la Regina del Rosario
ha attratto tanti cuori e operato tanti prodigi. E voglia ella, Madre
benigna, proteggere il mio spirito e il mio cuore in mezzo ai mille
pericoli in cui navigo, in questo orribile mondo!
Sempre che posso, faccio una scappata a Pompei - cosa ormai moltissime volte proibitami dalla assillante mia professione. Ma sempre che col treno passo fuggendo in vista del santuario, per recarmi lontano, in consulti, cosa questa frequentissima, il mio sguardo e il mio cuore è lì, ove tra gli alberi si intravede il campanile in costruzione, ai piedi del ciborio su cui s'innalza l'immagine della Vergine!" [Da una lettera a Bartolo Longo - da poco proclamato Beato - fondatore del Santuario della Vergine del Rosario di Pompei. A Longo - del quale era anche medico curante - Moscati era legato da grande amicizia. 20 Luglio 1926.] "Che la materia sia animata da moltissime e profonde energie che la evolvono nelle sue attività e nella progressiva complessità delle sue forme, nulla si oppone ad accogliere, ma occorre altrettanto ritenere che questo principio di spiritualità... quest'ordine meraviglioso, che si organizza nella materia fino a raggiungere le alte vette della sua organizzazione più elaborata, non sia altro che l'attestazione che un Deus absconditus regola con suprema intelligenza questo superbo edificio su cui si eleva la vita, la quale si svolge a causa di leggi sancite dall'Alta Sapienza che tutto muove; tanto più meravigliose quanto esse governano non solo i colossali cosmi, ma la delicatissima trama del più microscopico elemento." [Pensiero di Moscati riferito dal Prof.Pietro Castellino dopo la morte del Santo.]
"Oh
se i giovani, nella loro esuberanza, sapessero che le illusioni
d'amore, per lo più frutto di una viva esaltazione dei sensi, sono
passeggere!
E se un Angelo avvertisse loro, che giurano così facilmente eterna fedeltà a illegittimi affetti, nel delirio di cui sono presi, che tutto quello che è impuro amore deve morire, perché è un male, soffrirebbero meno e sarebbero più buoni. Ce ne accorgiamo in età più inoltrata, quando ci avviciniamo per le umane vicende, per caso, al fuoco che ci aveva infiammati e non ci riscalda più". [Da una nota personale di Moscati, non datata]
"Il bisogno di eternare nel marmo e nel bronzo le grandi figure scomparse, e celebrarne l'opera, sta a dimostrare che il pensiero e lo spirito umano sono eterni.
Sotto ogni croce e ogni stele di questo cimitero, ove pare che non rinserrino che mucchi di ossa informi e di polveri, c'è il ricordo di un cuore che visse d'infinito amore e soffrì un immenso dolore; c'è la sede d'uno spirito che non può essere estinto." [Parole di Moscati per la dedicazione di un busto a Giovanni Paladino, nel cimitero di Poggioreale.]
"Amiamo il Signore senza misura,
vale a dire senza misura nel dolore e senza misura nell'amore...
Riponiamo tutto il nostro affetto, non solo nelle cose che Dio vuole, ma
nella volontà dello stesso Dio che le determina."
[Dalla deposizione della Sig.na Emma Picchillo]
"E' vero, è vero che il giogo del Signore è leggero e soave.
Quando si ama il Signore non si sentono più pene e se ve ne sono
diventano dolci. Arrivando ad amare fortemente il Signore, si desiderano
e si amano i patimenti".
[Dalla deposizione della Sig.na Emma Picchillo, che precisò come Moscati le avesse detto queste parole a Pompei, dopo aver sentito un canto che aveva per titolo: "Il giogo del Signore è leggero e soave".]
"Esercitiamoci quotidianamente nella carità.
Dio è carità: chi sta nella carità sta in Dio e Dio sta in lui. Non
dimentichiamo di fare ogni giorno, anzi ogni momento offerta delle
nostre azioni a Dio, compiendo tutto per suo amore."
[Dalla deposizione della Sig.na Emma Picchillo]
"Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un'anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l'ardenza dell'amore, la carità".
[Frammento trovato da P.Alfredo Marranzini s.j. tra le carte di Moscati.] |
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san g moscati
La carità trasforma il mondo
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“Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo.”
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San Giuseppe Moscati
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Verso
la fine di ottobre del 1987 si chiudeva a Roma il Sinodo generale dei
Vescovi che per quasi due mesi avevano discusso sul tema della
«vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo».
Il
problema era stato molto dibattuto, anche al di fuori del Sinodo, e
non erano mancate certe dure polemiche perché esso faceva emergere con
radicalità una questione grave e urgente, quella della «identità cristiana»:
che cosa vuol dire oggi essere cristiani, senza aggettivi o ruoli
specifici, collocati esattamente là dove tutti gli altri uomini vivono e
costruiscono la storia?
Prima
che i Vescovi se ne partissero da Roma — nonostante che le conclusioni
del dibattito non fossero state ancora tratte — il Papa decise di
intervenire, in modo indiretto ma denso di significato, offrendo come
esempio la figura e l’esperienza di un cristiano, laico appunto.
Procedette dunque a una canonizzazione, introducendola così:
«L’uomo
che oggi invocheremo come Santo della Chiesa universale si presenta a
noi come un’attuazione concreta dell’ideale del cristiano laico: Giuseppe
Moscati, medico primario ospedaliero, insigne ricercatore, docente
universitario di fisiologia umana e di chimica fisiologica….».
Non
molti, a dire il vero, conoscevano Moscati: la maggior parte, tra
Vescovi e fedeli, si accontentò di veder confermato un punto essenziale
dell’insegnamento conciliare: che anche i laici, cioè, sono chiamati alla santità e possono realizzarla nel mondo, nell’esercizio della loro professione secolare.
Qualcuno
sapeva qualcosa di più e poteva predicare a lungo sulle particolari
virtù di questo nuovo santo, soprattutto quelle oggi più apprezzate:
amore ai poveri, disinteresse a tutta prova, coerenza evangelica,
sacrificio di sé...
Pochissimi
però — anche tra gli esperti — sono stati disposti a confrontarsi con
un dato irriducibile e particolarmente urtante: la concezione di
«laicità» vissuta e difesa da Moscati.
Diciamolo
subito a chiare lettere: dal punto di vista «laicale» Moscati si
comportò nel modo esattamente opposto a quello insegnato da tutti
coloro che si affannano a descrivere esattamente i limiti entro i quali
un laico deve restare: Moscati non ebbe limiti, non rispettò
distinzioni.
Gli
intellettuali cattolici oggi amano molto l’imprecisa formula
maritainiana che insegna a «distinguere per unire». Altri suggeriscono
più correttamente di «distinguere (piuttosto) nell’unito». E tutti
intendono dire che bisogna saper collegare assieme con prudenza ciò che
appartiene alla fede e ciò che appartiene alla scienza, ciò che
appartiene alla «Chiesa» e ciò che appartiene al «mondo», ciò che è
dovuto alla propria professione cristiana e ciò che è dovuto alla
propria professione sociale.
