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mercoledì 22 febbraio 2012

scienza - articoli3


IL CATTOLICESIMO ITALIANO
FAVORI' LA NASCITA DELL'ANATOMIA
***


 

2 novembre, 2011
Continuiamo nella presentazione dell’ultimo saggio di Francesco Agnoli intitolato “Case di Dio, ospedali degli uomini. Perché, come e dove sono nati gli ospedali” (Fede e Cultura 2011), di cui abbiamo già parlato in Ultimissima 25/10/11.

Diamo spazio alle parole con cui lo commenta Mario Gargantini, giornalista, divulgatore scientifico e direttore della rivista Emmeciquadro (
www.emmeciquadro.it). Egli ritiene interessante il saggio storico perché dimostra come accanto alla Caritas incidesse, nella cultura italiana del Medioevo, la concezione di Dio come Logos. Citando le parole di Agnoli, informa che «la storia dell’anatomia insegna che l’autorità dei greci, se da un lato offrì uno spunto importante di partenza, dall’altro fu il freno più forte ad ulteriori sviluppi». I primi esperimenti di anatomia sono nati in Grecia, laddove si è colto, filosoficamente, l’ordine, l’armonia e la razionalità del cosmo, ma nonostante i contributi del pensiero greco -continua Gargantini-, l’anatomia moderna nascerà molto più avanti, nell’Europa cristiana, o, ancora meglio, nel cuore della cristianità: l’Italia.

Nell’Italia cattolica «sorgono le prime università ed è sempre lì che la dissezione dei cadaveri avviene già nel XIII secolo per conoscere meglio gli organi e l’architettura del corpo umano». Avviene a Bologna, città pontificia in cui sorge una delle tante università collegate piuttosto strettamente alla Chiesa. Il trattato più importante di anatomia medievale è l’Anathomia Mundini di Mondino dei Liuzzi dove l’autore si rifà alla scuola di Galeno, sottolinea la superiorità dell’uomo rispetto agli altri animali, e dimostra una conoscenza diretta della dissezione. Ad esso segue l’opera di Andrea Vesalius, De humani corporis fabbrica, pubblicata nel 1543, in cui anch’egli cita Galeno e i suoi oltre duecento errori, che dichiara di aver potuto rilevare grazie all’ampia possibilità goduta di sezionare cadaveri; possibilità che egli ha trovato in Italia, non nel resto d’Europa. Molti scienziati “galenisti osservanti” infatti «non vedevano alcuna connessione tra l’indagine anatomica e la capacità di curare i malati».

La libertà della ricerca scientifica in Italia, al contrario di quanto avvenne in Europa, trova risposta nella storia delle religioni: «Per molte religioni, infatti, la sepoltura del cadavere, ancora oggi, deve avvenire necessariamente e secondo un preciso rituale: altrimenti il morto non riesce a raggiungere l’aldilà, vaga nell’aldiqua, reclamando la sepoltura e persino perseguitando i vivi. Queste convinzioni, scomparse o quantomeno molto affievolite in Europa con l’avvento del cristianesimo, sono ancora vive, sotto svariate forme, in gran parte dell’Asia e dell’Africa odierne. Ebbene credenze analoghe a questa, molto diffuse nell’Europa pagana, non caratterizzano invece, se non per un qualche inevitabile e marginale permanere delle antiche superstizioni, l’Europa cristiana in cui l’anatomia nasce». La Chiesa, scrive Agnoli, «non poteva essere contraria: se lo fosse stata, con l’autorità morale che esercitava nel medioevo, in particolare sulle università, non avrebbe mai permesso la nascita dell’anatomia. Né essa sarebbe sorta proprio in Italia, cuore del papato e della Cristianità, e non, ad esempio, in Germania o in Inghilterra, dove l’insegnamento dell’anatomia sui cadaveri umani rimase eccezionale almeno fino alla metà del Cinquecento».

L’autore ricorda poi diverse posizioni dei Pontefici a favore dell’anatomia, come quella di papa Sisto IV nella De cadaverum sectione (1472) o quella di Benedetto XIV che invitava l’artista Ercole Lelli, in alleanza con l’Università di Bologna, a produrre cere anatomiche a scopo didattico per supplire alla carenza di cadaveri necessari per lo studio. La lettura di molti dei primi trattati di anatomia, infine, ci dice che gli stessi anatomisti erano rispettosi credenti che mettevano in luce “il valore filosofico e quasi teologico dell’anatomia” e ammiravano nel corpo “il tempio di Dio”. Un esempio è il beato Niccolò Stenone – ottimo anatomista, che sarebbe divenuto il padre della geologia -, che prima di iniziare la dissezione del cadavere di una donna giustiziata, scriveva sul suo diario: «Questo è il vero scopo dell’anatomia, che attraverso l’ingegnosa struttura del corpo l’osservatore sia tratto ad afferrare la dignità dell’anima e di conseguenza attraverso i miracoli del corpo e dell’anima impari a conoscere e amare il Creatore».

da:Chiesa Cattolica


Postato da: giacabi a 19:59 | link | commenti
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giovedì, 20 ottobre 2011

Riflessioni su un granello di polvere
di Carl Sagan
Dal libro "Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space"
Traduzione in italiano di
Bruno Moretti Turri IK2WQA

Immagini della Terra riprese da circa 6 miliardi di km di distanza (oltre l'orbita di Nettuno) dal Voyager 1 nel 1990. Photo NASA courtesy.

Immagini della Terra riprese da circa 6 miliardi di km di distanza
(oltre l'orbita di Nettuno) dal Voyager 1 nel 1990.
Photo NASA courtesy.



Carl Sagan - Riflessioni su un granello di polvere from Bruno Moretti on Vimeo.
"Riflessioni su un granello di polvere" letto da Bruno Moretti Turri
nella conferenza "Filosofia e scienza: da Galileo a SETI"


Noi riuscimmo a fare questa fotografia, e, se tu la guardi, tu vedi un puntino. Quello è qui. Quella è la nostra casa. Quello è noi. Su di esso, tutti quelli di cui sei venuto a sapere, ogni essere umano che ci sia mai stato, tutti hanno vissuto là. L’insieme di tutte le nostre gioie e sofferenze, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, ogni cacciatore e allevatore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e contadino, ogni giovane coppia innamorata, ogni bambino pieno di speranza, ogni madre e padre, ogni inventore ed esploratore, ogni moralista, ogni politico corrotto, ogni divo, ogni duce supremo, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie vissero là, su un granello di polvere sospeso in un raggio di Sole.

La Terra è un palcoscenico molto piccolo in un’enorme arena cosmica. Pensa ai fiumi di sangue versati da tutti i generali ed imperatori affinchè in gloria e trionfo loro potessero divenire i padroni momentanei di una frazione di un puntino. Pensa alle crudeltà senza fine degli abitanti di un angolo del puntino sugli abitanti di un altro angolo appena distinguibile del puntino. Così  frequenti i loro malintesi, così ansiosi sono di uccidersi l'un l'altro, così fervente il loro odio. La nostra presunzione, la nostra immaginata auto-importanza, la nostra illusione di avere una posizione privilegiata nell'Universo, sono sfidate da questo puntino di luce pallida.

Il nostro pianeta è una macchiolina solitaria avvolta nel grande buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c'è suggerimento d’aiuto che verrà da altrove a salvare noi da noi stessi. Si dice che l'astronomia insegna la modestia e io aggiungo che è un’esperienza che costruisce il carattere. Io penso che non c’è forse nessuna migliore dimostrazione della follia della presunzione umana che questa immagine da lontano del nostro piccolo mondo. Secondo me, essa sottolinea la nostra responsabilità di avere più gentilezza e compassione l'un con l'altro e di preservare e curare teneramente quel pallido puntino blu, l'unica casa che noi abbiamo mai conosciuto.

Postato da: giacabi a 17:03 | link | commenti
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La ricetta per fare un uomo
***
La ricetta per fare un uomo di media corporatura è la seguente:
15 kg di carbonio,
4
kg di azoto,
1
kg di calcio
mezzo
kg
di fosforo,
200 g di sodio,
150 g di potassio,
150 g di cloro,

qualche grammo di una quindicina di altri elementi (tra i quali alcuni esotici, come il selenio, il litio e il vanadio in dosi infinitesimali)
e quattro secchi d’acqua da 10 litri. I 40 litri d’acqua a loro volta si possono ottenere combinando 5 Kg di idrogeno e 35 Kg di ossigeno.
Costo commerciale del tutto: poche migliaia di lire. […] I 5 Kg di idrogeno e il pizzico di litio vengono dal big-bang, risalgono a 15 miliardi di anni fa. Gli altri ingredienti sono più recenti, per produrli l’universo ha dovuto evolversi per vari miliardi di anni, miliardi di stelle hanno dovuto nascere, splendere, morire, rinascere nel seno di nebulose generate da collassi stellari. I 15 Kg di carbonio sono stati costruiti dentro una stella nella fase terminale della sua vita, unendo 3 atomi di elio. I 35 Kg di ossigeno derivano dalla fusione di carbonio ed elio nel nòcciolo di stelle caldissime. Il ferro è cenere di stelle esaurite. Anche calcio, fosforo, zolfo, cloro, sodio e azoto vengono da caldissime fucine stellari.
Le tracce di elementi ancora più pesanti ci arrivano dalle supernovae.
Insomma, siamo nati dalle stelle.

Piero Bianucci, Nati dalle stelle

Postato da: giacabi a 17:02 | link | commenti
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domenica, 09 ottobre 2011

Padre Eugenio Barsanti,
l'inventore del motore a scoppio,
nato in Versilia a Pietrasanta.

     

I Figli della Versilia. Colui che ha cambiato il mondo con la sua invenzione: il motore a scoppio.


***
Padre Eugenio Barsanti

Padre Eugenio Barsanti, ha ancora un posto nella storia?
Oppure l'inventore del motore a scoppio, colui che in bene e in male ci ha cambiato la vita, un personaggio per gli addetti ailavori, scippato della memoria dopo che gli scipparono il brevetto?
Si sono ricordati di lui, con un convegno e una mostra, i Rotary della Versilia, la sua terra natale.
E ci voleva, una iniziativa del genere, perché anche il grosso pubblico sapesse come e perché nacque quel primo motore, il capostipite di una rivoluzione non ancora conclusa.
Erano gli anni in cui si impazziva per l'energia a vapore. Che aveva cambiato i trasporti, la navigazione, I'industria. Ma un religioso, anzi un padre scolopio, uomo fragile e mite, dedito alle lettere e ancor più alla scienza, era convinto che quella forza legata al vapor acqueo, difficilmente si poteva domare.
E per questo, occorreva un sistema che utilizzando lo scoppio di una miscela di aria e di gas si facesse guidare, con minor spreco e con maggiore forza. Quell'uomo mite era Eugenio Barsanti. Nato nel 1821 a Pietrasanta, entrato nella congregazione degli Scolopi a 17 anni, poco più che ventenne già insegnava fisica e matematica in un collegio a Volterra. Fu qui, che si appassionò alle rierche di Volta e in particolare a quell'esperimento detto "della pistola" con il quale, utilizzando una 'miscela gassosa detonante si produceva forza motrice.
Era pura teoria. Ma trasferito a Firenze, prima del collegio di San Giovannino, in Via Martelli, poi allo Ximeniano, Barsanti ebbe i mezzi per trasformare l'idea in un motore vero e proprio. L'occasione gli offrì l'incontro con un ingegnere idraulico, il Matteucci, che lavorava alla bonifica del lago di Bientina.
I due depositarono il loro primo brevetto nel 1854, ma il motore costruito a Firenze nelle Officine Bernini, nacque soltanto il 19 Settembre 1860. Fu presentato all'Accademia dei Georgofili e quindi all'Esposizione che quell'anno si tenne nel capoluogo toscano.
Era un motore da 20 cavalli. Il quotidiano "La Nazione" ne dette notizia scrivendo che questa macchina non aveva bisogno di entrare in pressione come quella a vapore, bastava accendere e partire. Così per un motore marino o industriale. Non solo nelle macchine a vapore per produrre la forza di un cavallo per un'ora il costo di 12 centesimi, in quella di Barsanti e Matteucci solo di due.
Non cè dubbio. La scoperta era enorrne.
Consapevoli, Barsanti e Matteucci fondarono una società per lo sfruttamento del loro motore, il primo al mondo. Ma solo l'Italia lo riconobbe tale. In Europa, si preferì invece utilizzare un simile brevetto depositato nel '59 dal franco-belga Lenoir.
Inutili le proteste di Barsanti. La Francia, il Belgio, erano i paesi già fortemente industrializzati. Cosa poteva contro di loro un prete, italiano per giunta? E tuttavia una società mineraria di Liegi, nel 1864, decise di usare il motore di Barsanti. Lui si precipitò in Belgio. Furono fatti degli esperimenti e andarono a buon fine.
La produzione stava per partire quando il padre Scolopio si ammalò di tifo e in pochi giorni morì, scippato del suo brevetto come accadde in quegli anni anche ad aItri geni sfortunati come Meucci e Pacinotti.
Con la morte di Barsanti si sciolse anche la società che ne portava il nome. E se non fosse stato per gli scritti di padre Giovenazzi del Cardinale Maffi, e dell'ingegner Giuseppe Colombo, forse neppure a Pietrasanta ci ricorderemmo oggi di Barsanti. Il quale, oltre ad avere intuizioni geniali e la caparbietà di realizzarle, ebbe anche altri meriti. Capì per primo, che il motore a scoppio ci avrebbe cambiato anche l'anima.
E in una lettera inviata al Papa Pio IX, una sorta di testamento spirituale, quasi arrivò a scusarsi se a causa della scoperta l'uomo si fosse ancor più distratto dalla vita contemplativa abbracciando invece un'idea materialistica.