Ebbene, noi non vogliamo dire che questi problemi non siano veri o non siano importanti.
Diciamo semplicemente che se
Moscati ebbe un carisma e un compito nella Chiesa, esso fu quello di
mostrare una tale unità tra i vari campi (prima e oltre ogni possibile
distinzione) da rasentare l’incredibile: nessuno oggi oserebbe imitarlo
nel modo con cui egli intrecciava insieme scienza e fede, professione
umana e professione cristiana, cura del corpo e cura dell’anima.
Anzi, questi aspetti della sua vita vengono raccontati con disagio,
vengono minimizzati dai biografi. Insomma, inserire veramente l’esempio
di Moscati nell’attuale dibattito sulla laicità si rivela come una
operazione dirompente e non priva di umorismo.
Ma
iniziamo pure da quel che è più ovvio: la conferma della vocazione
universale dei cristiani alla santità: tutti possono diventare santi.
Giovanni
Paolo II, canonizzando Moscati, non ha detto ai laici di imparare in
primo luogo le sue virtù morali, ma di imparare a riflettere sulla
propria vocazione: «
Anche
noi comunque cominceremo raccontando gli esempi morali che il Santo ci
ha lasciato, ma lo faremo ricordando costantemente che i suoi
atteggiamenti virtuosi sono come le annotazioni scritte sulla sua carta
d’identità: servono a identificarlo, ma non sono la sua identità.
L’identità emergerà piuttosto da questo volto personale, da quel cuore,
in cui si evidenzierà il suo modo di considerare il rapporto
medico-malato come evento integrale di salvezza cristiana.
Giuseppe Moscati nasce nel
Napoli
sarà dunque la sua città: dove riceve la prima Comunione, si iscrive
al ginnasio, dà la maturità classica e si laurea in medicina nel 1903.
Una
infanzia e una giovinezza assolutamente normali, in una f amiglia
veramente cristiana, nella quale non mancano le sventure: il papà muore
improvvisamente quando Peppino si è appena iscritto all’università;
qualche anno dopo, in seguito a lunga malattia, gli muore un fratello
che ha solo 32 anni. La carriera medica di Giuseppe Moscati durerà 24
anni, poiché egli muore nel 1927, ad appena quarantasette anni di età.
Vince il concorso per Aiuto straordinario agli Ospedali Riuniti di Napoli nel 1903. Durante
l’eruzione del Vesuvio gli è affidata la responsabilità dell’ospedale
di Torre del Greco, da cui porta in salvo i malati a rischio della sua
stessa vita.
Nel 1908 è Assistente ordinario nell’Istituto di Chimica fisiologica.
Nel
1911 diventa Aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti, vincendo un
concorso a cui partecipano i più colti medici e docenti del Mezzogiorno,
dato che è un concorso atteso da trent’anni.
Moscati è il più giovane e vince superando ben due futuri direttori di
clinica universitaria. E nominato socio della Regia Accademia
Medico-chirurgica. Nello stesso anno ottiene
Nel 1919 è nominato Primario della tu Sala degli Incurabili.
Nel 1922 una Commissione appositamente nominata dal ministero della Pubblica Istruzione gli conferisce anche
Nel 1923 è inviato quale rappresentante del Governo italiano al Congresso internazionale di fisiologia, a Edimburgo.
Abbiamo
voluto rileggere in modo scarno e ridotto il curriculum della sua
carriera professionale proprio per far percepire — col semplice
scandire date, titoli e specializzazioni — una vita tesa
intelligentemente a ciò che qualunque studente di medicina sogna per
sé, anche se in forme e indirizzi diversi. Aggiungiamo solo che — se Moscati l’avesse soltanto voluto —
Una
esposizione simile potremmo fare elencando i titoli delle sue
pubblicazioni scientifiche: dalla tesi di laurea, giudicata degna di
pubblicazione, che aveva a tema «L’ureogenesi epatica», agli ultimi due
articoli scritti per
Ma
in che cosa dunque Moscati, che seppe percorrere così brillantemente e
velocemente la sua carriera professionale, maturò una particolare
santità?
Dobbiamo anzitutto ripensare al tempo in cui egli visse. Scrive giustamente un suo biografo: «La
figura di Moscati deve essere inquadrata nel clima culturale dominato
dal positivismo che dilaga negli ultimi anni dell’800 e nei primi del
‘900. Egli fece parte del gruppo di laici che, nonostante la tendenza
del momento, contribuirono in modo determinante a far riscoprire nel
mondo la vitalità e la perenne giovinezza della Chiesa».
Il
documento che introduce la sua causa di beatificazione (durante la
quale furono raccolte tutte le testimonianze che lo riguardano) inizia
con una osservazione interessante, soprattutto perché risale
all’immediato dopoguerra: «Il
Servo di Dio visse in questo nostro tempo in cui per colpa del
laicismo, come si usa dire, la massa della gente è stata strappata dalla
Chiesa, la fede è stata separata e messa in opposizione alla scienza,
la professione della fede cristiana è stata separata dalla professione
delle arti liberali e dagli impegni civili ed è stata relegata nel
chiuso degli invisibili confini della coscienza. Contro tale
nefastissimo laicismo
Il
merito di questa impostazione — che i successivi biografi ebbero il
torto di trascurare — è quello di individuare bene il cuore della
testimonianza di Moscati, evitando di presentarlo subito, e
astoricamente, come il «medico santo» solo per il suo comportamento
disinteressato, per la sua modestia, per la sua sobrietà, o per
l’essersi messo a servizio gratuito dei più diseredati.
Certo,
anche questi aspetti furono splendidi e commoventi e non vanno affatto
trascurati, ma, a insistere su di essi, si rischia di osservare e amare
il colore e la forma dei fiori senza prendersi cura della radice che li
nutre.
Cominciamo pure, comunque, da questi ricordi più immediatamente affascinanti.
Celebre era, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per il denaro. Ecco la significativa testimonianza di un medico che spesso lo osservò nell’esercizio della professione: «Egli,
che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non
voleva ricevere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente.
Se
visitava dei ricchi o dei benestanti, certo accettava il denaro dovuto,
ma la sua preoccupazione — davanti a se stesso e davanti a Dio —
restava tuttavia quella di non essere mai un approfittatore».
Ecco una lettera indirizzata alla moglie di un paziente: «Egregia
Signora, vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi
abbiate dato troppo. Certo, da altri, che fossero pescecani, io
prenderei di più, ma da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi doni la
gioia della guarigione di vostro marito. E fate che costui non si
allontani da Dio e frequenti la fonte della salute (la santa
Comunione). Vi saluto. G. Moscati».
Un
giorno venne chiamato ripetutamente al capezzale di un ragazzo
quindicenne di cui egli si prese cura fino alla completa guarigione.