Tratto dal quotidiano "
La Nazione" del 20 Giugno 2000. Articolo di Maurizio Naldini.



PIERO BARGELLINI

(Piero Bargellini, Bellariva, Firenze, Vallecchi 1951, pp. 171-74)
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Il Padre Eugenio Barsanti nacque a Pietrasanta, 30 Km da Lucca, nel 1821 e morì a Liegi nel 1864, frate e prete scolopio, inventore e ingegnere
 
Uno straniero a Pietrasanta
                Dalla mattina era giunto a Pietrasanta un forestiero, alto, con occhi celesti e baffi biondi spioventi. Era l'anno 1869 e a quell'epoca pochi stranieri, si fermavano nella città, perciò il nuovo arrivato dette subito nell'occhio ai pochi abitanti.
                Per piacere, chiese in cattivo italiano il forestiero, la casa del Padre Barsanti ?
                La casa del padre Barsanti ?
                I pietrasantini si interrogarono fra loro.
                Barsanti? Barsanti ?
                Il nome non era sconosciuto, ma lì per lì nessuno dei presenti sapeva indicare la casa che lo straniero cercava.
                Ma il padre Brasanti è morto, osservò uno.
                E' morto mi pare, a Firenze.
                A Liegi, corresse lo straniero.
                E allora perché lo cercate qui ? Chiese quello che era stato corretto .
                Il forestiero fissò gli occhi malinconici sull'uomo che gli faceva quella domanda, poi con voce velata di tristezza, rispose :
                Non cerco lui, cerco la casa dov'egli è nato.
                Finalmente la casa fu trovata. Lo straniero vi sostò dinanzi in silenzio e attorno a lui si raccolse un gruppo di curiosi.
                Sempre spinti dalla curiosità, alcuni uomini lo seguirono a distanza, quando sul mezzogiorno, egli rientrò nella locanda e furono essi a rispondergli allorché, dopo mangiato, egli chiese a quale ora sarebbe ripartita la postale per Firenze.
                Stasera alle cinque, gli dissero. Avete interessi in città ?
                No, rispose gentilmente lo straniero. La ragione che mi ha condotto qui, mi spinge ora là.
                La risposta quasi misteriosa, aumentò la curiosità dei pietrasantini.
                Venite da lontano ?
                Da Liegi, nel Belgio.
                Cercate qualche altra casa ?
                No; ora cerco una tomba.
                Una tomba ?
                La tomba del Padre Barsanti.
                I presenti stupirono che il padre Barsanti fosse considerato dallo straniero come un santo, ma l'uomo spiegò :
                Ho conosciuto il padre Barsanti a Liegi, e non posso dimenticare la sua opera meravigliosa.
                Uno degli ascoltatori chiese per tutti:
                Scusate la nostra ignoranza. Noi siamo cavatori di pietra. Sappiamo che il padre Barsanti era uno studioso, ma non conosciamo quale sia la sua opera che chiamate meravigliosa. Volete raccontarci qualcosa di lui e come l'avete conosciuto ?
                Volentieri, rispose lo straniero, se non vi dispiace il mio accento barbaro.
 
Il racconto dello straniero
                Conoscete di nome le grandi officine di Liegi ? Conoscete la famosa fabbrica di Seraing ? Io sono operaio in quella fabbrica, ove si costruiscono le più potenti macchine a vapore.
                Qualche anno fa, e precisamente nel 1864, io lavoravo attorno a uno di questi colossi, quando un giorno fui chiamato dal direttore. Mi disse di mettermi all'ordine di un italiano per montare una nuova macchina.
                La macchina era composta di pochi pezzi
                "E' tutta qui" ? Chiesi prima di mettermi a montarla ?
                "Tutta qui", rispose calmo il padre Brasanti .
                Ci mettemmo al lavoro. Il padre Barsanti sempre dolce, sempre gentile, spesso ci spiegava il segreto del suo nuovo motore. Ci faceva bellissime lezioni di fisica e di meccanica. Seppi che era un maestro: un frate scolopio, cioè un frate che dava tutta la sua attività alla scuola.
Egli aveva inventato il motore a scoppio, un motore cioè, che adoperava il gas da illuminazione come forza motrice, invece del vapore d'acqua delle nostre caldaie. Aveva utilizzato la forza derivante dall'esplosione di una miscela d'aria e di gas. Il motore suo era molto più piccolo, più leggiero e più rapido del motore a vapore.
                Montavamo il motore a scoppio in un reparto dell'officina e il nostro lavoro destava una grande curiosità. Ma tutti erano increduli.
                Il giorno in cui la macchina fu messa in moto, nell'officina Seraing fu grande meraviglia. Il piccolo motore con rapidi colpi, metteva in azione una grande ruota. Tutti gli ingegneri dello stabilimento erano sorpresi, sbigottiti. Gli operai non credevano ai propri occhi .
                Il padre Barsanti più curvo del solito, più pallido del solito, sorrideva calmo. In tutta Liegi non si parlava che dell'inventore italiano e il direttore dell'officina dovette pregare il padre Barsanti di interrompere le prove, perché lo stabilimento era invaso da visitatori.
                Il padre Brasanti era venuto a Liegi per perfezionare il suo motore e farne costruire vari tipi nel nostro famoso stabilimento. Sarebbe poi tornato in patria con la sua invenzione. Ma dopo pochi giorni non lo vidi più nell'officina. Seppi che era ammalato. Andai a trovarlo. era agli estremi.
                "Addio amico mio" mi disse. Grazie del tuo lavoro. Iddio non vuole che torni in patria col mio motore. Forse peccherei di superbia e di vanagloria. Oh, la mia patria, la mia bella patria ! Non la rivedrò più. Forse nessuno si ricorderà di me. I miei studi saranno ignorati.
 