Quando tutto fu finito ricevette una busta con l’onorario. La aprì
mentre tornava a casa e si accorse che conteneva una somma allora
notevole: mille lire. Lo videro tornare bruscamente indietro, salire
agitato le scale e tendere nervosamente la busta con queste parole: «O voi siete pazzi o mi avete preso per un ladro».
I
parenti pensarono che il celebre professore fosse scontento d’aver
ricevuto troppo poco e il padre del ragazzo, impacciato, gli tese un
altro biglietto da mille. Ma il professore non solo scartò con
impazienza quella nuova offerta, ma, aprendo il portafoglio, restituì
ottocento lire affermando che duecento erano più che sufficienti. Poi
se ne andò tutto contento, lasciando esterrefatti gli astanti.
Se dunque i ricchi se lo contendevano per la sua fama di diagnostico, i
poveri gli si riversavano addosso perché sapevano che non sarebbe
stato chiesto loro nulla, o addirittura ci avrebbero guadagnato.
Nei casi più dolorosi infatti Moscati giungeva fino a mettere lui
qualche banconota in mezzo alla ricetta, o sotto il cuscino del
paziente di cui intuiva le condizioni disagiate, soprattutto quando
s’accorgeva che la malattia era provocata o aggravata dalla
denutrizione.
A
volte provvedeva lui stesso all’acquisto delle medicine che aveva
prescritto o a pagare la retta dell’ospedale per chi non ne avrebbe
avuto la possibilità.
Un
giorno un collega che l’aveva accompagnato per una visita gli fece
osservare, a nome della categoria, che il suo disinteresse per il denaro
li metteva tutti in difficoltà, ma la risposta che ne ebbe — nel quasi
dialetto napoletano che Moscati normalmente usava — fu assai espressiva:
«Peppì, scusate: ‘lla ce sta ‘na mamma che piange per la salute del
figlio e vuie me venite a parla’ ‘e solde!».
Lo
si poteva chiamare nei quartieri più malfamati, nei vicoli bui dove era
pericoloso anche solo avventurarsi, in quegli androni fatiscenti dove
era costretto a farsi luce con un cerino, ed egli non rifiutava mai di
recarvisi. Se lo si metteva in guardia rispondeva: «Non si può avere
paura, quando si va a fare del bene».
Lo
incontrò un amico di sera, al Vomero, in piazza Vanvitelli, lontano dal
solito giro. Gli chiese cosa stesse facendo da quelle parti:
«Sai — disse Moscati ridendo — vengo ogni giorno a fare da sputacchiera per un povero studente».
Si
trattava di un giovane che viveva solo in una camera d’affitto, malato
di TBC, anche se non in fase contagiosa. Se i padroni l’avessero
saputo, l’avrebbero cacciato sulla strada, e allora Moscati veniva ogni
sera a portar via i fazzoletti pieni di catarro per bruciarli, e ne
lasciava di puliti.
In
casa Moscati, la sorella che lo assisteva riceveva tutti i suoi
guadagni e li amministrava con l’impegno di trattenere il necessario per
vivere decorosamente e di destinare il resto ai bisognosi. Lo
stesso professore tornava dalle visite portando con sé gli indirizzi
delle famiglie povere che aveva incontrato, li passava alla sorella e le
diceva di provvedere.
Un episodio tra tutti è di una tenerezza e di una bontà senza pari.
C’era
un vecchietto povero e solo, che un tempo era stato compositore di
canzoni (in quegli anni a Napoli furono composte le più celebri
melodie!): le sue condizioni erano critiche anche se non disperate e il
male poteva aggravarsi improvvisamente. Avrebbe avuto bisogno di
controlli quotidiani, ma Moscati non glieli poteva garantire, assorbito
com’era dal lavoro in ospedale. Si misero d’accordo così: tutte le
mattine il vecchietto si faceva trovare in un caffè, lungo la strada che
Moscati percorreva per recarsi in ospedale e lì consumava (a spese del
Professore, s’intende) una bella tazza di latte caldo e biscotti. Il
Professore passava, metteva dentro la testa, controllava che egli fosse
presente, gli sorrideva e se ne andava in fretta. Se qualche mattina
non lo vedeva, allora sapeva di doverlo raggiungere al più presto nel
suo tugurio fuori mano, per soccorrerlo.
I racconti
si potrebbero moltiplicare, ma non devono far dimenticare che la
carità di Moscati non era quella di un tranquillo bene-fattore, ma
quella di un medico di prestigio alle prese con una professione
stressante, lacerato da richieste molteplici: come studioso doveva
aggiornarsi, fare esperimenti di laboratorio, scrivere relazioni
scientifiche; come medico la sua presenza era necessaria sia
all’ospedale, sia nelle case dei privati che gli inviavano continue
richieste e sollecitazioni; come libero docente doveva preparare
lezioni, insegnare, seguire il lavoro dei discepoli e — in tutto questo
e al di là di tutto questo — c’era la sua decisione «cristiana» di non
sottrarsi mai alle richieste dei più poveri.
Alla
sua morte prematura gli amici parleranno della sua «fatica quotidiana, a
tutte le ore, senza riposo, senza tregua, senza respiro». A chi gli
chiedeva come facesse a resistere, rispondeva semplicemente: «Chi fa
A testimonianza delle sue capacità mediche possiamo ricordare il suo incontro col celebre tenore Enrico Caruso. Questi tornava nella sua Napoli dopo che a New York durante un concerto era stato stroncato da una emorragia. Aveva consultato, in America, i più illustri clinici; lo stesso aveva fatto a Roma, e nessuno era riuscito a fargli una diagnosi utile. Finalmente era giunto da Moscati. Era ormai troppo tardi e gli restavano solo due mesi di vita, ma l’intuito del medico napoletano diagnosticò subito che si trattava di un ascesso subfrenico.
Tutti
dovettero poi dargli ragione, anche se era una scienza ormai inutile
per il quarantottenne tenore che era partito povero da Napoli e vi
ritornava nel 1921 con un patrimonio valutato più di cinquanta milioni
d’allora.
Non
gli servì la scienza di Moscati, ma gli servì la sua fede. Egli infatti
non esitò a dire a Caruso «che aveva consultato tutti i medici, ma non
aveva consultato Gesù Cristo».
E il tenore rispose: «Professore, fate quello che volete».
Ed egli si preoccupò che gli portassero in tempo gli ultimi sacramenti, assistendolo fraternamente fino alla fine.
Torniamo per ora alla sua fama di medico.
«Giungeva — testimoniò un suo collega — a sfumature diagnostiche che sbalordivano discepoli e maestri».
Basterà dire che colui che allora era considerato da tutti il Maestro dei maestri — quell’Antonio Cardarelli che era divenuto in Italia una istituzione — considerava Moscati come suo discepolo prediletto («il migliore che ho avuto in sessant’anni», diceva), lo aveva scelto come suo medico personale e a volte si commuoveva fino alle lacrime quando lo osservava nell’esercizio dell’arte medica.