Il motore a scoppio
                Lo straniero tacque un momento. I suoi ascoltatori erano commossi come lui. Uno di essi prese la parola : Grazie delle vostre parole , disse allo straniero . E scusate la nostra ignoranza. Noi siamo cavatori e agricoltori. Non abbiamo conoscenza di fabbriche e di motori, ma voi ci avete fatto capire che il nostro concittadino, con la sua scoperta ha operato una grande novità.
                Chiamatela pure una grande rivoluzione, interruppe lo straniero. Questo nuovo motore che all'estero è già usato, porterà enormi progressi. Il motore a scoppio potrà essere applicato a piccole barche e a veicoli leggieri. I nostri figli e i nostri nipoti vedranno le conseguenze di questa invenzione. Allora il nome del padre Barsanti sarà famoso in tutto il mondo e l'Italia potrà aggiungere un nome in più all'elenco dei suoi inventori.
                E con queste profetiche parole, il belga che scese in Italia nel 1869 per vedere la casa di padre Barsanti, salutò il suo uditorio, avviandosi verso la diligenza già pronta per partire.
http://www.lettereadioealluomo.com/Eugenio_Barsanti_Felice_Matteucci_francobollo.jpg

Postato da: giacabi a 21:32 | link | commenti
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venerdì, 16 settembre 2011

Duhem, Pierre Mauric

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(Parigi, 1861 - Cabrespine (Francia), 1916)

 

Pierre Maurice Duhem nacque a Parigi nel 1861, da una famiglia fiamminga profondamente cattolica. Dopo gli studi superiori, frequentò la Scuola Normale Superiore, dove stabilì una solida amicizia con il futuro matematico Hadamard, che ne apprezzò sempre proprio le capacità matematiche. Ben presto Duhem iniziò gli studi sulla termodinamica e le sue applicazioni; nel 1884 formulò l'idea di potenziale termodinamico, affrontando vari problemi di chimica-fisica sulle condizioni di equilibrio delle fasi fluide, la dissociazione, le proprietà delle soluzioni e confutando alcune teorie di Berthelot. Su questi temi presentò la tesi per il dottorato in scienze fisiche, tesi che fu, però respinta, probabilmente per l'influenza di Berthelot sulla comunità scientifica. Convinto della correttezza del suo lavoro, Duhem decise comunque di pubblicare il suo lavoro nel 1886 con il titolo Le potentiel thermodynamique . Il successo scientifico fu accompagnato, però, da un inasprimento dei suoi rapporti con Berthelot, che ne ostacolò sempre carriera universitaria. Conseguito il dottorato con una nuova tesi sul magnetismo, Duhem iniziò la sua attività universitaria, insegnando discipline di tutti i rami della fisica, prima a Lille, poi a Rennes e infine a Bordeaux; più volte chiese, senza ottenerlo, il trasferimento alla più prestigiosa sede di Parigi. Dal 1890 divenne membro de l'Académie des Sciences. Nel 1890 sposò Adèle Chayet, che morì appena due anni dopo; dal matrimonio nacque una figlia Helène, a cui Duhem si dedicò con esemplare amore paterno. Nel 1916 Duhem morì improvvisamente, durante un periodo di riposo; la figlia Helène si fece carico di completare, non senza difficoltà, la pubblicazione delle sue opere.
Duhem fu indubbiamente uno dei più grandi fisici teorici dell'inizio del XX secolo; mente essenzialmente sistematica, pose, insieme a Gibbs e Helmotz, le basi della moderna termodinamica chimica, inquadrata come scienza essenzialmente assiomatica-deduttiva, fondata su due postulati (primo e secondo principio termodinamica) da cui vengono derivate, con ragionamenti rigorosi, conclusioni inattaccabili. Tra i suoi contributi più importanti si ricordano l'equazione di Gibbs-Duhem, la dimostrazione della regola delle fasi e gli studi pioneristici sulla termodinamica dei processi irreversibili.
Fu la stessa attività di fisico teorico a spingerlo a occuparsi di filosofia della scienza, nel complesso periodo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, caratterizzato dalla crisi del meccanicismo ottocentesco, dal trionfo del positivismo e da un diffuso atteggiamento antimetafisico. In questo ambito, la sua opera più importante è La théorie physique, son object et sa structure (1906): in essa afferma che “una teoria fisica non è una spiegazione: è un sistema di proposizioni matematiche il cui scopo è di rappresentare nel modo più semplice, completo ed esatto possibile un intero gruppo di leggi sperimentali”; tuttavia “il fine ... [della] teoria fisica è di trasformarsi in una classificazione naturale , di stabilire fra le diverse leggi sperimentali un coordinamento logico, immagine e riflesso dell'ordine vero secondo il quale sono organizzate le realtà che ci sfuggono”. Nel pensiero di Duhem le scienze positive sono metodologicamente autonome dalla metafisica, ma non esauriscono la razionalità umana; “il fisico trova in se stesso un desidero irresistibile di impossessarsi di una teoria fisica che rappresenti tutte le leggi sperimentali tramite un sistema dotato di una perfetta unità logica. [...] Le tendenze che indirizzano lo sviluppo della teoria fisica non sono del tutto comprensibili al fisico se egli vuole essere soltanto un fisico [....] Se, al contrario, egli cede alla natura della mente umana che respinge le esigenze estreme del positivismo, vorrà conoscere la ragione di ciò che lo sospinge; varcherà la muraglia di fronte a cui si arrestano impotenti i procedimenti della fisica e farà un'affermazione non giustificata da questi procedimenti, farà della metafisica [...] Egli affermerà che sotto i dati sensibili, i soli accessibili ai suoi procedimenti di studio, si nascondono realtà la cui essenza è inafferrabile da questi stessi procedimenti [....] Egli afferma che la teoria fisica, attraverso i suoi successivi perfezionamenti, tende tuttavia a disporle leggi sperimentali secondo un ordine sempre più simile a quello trascendente con il quale si classificano le realtà, che con ciò la teoria fisica si incammina gradualmente verso la sua forma limite che è quella di una classificazione naturale. Il fisico è dunque portato ...alla seguente affermazione metafisica: la forma ideale della teoria fisica è una classificazione naturale delle leggi sperimentali”
Lo stesso studio della filosofia della scienza lo indusse a approfondire lo studio della storia della scienza, convinto che il filosofo della scienza debba supportare le sue affermazioni con i dati storici. In questo ambito egli intraprese una indagine storica di proporzioni eccezionali, che portò alla stesura della sua opera monumentale Le Système du monde , pensato in 10 volumi, ma lasciato incompiuto all'ottavo per la morte dell'autore, nel 1916. L 'opera, pubblicata in varie fasi dal 1913 al 1954, smentisce uno dei cliché più consolidati, che vede nel Medioevo un periodo oscurantista e nel Cristianesimo un ostacolo alla ricerca scientifica. In effetti con la pubblicazione nel 1913 del volume Études sur Léonard de Vinci, ceux qu'il a lus et ceux qui l'ont lu , Duhem fornisce la prova documentale delle radici medievali della scienza di Newton, e in particolare della “teoria dell'impetus” – un'anticipazione del principio di inerzia – sviluppata da Buridano verso la metà del XIV secolo. Da qui la convinzione del ruolo del cristianesimo nella nascita della scienza moderna ruolo che spiegherà con vivacità in una lettera: “Dalla nascita la scienza ellenica è tutta impregnata di una teologia, ma di una teologia pagana. La teologia insegna che i cieli e gli astri sono dei; [...] essa maledice l'empio che osa attribuire un movimento alla terra [...] Ora, questi ostacoli, chi li ha spezzati? Il Cristianesimo. Chi, in primo luogo, ha profittato della libertà così conquistata per lanciarsi alla scoperta di una scienza nuova? La Scolastica. Chi dunque nel mezzo del XIV secolo ha osato dichiarare che i cieli non erano per nulla mossi da intelligenze divine o angeliche, ma da un impulso indistruttibile ricevuto da Dio al momento della creazione, nello stesso modo con cui si muove una palla lanciata dal giocatore? Un maestro delle arti di Parigi: Giovanni Buridano.....”.
Di carattere non facile, con idee politiche in controcorrente rispetto all'ambiente universitario francese, spesso in aspro contrasto con i superiori o i colleghi, manifestò sempre con fermezza la sua fede cattolica, testimoniandola anche con una concreta sollecitudine per i più bisognosi: significativo fu il caso di una ragazza tubercolotica, incontrata casualmente, che Duhem si preoccupò di far curare. Spesso, la sua visione della scienza e della storia della scienza fu criticata, presentandola come una visione confessionale. Anche in questo caso, la risposta di Duhem fu chiara e appassionata: nell'articolo La fisica di un credente egli afferma, infatti, “Ecco dunque una fisica teorica che non è una teoria del credente e neppure del non credente, ma è puramente e semplicemente una teoria del fisico”, ma anche “Certo, io credo pienamente nelle verità rivelateci da Dio e trasmessaci dalla sua Chiesa, non ho mai nascosto la mia fede e Colui nel quale la ripongo mi salvaguarderà, lo spero nel profondo del cuore, dall'arrossirne. In questo senso è lecito affermare che la fisica da me professata è quella di un credente”. Maria Cristina Annesini
da
:www.disf.org

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Pierre Duhem, ovvero il pregiudizio ribaltato

***
Alessandro Giostra
mercoledì 7 settembre 2011
Che la cosiddetta rivoluzione scientifica rinascimentale abbia avuto dei precursori nel periodo medievale è un concetto che si sta ormai affermando tra gli storici della scienza; ma c’è chi ne aveva parlato e l’aveva documentato più di un secolo fa. Ci riferiamo a Pierre Duhem, lo scienziato francese noto soprattutto come filosofo e storico della scienza, del quale quest'anno ricorre il 150° anniversario della nascita. E chissà che la ricorrenza non serva a ristabilire i meriti di questo studioso dalla carriera contrastata e a far meglio risaltare il valore dei suoi contributi.
Fin dai suoi primi anni di studi, Duhem dimostrò tutto il suo talento nelle discipline scientifiche e anche in quelle umanistiche: un connubio di conoscenze che poi sarà fondamentale per la sua attività di storico. Dopo la laurea in scienze matematiche, cercò di ottenere il dottorato in fisica alla Sorbona. Nella sua tesi, però, sostenne idee contrastanti con quelle dello scienziato Berthelot e questa fu la probabile causa che gli impedì di ottenere la cattedra. Nel 1887 riuscì comunque ad ottenere un incarico all'università di Lille.
Iniziò così per lui un periodo fecondo di studi e pubblicazioni, ma anche pieno di sventure personali. Alla morte del padre e della moglie, seguirono il trasferimento a Rennes e infine quello definitivo a Bordeaux, dopo aver fallito in un ulteriore tentativo di ottenere un incarico a Parigi, sempre per l'opposizione di Berthelot. In quel periodo, nonostante le molte vicende sfavorevoli, la figura di Duhem si impose nella comunità scientifica. Si occupò di filosofia della scienza e, nei primi anni del '900, iniziò gli studi di storia della scienza, il settore di indagine che lo ha maggiormente reso famoso. In seguito a queste ricerche aveva cominciato nel 1913 a pubblicare Le Système du Monde: Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic: un progetto editoriale imponente, che alla fine comprenderà un totale di dieci volumi e verrà portato a termine nel 1959 dalla figlia Hèlene, dal momento che Duhem morì nel settembre 1916.
Come scienziato Duhem ha dato importanti contributi alla fisica e alla chimica. Come filosofo della scienza la sua posizione era vicina a quella “energetista” di Wilhelm Ostwald e alla corrente “convenzionalista” che aveva avuto tra i massimi interpreti il matematico Henri Poincarè. Come già accennato, tuttavia, Duhem è ricordato come il maggior storico della scienza di ogni tempo e come il fondatore di questa disciplina. Le Système du Monde copre un arco molto ampio di storia del pensiero scientifico e concerne la trattazione dettagliata delle tematiche dell’antica cosmologia greca, della patristica, del pensiero islamico e della scolastica, fino agli inizi della rivoluzione scientifica.
Duhem considera la cosmologia nel suo significato più ampio e riesce, pur con la difficoltà di dover organizzare una gran mole di nozioni, a porre per primo le basi di una storia della scienza medievale come un settore del tutto nuovo per la ricerca. Nonostante qualche sua tesi sia stata rivista da autori successivi, le argomentazioni da lui espresse hanno aperto orizzonti originali e hanno stabilito un risultato che prima sembrava impensabile, ovvero la dimostrazione di una sostanziale continuità tra scienza medievale e scienza moderna. L'opera di Galileo, il padre della scienza moderna, sarebbe così l'esito di concezioni e metodologie di ricerca sviluppate nel Medio Evo. Duhem non ha negato le innovazioni apportate durante la rivoluzione scientifica, ma ha visto nelle sue istanze una sostanziale continuità con il percorso iniziato con filosofi naturali del XIV secolo, come Buridano e Oresme.
Le sue scoperte rappresentano così un'efficace risposta anche alla critica della storiografia marxista e a quella del materialismo scientista dei tempi attuali. Tutti questi orientamenti di pensiero, anche se ognuno in modo specifico, hanno sostenuto l’esistenza di una differenza incolmabile tra la razionalità della scienza e la teologia cristiana, nonché il ruolo negativo di quest’ultima per l'emergere della prima. L’opera di Duhem ristabilisce invece una verità storica.
Qualche idea del pensatore francese ha in effetti suscitato perplessità da parte di autori successivi. Ritengo, tuttavia, che tra le varie posizioni possano essere stabiliti dei punti in comune. Si può infatti affermare che la scienza medievale rappresenti l'anello di congiunzione tra quella aristotelica e quella moderna; e questo passaggio è avvenuto in un contesto cristiano, sia per ciò che riguarda i contenuti sia per ciò che concerne le istituzioni del sapere.
A Pierre Duhem vanno riconosciuti due risultati strettamente connessi: l'aver scoperto questo collegamento, considerato inesistente prima della pubblicazione dei suoi studi, e, di conseguenza, l’aver seriamente confutato il pregiudizio di una cultura cristiana vista come fattore ostile, come ostacolo insormontabile, al progresso scientifico. Anzi, l'importanza di Duhem va riconosciuta per aver ribaltato tale pregiudizio, largamente diffuso nella sua epoca e purtroppo ancora oggi. Esso si fonda su una superficiale divulgazione e sull'erronea interpretazione di alcuni episodi storici, come la condanna di Galileo o la reazione di qualche ambiente teologico anglicano alle teorie di Darwin. Il fatto che diversi religiosi siano stati anche scienziati famosi e che i protagonisti della rivoluzione scientifica abbiano posto il Dio della rivelazione cristiana al centro del loro sistema di pensiero, sono già indizi sufficienti per sfatare tale preconcetto.
A queste considerazioni storiche, si devono poi sommare i contenuti specialistici delle ricerche di Duhem, un autore che dovrebbe essere ben più conosciuto e che purtroppo viene ignorato anche da molti studiosi. Egli non ha mai negato la peculiarità della scienza, consistente nell'analisi quantitativa della realtà, e, di conseguenza, il fatto che la scienza stessa abbia una sua indipendenza rispetto ai contenuti della fede. Duhem ha però dimostrato che l’esperienza cristiana ha contribuito in maniera decisiva a creare il contesto culturale idoneo per la nascita delle scienze esatte. 
da: Il Sussidiario,