A parte le visite ai malati e l’enorme clientela che giungeva da tutto il meridione e letteralmente lo soffocava, il
suo ininterrotto lavoro aveva luogo nelle corsie dell’ospedale, che
egli percorreva attorniato dai suoi discepoli, ai quali insegnava
medicina direttamente dalla osservazione dei malati («trattava anche gli
studenti del primo anno come ‘colleghi’ e non mancava mai di chiedere
la loro opinione»).
Soleva
dire: «Vicino all’ammalato non ci sono gerarchie. Tutti veniamo qui per
apprendere: direttori, coadiutori, assistenti, siamo tutti presso il
letto dell’infermo, perché l’ammalato rappresenta il libro della natura».
La lezione continuava poi nell’anfiteatro anatomico.
L’istituto
anatomo-patologico era allora in decadenza: nessuno voleva occuparsene e
Moscati aveva accettato di curarne a titolo gratuito «la
riorganizzazione e il razionale funzionamento». Sulla parete d’ingresso
c’era un vecchio motto scelto dal fondatore, a cui nessuno prestava più
molta attenzione. Diceva: «Hic est locus ubi mors gaudet succurrere
vitam», «questo è il luogo in cui la morte è lieta di poter soccorrere la vita».
Moscati
cominciò col far appendere a quelle spoglie pareti un bel crocifisso e,
sotto, la scritta: «O mors, ero mors tua», «O morte, io sarò la tua
morte!». Con questa promessa del Risorto, Moscati riscattava quel luogo
definito da tutti «malsano, disadorno, gretto, opprimente».
Quando
il gruppo entrava e si disponeva attorno al professore, egli guardava
un attimo la croce e tutti si accorgevano che stava silenziosamente
pregando; poi cominciava a sezionare iniziando sempre con qualche
richiamo breve ma assai esplicito: «Qui finisce la superbia dell’uomo!
Ecco che cosa siamo! Come è istruttiva la morte!». Oppure, indicando il
cadavere, diceva: «Mentre l’altro giorno costui era un nostro paziente,
oggi vediamo alcuni organi che gli appartennero... Se voi giovani
faceste di tanto in tanto la considerazione della morte, sareste molto
più buoni».
Così
quell’istituto, che era — come egli amava sempre ripetere — «il luogo
in cui noi medici controlliamo le nostre diagnosi e i nostri errori»,
nonostante la modestia dei locali e l’insufficienza dei mezzi tecnici,
raggiunse a detta di tutti «il suo massimo splendore dal punto di vista
scientifico».
I
discepoli che seguivano quotidianamente Moscati letteralmente lo
veneravano e molti lo accompagnavano fino a casa, continuando per via a
discutere con lui e a interrogano. Uno di loro rievoca commosso la
scena divenuta familiare a Napoli: «Lo portavamo in processione come se
fosse un santo». E quasi tutti finivano, dopo il giro domenicale nelle
corsie, per accompagnarlo a Messa.
Il professore stesso scriveva in una lettera: «Ho
formato come una comunità religiosa di frati: i miei amici e io
lavoriamo insieme con emulazione, con idealizzazione. Siamo tanto
sentimentali! Iddio ci guida. Ho creduto che tutti i giovani [...]
avessero il diritto di perfezionarsi leggendo un libro che non fu
stampato in caratteri, nero su bianco, ma che ha per copertina i letti
ospedalieri e le sale di laboratorio, per contenuto la dolorante carne
degli uomini e il materiale scientifico, libro che deve essere letto con
infinito amore e con grande sacrificio per il prossimo» (11 settembre 1923).
E
aggiungeva: «Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i
giovani aborrendo dall’andazzo di tenere misterioso gelosamente il
frutto della propria esperienza, ma rivelarlo loro...».
Questa
concezione quasi monastica della propria vocazione e della comunità
ospedaliera ci rimanda a un’altra caratteristica della laicità di
Moscati, ad una novità.
In
un tempo in cui le vocazioni si dividevano in forma piuttosto netta (o
matrimonio o convento), Moscati scelse di restare nel mondo,
completamente laico — senza particolari appartenenze a istituti
religiosi, nemmeno come «terziario» — ma scegliendo coscientemente la
condizione verginale.
In
un biglietto che la sorella raccolse dal cestino della carta straccia
leggiamo una specie di confessione che egli scrisse per se stesso:
«Mio
Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi
santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le
creature, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra
immagine e somiglianza».
Trattare
Gesù come una persona cara, alla quale ci si rivolge con le parole più
affettuose e con la quale si esperimenta una intimità bruciante, sembra
ridicolo ai nazionalisti di tutti i tempi e sembra anche a molti
cristiani un’esperienza possibile solo nella penombra mistica dei
monasteri.
Ma che questo possa accadere nel mondo, là
dove il lavoro diventa per molti l’unico dio e dove le preoccupazioni
scientifiche e materiali sembrano invadere anche lo spirito, questo è
per il mondo un interrogativo che si apre direttamente sul mistero del
Figlio di Dio, divenuto «nostro prossimo»: al quale cioè possiamo dare
con somma verità tutti i nomi più familiari.
Racconta un sacerdote che ascoltava spesso la sua confessione:
«Richiesto
da me che cosa avesse pensato in una tramvia affollatissima dove
c’eravamo trovati insieme e aveva anche pagato per me il biglietto, mi
rispose: “A Dio, padre, al cielo”».
«Amare
Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore»; questa era la
massima che identificava assieme sia la sua missione di medico
cristiano, sia lo sguardo con cui osservava i malati. Eppure i tempi, allora, e l’ambiente non erano per nulla facili.
Ecco alcune testimonianze tratte dai processi di beatificazione:
«Il
servo di Dio subiva la lotta di tutti i medici iscritti alla
massoneria per la sua aperta professione cristiana e anche di quelli
che vedevano in lui un competitore valentissimo, benché di giovane età».
Questo
odio massonico contro Moscati aveva dunque un risvolto inconfessabile
(«la gelosia e l’invidia di chi non sapeva tollerare la superiorità
scientifica di lui») e un motivo ufficialmente sbandierato con acre
insistenza.
Dice un testimone: «Era
disprezzato, motteggiato da quelli che non vedevano bene la sua franca,
schietta e coraggiosa professione di fede cattolica: lo chiamavano
maniaco, isterico, esaltato, fanatico».
Altre
ingiurie che gli gettavano addosso (e qualche collega più arrabbiato
faceva in modo che gli giungessero all’orecchio, quando passava) erano
quelle di «fanatico, iettatore, pazzo da manicomio, medico di preti e suore».
Moscati
viveva, dunque, in un ambiente frequentato da medici di dichiarata
appartenenza massonica e di aperta professione materialista, ed egli lo
sapeva benissimo. Anzi quando era in gioco la verità e la giustizia ne parlava senza mezzi termini.
«Io
— scriveva in una lettera — sono una stella di infima grandezza in
mezzo a tanti astri brillanti e sarò contento di eclissarmi, se però
saranno gli astri illuminati a sorgere e non alcune fiacche nebulose..
Nei
concorsi chiedeva che non ci fossero «né compromessi, né manovre
traverse..., ma solo riconoscimento del valore assoluto all’infuori di
età, di scuola, di sette».
In
una lettera da lui indirizzata a Benedetto Croce, allora ministro
della Pubblica Istruzione, Moscati caldeggiava la nomina alla Cattedra
di Igiene di un collega da lui ritenuto il più idoneo e non ebbe paura
di scrivergli:
«So che un pezzo altissimo della Massoneria vuol venire a ingrossare il
numero dei ‘fratelli’ nella Facoltà che è divenuta per questi ultimi
una casa grande».
Certi
testimoni dicono esplicitamente e senza mezzi termini
sull’atteggiamento che la setta aveva verso Moscati: «volevano
distruggerlo, annientarlo».
Ma notavano anche che la lotta non lo scalfiva neppure: «Tutti
sapevano — dice un testimone — che il Professor Moscati era come un
sacerdote, e la lotta fattagli dai massoni medici e dagli altri colleghi
materialisti non l’ha mai abbattuto... Soleva dirmi: “Che cosa
m’importa degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio”».
Del
resto vedremo tra breve che la professione di fede del Moscati era
pubblica in modo quasi intollerabile, tanto che oggi verrebbe forse
criticata anche dai credenti più pii e integristi.
Nei
processi canonici, durante i quali i suoi atteggiamenti sono stati
minuziosamente analizzati e giudicati, la domanda ricorrente del giudice
ecclesiastico (nemmeno tanto velata) è questa: «Moscati era un maniaco
religioso?». «No rispondono tutti i testimoni — era equilibrato, attento, rispettoso». E tuttavia aveva della sua professione medica un’idea — e conseguentemente una prassi — certo non usuale.
Il problema consisteva in questo: Moscati
era assolutamente convinto «che il medico non deve guardare solamente
la salute del corpo dell’infermo, ma anche sopperire ai bisogni del
malato e della sua famiglia, sotto qualunque aspetto si potesse considerare il bisogno».
Perciò
egli si era imposto quell’ atteggiamento caritatevole verso tutti i
bisognosi di cui abbiamo parlato. Ma con la stessa inesorabile logica
egli considerava come prioritario il bisogno spirituale dei pazienti e
la cura delle loro anime.
Esprimiamoci
con assoluta chiarezza. Dice un testimone: «I malati sapevano che per
essere curati da Moscati bisognava frequentare i Sacramenti». E ancora: «A
tutti i malati domandava se erano in grazia di Dio, se frequentavano i
Sacramenti, se erano in regola con la loro coscienza. Insomma, curava
prima l’anima e poi il corpo degli infermi che andavano da lui».
Moscati
sosteneva tranquillamente che nell’ospedale «missione di tutti» —
suore, infermieri, medici — era «collaborare alla misericordia di Dio».
La
suora del suo reparto doveva anzitutto interessarsi della situazione
spirituale del paziente in modo da poterne avvertire il professore: il
quale, mentre esercitava la sua arte medica con tutta la bravura e la
dedizione possibile, riusciva a far percepire al malato la globalità del
suo problema, l’integralità del suo bisogno, e quasi sempre riusciva a
portarlo con ferma dolcezza a un desiderio di guarigione intesa
davvero come «salvezza».
Espressioni
come «confessatevi», «mettetevi in grazia di Dio», «accostatevi al
Signore», «pensate all’anima immortale», «Dio è il padrone della vita e
della morte» entravano o prima o poi nelle indicazioni «sanitarie» che
Moscati dava ai suoi pazienti, soprattutto quando si accorgeva che la
loro vita era in pericolo e in pericolo era il loro destino eterno. Il
fatto è che, quando le usava, gli volevano già così bene che quasi
sempre le accettavano con riconoscenza, e molti gli obbedivano.
A
un illustre avvocato milanese, dopo aver fatto la diagnosi sul suo
stato di malattia, consegnò una lettera in cui gli indicava il nome di
un prete della sua città «perché si mettesse in pace con Dio, siccome
da anni se ne era allontanato, altrimenti non avrebbe potuto curargli
il corpo».
A
un altro che, dopo un mese di cura, non sembrava reagire alla terapia,
disse candidamente: «Voi non vi siete confessato, perciò non guarite.
Iddio così ve lo ricorda».
A
chi si meravigliava del suo stile spiegava così: «E mia abitudine di
parlare agli infermi di altre cose oltre il corpo, perché essi hanno
anche un’anima... La
cosiddetta psicanalisi di Freud è una cura; che cosa è la psicanalisi? È
la confessione fatta al medico per scardinare le idee fisse. Ma questo
va bene per i paesi protestanti dove non c’è la confessione: presso di
noi c’è la confessione cattolica».
A
un giovane, la cui più grave malattia sembrava l’assoluta mancanza di
spina dorsale, diede una ricetta su cui c’era scritto: «Cura di
Eucaristia».
È
difficile per noi immaginare come Moscati coniugasse la cura dello
spirito con quella del corpo (da notare che egli introduceva il
problema, poi rimandava i «malati d’anima» a qualche prete di sua
conoscenza, e si interessava personalmente che l’incontro avesse luogo).
In
una lettera a un collega Moscati scrive: «Beati noi medici se
ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali per
le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi. Lì è la
soddisfazione e non nel sentirci proclamare risanatori di un male
fisico» (E aggiungeva con un pizzico di ironia: «Soprattutto quando la
coscienza ci ammonisce che il male fisico guarisce da sé!»).
«È
il medico dei corpi e delle anime», diceva di lui Bartolo Longo — il
costruttore del Santuario di Pompei, anch’egli oggi Beato— quando si
faceva visitare.
In molte lettere si vede come il Professore inculcasse questi principi nei suoi allievi: «Abbiate,
nella missione affidatavi dalla Provvidenza, vivissimo il senso del
dovere: pensate cioè che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima a
cui dovete sapervi avvicinare, e che dovete avvicinare a Dio; pensate
che vi incombe l’obbligo di amore allo studio, perché solo così potete
adempiere il grande mandato di soccorrere l’infelicità. Scienza e fede!»
(16 luglio 1926).
«Ricordatevi
che non solo del corpo vi dovete preoccupare, ma delle anime gementi
che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il
consiglio e ricorrendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni
da inviare al farmacista» (1923).
A
un paziente raccomandava: «Vi prego di ricordarvi dei giorni vostri
d’infanzia e dei sentimenti che vi tramandarono i vostri cari, la vostra
mamma; tornate all’osservanza e vi giuro che, oltre il vostro spirito,
ne sarà nutrita la vostra carne: guarirete con l’anima e con il corpo,
perché avrete preso la prima medicina, l’infinito amore» (23 giugno
1923).