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domenica, 31 luglio 2011


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Se hai saggezza, comprendi che sei creato per la gloria di Dio e per la tua eterna salvezza. Questo è il tuo fine, questo il centro della tua anima, questo il tesoro del tuo cuore. Perciò stima vero bene per te ciò che ti conduce al tuo fine, vero male ciò che te lo fa mancare.”
San Roberto Bellarmino,

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giovedì, 16 giugno 2011

La rivista “Nature” e la nascita della scienza dal cristianesimo
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Sul sito web di Nature, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo, è apparso un articolo che recensisce l’ultimo lavoro di James Hannam, dottore in Storia e Filosofia della Scienza presso l’Università di Cambridge, intitolato “La genesi della scienza: come il cristianesimo medioevale ha lanciato la rivoluzione scientifica. Il libro è stato selezionato per l’assegnazione del Royal Society Science Book Prize.
Pochi sono i temi rischiano di essere fraintesi come il rapporto tra fede e ragione, introduce il ricercatore. «Lo scontro in corso tra l’evoluzione e il creazionismo oscura il fatto che il cristianesimo ha effettivamente avuto un ruolo molto più positivo nella storia della scienza di quanto comunemente si creda. Infatti, molti degli esempi sul fatto che la religione ostacoli il progresso scientifico si sono rivelati falsi». Il docente di Cambridge spiega che, per esempio, «la Chiesa non ha mai insegnato che la Terra fosse piatta e, nel Medioevo, nessuno la pensava così, comunque. I Pontefici non hanno cercato di vietare nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno, sono lieto di dirlo, è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora regolarmente tirate fuori come esempio di intransigenza clericale nei confronti del progresso scientifico».
Hannam cita ovviamente Galileo, che fu processato per essersi voluto intromettere in fatti religiosi senza avere alcuna prova, come la Chiesa cattolica chiedeva, ma solo con una semplice ipotesi. Tuttavia questo caso, «mette a malapena in ombra tutto il sostegno che la Chiesa ha dato alla ricerca scientifica nel corso dei secoli». La Chiesa ha sostenuto lo studio delle scienze anche dal punto di vista finanziario, ad esempio. Fino alla Rivoluzione francese, infatti, «la Chiesa cattolica è stata lo sponsor principale della ricerca scientifica. La chiesa anche insistito sul fatto che la scienza e la matematica avrebbero dovuto essere obbligatoria nei programmi universitari. Nel XVII secolo, l’ordine dei Gesuiti era diventata la principale organizzazione scientifica in Europa, con la pubblicazione di migliaia di documenti e la diffusione di nuove scoperte in tutto il mondo. Le cattedrali sono state progettate anche come osservatori astronomici per la determinazione sempre più precisa del calendario». Senza poi dimenticare che la sincera e devota fede di tutti i grandi scienziati della storia, i quali hanno fondato le discipline scientifiche come la geologia e la genetica.
Il sostegno alla ricerca scientifica è stato giustificato dal fatto che «i cristiani hanno sempre creduto che Dio ha creato l’universo e ordinato le leggi della natura. Studiare il mondo naturale significava ammirare l’opera di Dio. Questo “dovere religioso” ha ispirato la scienza quando c’erano pochi altri motivi per preoccuparsi di essa. È stata la fede che ha portato Copernico a respingere l’universo tolemaico, a spingere Keplero a scoprire la costituzione del sistema solare, e che convinse Maxwell dell’elettromagnetismo». Il Medioevo, l’epoca più dominata dalla fede cristiana, è stato un periodo di innovazione e progresso. L’autore cita l’invenzione dell’orologio meccanico, dei bicchieri, della stampa e la contabilità. Nel campo della fisica, gli studiosi hanno trovato oggi le teorie medievali sul moto accelerato, la rotazione della terra e l’inerzia.

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martedì, 12 aprile 2011

L’origine della scienza è nel cristianesimo.