Ma
bisogna insistere nel ricordare che Moscati non faceva il guaritore o
il santone: faceva il medico e lo faceva alla perfezione, ma era
parimenti convinto d’avere davanti soprattutto un’anima immortale.
Mai
tuttavia deviava nello spiritualistico, trascurando il corpo. A una
suora che lo voleva trascinare a una sacra funzione durante l’orario di
lavoro rispose brusco: «Suora, Iddio si serve lavorando».
E a una pia signora, che rifiutava di curarsi perché diceva che le
bastava
pregare, ribatté: «Per la vostra anima vale più fare una sola iniezione
per la vostra malattia che dire molte preghiere».
La
personalità integrale di Moscati emerse, sotto gli occhi di tutti i
suoi colleghi, anche di quelli dei suoi nemici, in un episodio che restò
celebre negli annali di Napoli.
Era
il febbraio 1927 (due mesi prima della morte di Moscati, che nulla
faceva allora prevedere). Veniva a Napoli, per parlare a un congresso
medico, il celebre professor Leonardo Bianchi: era stato titolare della cattedra di Psichiatria e Neurochirurgia, prima a Palermo, poi a Napoli. Era stato Ministro della Pubblica Istruzione, poi Ministro della Difesa e Vicepresidente della Camera dei Deputati. A 75 anni aveva pubblicato il libro La meccanica del cervello. Inoltre era uno tra i più noti massoni che appena qualche anno prima aveva tenuto una pubblica conferenza contro Gesù Cristo.
Il settantanovenne professore parlò davanti a un’aula gremita di medici e docenti ed ecco che, mentre scrosciano gli applausi, egli si accascia al suolo.
C’erano presenti medici specialisti per ogni urgenza e tutti si
accostarono, compreso Moscati. Ma ascoltiamo direttamente la
testimonianza del santo: «Non
volevo andare a quella conferenza essendomi da lungo tempo allontanato
dall’ambiente dell’Università, ma quel giorno una forza sovrumana,
alla quale non seppi resistere, mi ci spinse... Si avverò quello che
dice la parabola del Vangelo che i chiamati all’undicesima ora avranno
la stessa ricompensa di quelli chiamati alla prima ora del giorno.
Sento ancora ora l’impressione di quello sguardo (del morente) che
cercava me tra tanti docenti convenuti... E Leonardo Bianchi sapeva
bene i miei sentimenti religiosi, conoscendomi fin da quando io ero
studente. Gli corsi vicino, gli suggerii parole di pentimento e di
fiducia, mentre egli mi stringeva la mano, non potendo parlare...».
Proviamo
a immaginare, in quel tempio della Massoneria che era allora
l’Università di Napoli, non solo l’inaudito ingresso di un prete con i
Sacramenti (fatto chiamare da Moscati), ma la scena del vecchio massone morente fra le braccia del più santo dei medici mentre costui recita a voce chiara l’atto di dolore e il Credo.
Questi era Moscati.
E
potremmo riportare la testimonianza scossa, sconvolta quasi, di altri
notissimi esponenti della cultura e della medicina che, frequentando
questo insolito tipo di cristiano (da notare che con
Moscati si poteva parlare di filosofia, di arte, di letteratura, di
musica, di teologia, di urbanistica, e sempre con profitto e godimento
intellettuale), divennero pensosi sulla propria identità e sul proprio destino.
Un
altro celebre medico napoletano, il Castellino, non «credente», disse
di lui: «Era una delle creature più care, che amava vivere nel colloquio
continuo con Cristo che forza i sepolcri e vince la morte».
Un
altro medico disse: «Fu la più perfetta incarnazione che io abbia mai
conosciuto della carità di cui parla san Paolo nella lettera ai
Corinzi».
Tutti sanno quale sia stata la posizione di Benedetto Croce.
Ebbene, il filosofo abitava in un’alta mansarda da cui tutte le
mattine vedeva passare Moscati che frettolosamente si recava in
ospedale. Spesso i due si incontravano e chiacchieravano assieme. A
volte non c’era tempo e allora il filosofo dal balcone lo chiamava da
buon napoletano:
«Don Peppino non te capisco, perché corri tanto? Dove vai? Che speri di raggiungere...? Tutto viene a tempo».
E poi, rientrando, alla sua domestica diceva: «Fossero tutti così i cattolici.., tutti come don Peppino!».
Chi era dunque quest’uomo che a se stesso, nelle pagine del suo diario diceva: «Ama
la verità, mostrati quale sei e senza infingimenti e senza paure e
senza riguardi. E se la verità ti costa persecuzione, e tu accettala; e
se (ti costa) il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi
sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio».
Giungiamo
così a quel problema fondamentale da cui siamo partiti senza volerlo
risolvere in anticipo: che cos’è la laicità cristiana? Quest’uomo, che
Noi
non possiamo qui affrontare il problema dal punto di vista di una
completa riflessione teologica, richiamando i necessari principi e
conducendo le opportune analisi.
Possiamo dare per ammesso che c’è in Moscati anche qualcosa di unico e irripetibile:
non è copiando i suoi modi di fare (atteggiamenti, indicazioni,
espressioni) che lo si può imitare, ma comprendendo anzitutto il lavoro
che la grazia di Dio ha operato in lui: un lavoro di «unificazione», di
«integrazione» a cui la creatura si rende totalmente disponibile:
questo lavoro bisogna anzitutto desiderare per sé, ad esso bisogna
anzitutto disporsi con grande umiltà e ascesi.
Viviamo
in un’epoca in cui noi cristiani siamo diventati abilissimi a
«distinguere»: natura e soprannatura, chiesa e mondo, fede e ragione,
rivelazione e scienza, evangelizzazione e promozione umana, unità e
pluralismo, ecc. Ma queste attente distinzioni dovrebbero essere
applicate da un soggetto, da un «io» così totalmente appartenente a
Cristo, così organicamente innestato nella Chiesa che le distinzioni
gli servono ad esprimere solo i diversi metodi secondo cui fluisce e si
dilata e si applica una stessa e identica carità. Invece troppo spesso
le distinzioni servono come alibi intellettualistico per nascondere e
giustificare una identità incompiuta o timida o faticosamente
aggiustata, se non addirittura disgregata.
E
così ogni tanto Dio decide di offrirci delle «forme» integrali, dei
modelli cristiani talmente integri che si vorrebbe quasi accusarli di
integrismo, se non fosse che l’unità della «forma cristiana» irraggia
da ogni parte. Qui possiamo solo delineare per punti successivi la
«forma compiuta» a cui Moscati si lasciò condurre ed educare.
1. Essere chiamati all’esistenza ed essere chiamati a una missione dovrebbero
per il cristiano diventare una sola cosa, come lo fu per Gesù, il cui
«io» consisteva totalmente nel «lasciarsi mandare» dal Padre, nel fare
totalmente la sua volontà. Spesso invece queste due «vocazioni»
(all’esistenza e alla missione) restano due mondi separati che cercano
faticosamente di restare almeno allacciati tra loro.