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Le due grandi condizioni perché sia possibile l’esistenza della scienza sono, innanzitutto, che nell’universo regni l’ordine e non il caos e che le leggi regolatrici di quest’ordine siano intelliggibili da parte dell’intelletto umano. Ma dove e quando nascono queste convinzioni sull’universo?
Introduzione
Melvin Calvin (1911-1997), premio Nobel per la chimica, non ha dubbi: «Nel cercare di discernere le origini della convinzione sull’ordine dell’universo, mi pare di trovarle in un concetto fondamentale scoperto duemila o tremila anni fa, ed enunciato per la prima volta nel mondo occidentale dagli antichi ebrei: ossia che l’universo è governato da un unico Dio e non è il prodotto dei capricci di molti dèi, ciascuno intento a governare il proprio settore in base alle proprie leggi. Questa visione monoteistica sembra essere il fondamento storico della scienza moderna»1. Come contribuiremo a dimostrare, Calvin aveva pienamente ragione: la visione teistica, e in particolare cristiana, è alla base della nascita del mondo scientifico. D’altraparte il più grande elogio della scienza lo si trova nella Bibbia stessa, dove gli uo­mini sono esortati ad accettare «la mia istruzione e non l’argento, la scienza anziché l’oro fino, perché la scienza vale più delle perle e nessu­na cosa preziosa l’eguaglia» (Prv 8, 10-11), e si dice che «suo principio è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore» (Sap 6, 17). Abbiamo conferme anche dai grandi storici della scienza, ma perfino dai più incalliti oppositori del cristianesimo, come il chimico dell’Università di Oxford, Peter Atkins (1940), che riconosce: «la scienza, il sistema di credenze fondato saldamente su conoscenze riproducibili e pubblicamente condivise, è emersa dalla religione»2. Addirittura nel 1967 il movimento ecologista ricevette un grande impulso da un articolo intitolato “Radici storiche della nostra crisi ecologica”, redatto da Lynn White Jr. (1907-1987), storico medievalista, dove si accusava apertamente il cristianesimo di essersi imposto sul paganesimo, considerato molto più rispettoso della natura (divinizzandola), proprio tramite l’invenzione della scienza e delle tecniche moderne: «nella misura in cui la scienza e la tecnologia -sviluppatesi in una matrice cristiana occidentale- accordarono all’umanità dei poteri che oggi sfuggono dal suo controllo, non si potrebbe non riconoscere l’enorme colpa di una tale cristianità riguardo alla crisi ecologica»3.


La scienza non nasce nel mondo greco/aristotelico.
Chi identifica le radici della scienza moderna nell’Antica Grecia, ignora il fatto che affinché essa si sviluppasse, il pensiero doveva liberarsi dal concetto politeista e dal metodo aristotelico (dal IV secolo a.C.), fino ad allora onnipresente, consistente nel dedurre, partendo da principi fissi, come dovesse essere l’universo. Le concezioni greche delle divinità non erano adatte, nemmeno Zeus poteva essere il creatore di un universo razionale: anch’egli era soggetto agli inesorabili meccanismi ciclici naturali di ogni cosa. Aristotele stesso condannò come «impensabile» l’idea «che l’universo iniziò ad esistere da un certo punto nel tempo»4.

Come scrisse lo storico della scienza Bernard Cohen (1914-2003), «gli ellenistici erano interessati a spiegare il mondo naturale solo attraverso principi generali astratti»5. Le prime innovazioni tecniche, avvenute in epoca greco-romana, nel mondo islamico e in Cina, per non parlare di quelle ottenute nelle ere preistoriche, non costituirono, infatti, una scienza ma possono essere meglio descritte come sapere, saggezza, arti, mestieri, tecniche, tecnologie, ingegneria, apprendimento o semplicemente conoscenza. Anche senza l’utilizzo dei telescopi, gli antichi eccellevano nelle osservazioni astronomiche, ma esse rimasero dei meri fatti fino a quando non furono collegate a teorie verificabili. Le conquiste intellettuali dei greci o dei filosofi orientali, erano frutto di un empirismo a-teorico, e le loro teorizzazioni non erano empiriche. Scrive lo storico della scienza, Harold Dorn: «Il sapere greco esclusivamente ateorico fu una barriera per l’ascesa della vera scienza: non permise il progresso del mondo greco, di quello romano, nè del mondo islamico, dove si preservarono e studiarono con attenzione gli insegnamenti greci»6. Ad esempio, Aristotele insegnava che la velocità alla quale un oggetto cade a terra è proporzionale al suo peso, e quindi che una pietra che pesa il doppio di un’altra cadrà due volte più velocemente7. Bastava però che si fosse recato ad una delle vicine scogliere per constatare la falsità della sua proposizione. Mentre Socrate considerava l’empirismo e le osservazioni astronomiche una «perdita di tempo» e Platone consigliasse ai suoi studenti di «lasciar stare i cieli stellati»8, Democrito suggerì che tutta la materia fosse composta da atomi. Il suo suggerimento -casualmente corretto- era però una pura speculazione, non basata sull’osservazione e su implicazioni empiriche. Dal punto di vista del metodo scientifico, l’ipotesi di Democrito ha lo stesso valore di quella del suo contemporaneo Empedocle, il quale riteneva la materia fosse composta da fuoco, aria, acqua e terra. Un secolo dopo Aristotele affermò invece che invece doveva essere costituita da caldo, freddo, aridità, umidità e quintessenza. L’universo, per i greci, era eterno, increato ma vincolato in infiniti cicli di progresso e decadenza. E’ vero che alcuni, come Aristotele, presupponevano un «dio» di infinita portata a guardia dell’universo, ma costui era percepito come un’essenza, molto simile al Tao, che conferiva un’autorità spirituale ma non certo un creatore. Platone immaginava un «dio» molto inferiore a quello di Aristotele, denominato Demiurgo9. L’idealismo platonico, fondato su ipotesi a priori, credeva in un universo ciclico ed eterno, una sfera simmetrica circondata da corpi celesti con traiettoria di moto perfetto. Comunque, tutte queste speculazioni dei maggiori filosofi greci, come quelle di Crisippo e Parmenide, furono a lungo di notevole intralcio alla scoperta scientifica.
Un altro motivo che rendeva impossibile la nascita del metodo scientifico è che i greci insistettero nel tramutare gli oggetti inanimati in esseri viventi. Quindi se anche gli oggetti minerali sono animati, si sbaglia a tentare di spiegare i fenomeni naturali. Così sempre secondo Aristotele, i corpi celesti si muovevano circolarmente per la loro affezione nei confronti di quell’azione e gli oggetti cadevano a terra «per il loro innato amore verso il centro della terra»10. Il sapere greco, insomma, ristagnò nella propria logica interna. A parte alcuni ulteriori sviluppi della geometria (che in realtà manca di sostanza in quanto è in grado di descrivere solo alcuni aspetti della realtà, non di spiegarne qualunque parte), poco accadde dopo Platone ed Aristotele. L’impero romano assorbì anche la cultura greca, che però non fece progredire intellettualmente nessuno in modo significativo11. Nulla accadde nemmeno in Oriente, a Bisanzio, dove il sapere greco continuò a diffondersi.
Ovviamente con questo non si vuole certo minimizzare il grande valore della cultura greca e il suo grande impatto sulla teologia cristiana e sulla vita intellettuale dell’Europa. Non a caso gli scolastici e gli intellettuali cristiani del Medioevo (Sant’Agostino e San Tommaso in primis) si dissero «debitori» di Aristotele e degli altri filosofi dell’antichità. Ma, usando le parole dello storico delle religioni Rodney Stark (1934): «Lo sviluppo della scienza non risultò come il prolungamento del sapere classico. Fu la naturale conseguenza della dottrina cristiana: la natura esiste perché è stata creata da Dio e per amarLo ed onorarLo, è necessario apprezzare a fondo le meraviglie del suo operato»12.