Moscati
ebbe la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come
totalmente espressiva del senso e dello scopo della sua esistenza, ed
essa ricoprì tutto il suo essere ed esistere.
Ancora
diciassettenne, alla madre che gli prospettava le difficoltà e i
pericoli della professione medica rispondeva: «Che dite, mamma, io sono
pronto a coricarmi nel letto stesso del malato!».
E
la madre che lo conosceva bene aveva commentato, come per un presagio:
«Per alleviare le sofferenze dei malati diventerà lui stesso un
martire!».
Le
biografie di Moscati testimoniano concordemente che egli considerò la
professione medica come una vocazione e una missione che dovevano
«esaurirlo» anche fisicamente, perché soltanto così il progetto di Dio
avrebbe potuto compiersi. E perciò egli
accettava semplicemente e totalmente quell’essere avvolto e tirato da
ogni parte che a volte, con un umorismo non privo di sofferenza, egli
chiamava il «mastodontico groviglio di guai in cui mi trovo da mille
parti ingrovigliato».
Confessava
ad un amico: «Mi riduco a notte inoltrata per scrivervi. Vi assicuro
che non ho nemmeno il tempo di mettermi le mani nei capelli. Ospedale,
laboratori, lezioni ufficiali, lezione mia di semeiotica e di clinica,
baraonda di malati gravi, impressionati, mi tengono tutto per loro e mi
inibiscono per altre cose» (gennaio 1919).
E,
per quanto disponibile fosse il professore, doveva lottare
quotidianamente con un carattere nervoso, pronto a scattare e a
diventare insofferente verso ogni contrattempo: ma sempre pronto a
riprendersi, a lasciarsi «limare», «rifinire», quasi, dalle circostanze
sempre più catturanti. Morì, improvvisamente, nella piena maturità,
appena terminata una visita, senza nemmeno poter avere per sé un attimo
di conforto e di aiuto.
È
un giudizio su tutte quelle situazioni in cui i cristiani si
ritraggono dal fare la volontà di Dio, dal lasciarsi «usare come servi
inutili» proprio perché percepiscono
la loro missione nella Chiesa e nel mondo come qualcosa di «informe»,
di aggiunto quasi alla loro esistenza, alla loro persona, e perciò
restano ultimamente incerti, nostalgici di altre possibilità, dubbiosi
della validità del loro stato (vergini che vorrebbero essere coniugati,
coniugati che vorrebbero essere «diversamente» sposati o addirittura
vergini, chierici che vorrebbero essere laici e laici che vorrebbero
essere chierici, professionisti che sognano una situazione a loro più
confacente e dove potersi finalmente esprimere, e molte altre cose
simili): un giudizio su tutte quelle esistenze che non si versano
totalmente sulla missione loro affidata, e su tutte le pretese
«missioni» scelte come fuga dai propri disagi esistenziali.
2. Esistenza
e missione del cristiano sono anzitutto affezione a Cristo, calda
adesione personale a Lui come persona vivente (non come idea le o come
«causa a cui rifarsi»). Soprattutto di ciò la condizione verginale è
segno bruciante nel mondo.
Ogni
amore per il prossimo deve essere riflesso di questa prima «prossimità»
offerta da e a Cristo Signore. Per un cristiano l’amore dei prossimo o
ha una radice «verginale» (nasce tutto dalla appartenenza personale a
Cristo) o è solo un tentativo psicologico di rintracciare Cristo,
affaticando moralisticamente la propria affettività.
Moscati,
a questa nostra epoca (per la quale la carità sociale sembra essere
addirittura un’obiezione a Cristo), viene a ricordare che la carità
cristiana ha un’origine e una identità esplicita: è la carità di Cristo,
che deve struggere il cuore dei suo discepolo, come diceva san Paolo.
Nessuno,
guardando la vita e le opere di Moscati, poteva dubitare che egli
amasse personalmente e dichiaratamente Cristo. A chi rifiutava il
Signore Gesù, Moscati appariva come un maniaco da combattere e da
eliminare. Ma se uno «riconosceva» Cristo (anche timidamente) e ancora
lo «ricordava» (anche tra le nebbie di una fede un tempo posseduta),
allora Moscati con le sue «opere di carità» glielo raffigurava in modo
bruciante, persuasivo, convincente. E nessuno poteva sbagliarsi, nemmeno
per un attimo, pensando che si trattasse di una fortunata naturale
bontà dei professore.
L’impegno ascetico-caritativo era per Moscati il presupposto, la
carta
di credito, il «titolo» che gli dava occasione di annuncio integrale a
favore dei suo Signore Gesù: si staccava dal denaro per poter parlare
di tutto senza ambiguità, si faceva tutto a tutti per poter indicare
Colui che era «tutto», lasciava che gli «consumassero questa vita» per
avere il diritto di parlare della vita eterna. Arrivava fino a chiedere
al malato che invece dei soldi gli desse il regalo di accostarsi alla
Eucaristia, di tornare alla fede perduta.
«Gli
chiesi una volta perché avesse rinunciato all’onorario offertogli da
un ammalato facoltoso, che versava in gravissime condizioni e che era un
gran peccatore, ed egli mi rispose: ‘Lo convertirò’ ».
Moscati
ha insegnato con una evidenza abbagliante che — contrariamente a
quanto oggi si pensa e si insegna — l’amore dei prossimo è vero solo
quando è tutto teso, da ogni direzione, a un esplicito amore di Cristo
(Dio-fatto-prossimo).
L’impegno
professionale-ascetico-caritativo o è per un laico il modo con cui egli
«fonda» il suo annuncio integrale a favore di Cristo (dare tutto
Cristo a tutti gli uomini), oppure perfino le sue opere buone verranno
risucchiate via, consumate da coloro che ne approfittano per lasciarsi
ancor più cullare nella loro spirituale pigrizia e indifferenza.
Se
chi opera per Cristo pensa di poterlo fare anonimamente, tanto più
sarà lecito restare anonimo a chi riceve il frutto di questa stessa
opera. Da ciò può derivare l’attuale paradosso di una Chiesa e di un
laicato che sviluppano un grande potenziale di impegno professionale e
caritativo e del fatto che tuttavia la fede viene progressivamente meno proprio là dove i cristiani sembrano più vivere e operare.
Secondo
Moscati: bisogna compiere «opere e opere» di carità per potersi
permettere di essere integri neii’annuncio di Cristo, e bisogna essere
integri nell’annuncio di Cristo perché le opere di carità non anneghino
in una vaga filantropia di cui si serve anzitutto con scaltrezza proprio
chi vuoi rassodare se stesso e il mondo nei rifiuto di Cristo.
3. Quanto più la carità è veramente cristiana (nei senso in cui
l’abbiamo
descritta) tanto più essa tende a unificare dall’interno la coscienza
dell’uomo, manifestando così una forza onniavvolgente: fa emergere
legami impensati, rivela possibilità quasi sconosciute, produce energie
a tutto campo. I diversi «piani» della realtà non vengono
integristicamente negati, ma ha luogo una inattesa fluidità, per cui il
naturale si versa «naturalmente» nel soprannaturale e il soprannaturale
«soprannaturalmente» si apre al naturale.
Nella vita di Moscati tale fluidità si manifesta in varie direzioni, alle quali possiamo solo accennare.
a.
Dal punto di vista dell’arte medica possiamo dire che le sue capacità
professionali vennero incredibilmente potenziate. E ciò in due sensi. Da
un lato sembrava che la fede (il modo cristiano di
osservare il malato) acuisse le sue già notevolissime doti
diagnostiche: dava persino l’impressione di «indovinare», di «vedere»
le malattie del corpo, di percepirle da segni impercettibili che
stupivano i colleghi. Dall’altro lato tale intuizione penetrante
scendeva a una tale profondità che egli diagnosticava spesso anchè le
malattie dell’anima.
Egli
stesso confessò: «È tale l’intuito chiaro che mi concede il Signore
che non mi sembra possibile trattenerlo, e non rare volte vedo anche le
deformità delle loro anime».
Accadevano
episodi che a volte spaventavano lui stesso. Un giorno tornò a casa
turbato e raccontò alla sorella: «Sai cosa mi è accaduto oggi? E venuta
da me una signora con la figlia. La signorina poteva avere
ventiquattro o venticinque anni. Guardandola le ho detto:
‘Signorina,
lei non ha ancora fatto la prima Comunione!’. Da alcune lacrime mi sono
accorto che la cosa era vera. Poi ho fissato la signora e le ho detto:
“Signora, lei convive con un sacerdote apostata”. Sai, era tutto vero e
non riesco a spiegarmi come ho fatto!».
La sorella dovette consolarlo e dirgli che si trattava certamente di un caso, come a volte ne accadono.
Sia per quanto riguarda la malattia fisica che per quanto riguarda la malattia spirituale, egli sembra dunque dotato di un di più (analogo a quello che il Vangelo racconta di Cristo!). Ma occorre intenderci bene: in Moscati questo di più non
appariva tanto come qualcosa di miracolistico, di meccanicamente
aggiunto alle normali capacità mediche: appariva invece come una sorta
di miracolo di unificazione. Per spiegare: era come se la sua persona,
dopo aver percorso tutto il campo della scienza (il cui studio era
continuo e indefesso) e dopo aver percorso anche tutto il campo della
maturazione spirituale che gli era possibile, si trovasse collocata nel
punto di innesto di questo duplice itinerario: là dove il suo sguardo
poteva ugualmente spaziare in ambedue le direzioni, e farne una
sintesi.
A
un certo punto della vita, in Moscati, scienza e fede mostrarono non
solo la loro non-contrarietà ma la loro identica struttura di carità: il
loro essere aspetti diversi di quell’unica intelligenza di amore che
ci ha assieme creati e redenti.
Quando
si fu ben collocato nella «carità», Moscati si trovò ad essere sia un
grande medico anche in forza della sua fede, sia un grande credente
anche in forza della sua scienza.
Dal
punto di vista del paziente l’unificazione operata dalla carità fece
percepire a Moscati il binomio malattia-guarigione come relativo a
tutto l’essere umano, anticipando tutte le più recenti acquisizioni
della scienza. Ha detto Giovanni PaoloII nel discorso di canonizzazione
che egli fu «anticipatore e protagonista di quella umanizzazione della
medicina avvertita oggi come condizione necessaria per una rinnovata
attenzione e assistenza a chi soffre».
Certo,
negli ultimi decenni, molti medici sono diventati sempre più perplessi
sulle possibilità di curare un uomo come se fosse solo «una malattia» o
un organo malfunzionante. Ci si è anche dedicati alla cura della psiche,
sviluppandola purtroppo solo in forme parallele e per tentativi, «per
scuole», che spesso trattano anche la psiche come una parte malata (da
raggiungere spesso a costo di incredibili manipolazioni e amputazioni).
La
«carità» di Moscati gli fece intravedere tale unità del paziente e nel
paziente e lo rese duro nel rivendicare la dignità del malato.
Quando
si parlò della clinicizzazione degli ospedali, voluta da Gentile, egli
scrisse una lettera all’amico Benedetto Croce per protestare contro «i
decreti che dispongono della carne umana come di mercanzia» e da cui gli
«ammalati sono sbattuti come titoli in borsa».
Scrive in una recensione: «Il
dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma
come il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre
con l’ardenza dell’amore, la carità».
Eppure
anche qui bisogna fare un passo ulteriore: Moscati non era preoccupato
solo dell’unità somatico-spirituale dell’uomo, e di una visione
integralmente umana della malattia, ma ciò gli sembrava il minimo
indispensabile per un ulteriore affondo sull’integrum dell’uomo.
La cura dell’unità psico-fisica doveva spingersi fino alle ultime
profondità spirituali, fino all’ultima sofferenza dell’anima, fino
all’ultima esigenza di felicità, con un deciso orientamento
ultraterreno.
Dal
punto di vista della medicina il problema malattia-guarigione doveva
essere considerato percependo sia l’unità del «male» (fino al
male-peccato), sia l’unità della salute (fino alla salute-salvezza), sia
l’unità tra chi opera nei diversi campi (unità, non semplice
distribuzione dei ruoli), sia infine l’unità delle strutture in cui il
bisogno di guarigione viene accolto e trattato.
Moscati
non solo percepì la sua professione in stretta connessione con quella
del sacerdote, ma, nella situazione del suo tempo, tentò di coprire
misericordiosamente e intelligentemente tutto lo spazio che conduceva
fino al ministro del perdono di Dio e della vita soprannaturale. Ciò
che egli fece da solo, in una situazione e in un tempo in cui
l’istituzione si disinteressava totalmente della profonda identità dei
pazienti, può oggi essere riproposto a livello di progetto.
Alla
lettera piena di gratitudine di un discepolo medico che lo lasciava
per un primo incarico, Moscati rispondeva lasciandogli in eredità
questo ricordo: «Non
la scienza ma la carità ha trasformato il mondo... Ho sempre vivo nel
cuore il rammarico di sapervi lontano e solo mi conforta che abbiate
conservato in voi qualcosa di me; non perché io valga nulla, ma per quel
contenuto spirituale che mi sforzo di trattenere e di diffondere
intorno. Io vi tengo presente, siatene sicuro. Vi bacio in Cristo!».
Forse adesso capiamo perché il cardinale Roncalli, quando lesse la vita di Moscati, lo definì Lumen ecclesiae, luce
della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, da lui voluto, avrebbe detto poi
che il compito della Chiesa è «riflettere nel mondo quella Luce delle
Genti (Lumen Gentium) che è Cristo».
Ebbene, questo
Mentre,
il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di
Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente,
un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’androne di casa
Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».
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