La scienza non nasce in medioriente o nel mondo islamico.
Lo storico della scienza di Harvard,
Sir Alfred North Whitehead (1861-1947), osservava come le immagini di divinità rintracciabili nelle altre religioni, in particolar modo in Asia, erano e sono troppo impersonali o irrazionali per poter incoraggiare la scienza, «mancava quella fiducia che proviene dall’idea della razionalità intellegibile di un essere personale»13. Molti studiosi confermano che non sia solo una casualità il fatto che il metodo scientifico non sia nato nella cultura islamica. Allah non viene presentato come un creatore giusto, ma è concepito come un Dio estremamente attivo che si impone nel mondo come ritiene opportuno. Questa concezione ha originato un nucleo teologico islamico che condanna come blasfemia ogni tentativo di formulare leggi naturali, perché esse negano la libertà di azione di Allah. La cultura greca è rimasta molto viva per molti secoli all’interno del sapere islamico e gli stessi islamici consideravano il sapere greco, in particolare l’opera di Aristotele, come un testo sacro a cui credere, piuttosto che da studiare14. Perfino uno dei più illustri filosofi islamici, Averroè, divenne assieme ai suoi seguaci, un aristotelico intransigente e dottrinario, proclamando l’infallibilità delle teorie greche. Addirittura, se un’osservazione fosse risultata incoerente con un delle visioni aristoteliche, allora essa doveva essere sicuramente scorretta o illusoria (insomma, proprio il contrario del metodo scientifico). Comunque, a parte scoperte in campi molto specifici, nei quali non occorreva una base teoretica generale (come alcuni aspetti dell’astronomia e della medicina), non vi è da segnalare alcun progresso scientifico degno di nota.


La scienza non nasce in oriente o nel mondo buddhista.
La altre religioni che non derivano dall’ebraismo (come l’islam), non presuppongono affatto una creazione: nella loro prospettiva, l’universo è eterno e, per quanto possa seguire dei cicli, ciò avviene senza principio o senza scopo; inoltre, la cosa più importante, non essendo mai stato creato non ha un creatore. Coloro che partono da questi presupposti religiosi, raggiungono la saggezza attraverso un percorso di meditazioni e intuizioni mistiche, senza alcuna occasione d’esercitare l’uso della ragione. Il filosofo
Bertrand Russel (1872-1970) trovava piuttosto sconcertante la mancanza di scienza in Cina15, ma per gli intellettuali cinesi l’universo semplicemente è ed è sempre stato, senza alcun motivo di supporre leggi razionali. Di conseguenza, nel corso dei millenni, si è andati in cerca di «illuminazioni» e non di spiegazioni. Il biochimico e storico della scienza britannico Joseph Needham (1900-1995),, che dedicò la maggior parte della sua carriera alla storia della tecnologica cinese, riferisce che i cinesi nel XVIII secolo rigettarono l’idea di un universo governato da leggi semplici, indagabili dagli esseri umani (convinzione portata a loro dai missionari gesuiti occidentali). La loro cultura, secondo Needham, semplicemente non era ricettiva verso tali concetti. Concluse che l’ostacolo alla scienza in Cina era causato dalla loro religione non cristiana: «Non si era mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana. Era loro opinione che l’ordine in natura non fosse stabilito da un essere individuale razionale»16.


La scienza nasce solo nell’Europa cristiana.
Il concetto di libera creazione da parte di Dio portato dalla visione ebraico-cristiana fu fondamentale: per scoprire come sia in realtà l’universo o come effettivamente funzioni, non vi è alternativa dall’andare a vedere direttamente ciò che Dio aveva in mente. Il cammino dalla creazione (e dalle creature) al Creatore risultò la strada più ovvia per arrivare alla comprensione e alla conoscenza di Dio. In particolare la venuta di Cristo fu decisiva poiché, come affermò il fisico britannico
Peter E. Hodgson (1928-2008), «l’incarnazione di Cristo ha fornito ulteriori convinzioni per la scienza: ha spezzato l’idea che il tempo fosse ciclico, ha nobilitato la materia pensando che fosse adatta a formare il corpo e il sangue di Cristo; ha superato il panteismo, dichiarando che la materia è creata e non generata». Tutte convinzioni «necessarie per lo sviluppo della scienza»17. Una citazione di Albert Einstein (1879-1955), sintetizza perfettamente la nuova mentalità che portò il cristianesimo rispetto al modo di approcciarsi alla realtà e all’universo: «La scienza contrariamente ad un’opinione diffusa, non elimina Dio. La fisica deve addirittura perseguitare finalità teologiche, poichè deve proporsi non solo di sapere com’è la natura, ma anche di sapere perchè la natura è così e non in un’altra maniera, con l’intento di arrivare a capire se Dio avesse davanti a sè altre scelte quando creò il mondo»18. Oppure: «Voglio sapere come Dio creò questo mondo. Voglio conoscere i suoi pensieri; in quanto al resto, sono solo dettagli»19. Dopo Cristo, non si potè più dedurre -come pensavano i greci- il funzionamento dell’universo semplicemente ragionando a partire da principi filosofici a priori. Per conoscere Dio occorreva studiarne la creazione. La magia e l’astrologia, in quanto fondate sull’animismo e sul politeismo panteista, cominciarono ad essere considerate pure superstizioni irrazionali e deprecabili. Solo nell’Europa cristiana l’alchimia si evolvette in chimica e l’astrologia condusse all’astronomia. Nacque la concezione di un universo come “creatura” da studiare ed indagare, non un’insieme di divinità, o un “animale divino”. Il filosofo Nikolaj Berdiaev (1874-1948) scrisse che: «Il cristianesimo meccanizzò la natura per restituire all’uomo la libertà», cioè per liberarlo dalla sottomissione del volere degli astri, delle divinità irrazionali nascoste in ogni angolo della natura. Dalla visione teista e cristiana vennero creati quindi i presupposti per il pensiero scientifico.
Le conquiste straordinarie che si ottennero dal 1500 d.C. in poi, non vennero certo prodotte da un’esplosione di pensiero laico. Ma, come sottolinea, uno dei più importanti storici delle religioni viventi, Rodney Stark (1934) «esse furono il culmine di molti secoli di progressi sistematici portati avanti dagli scolastici medievali e sorretti da un’invenzione del XII secolo prettamente cristiana: l’università. Scienza e religione non erano solo compatibili, ma addirittura inseparabili, e la scienza nacque grazie a studiosi cristiani profondamente religiosi»20. Le prime Università nacquero nel Medioevo cristiano (che ancora viene definito da alcuni “periodo buio”), in Italia e in Europa e non nel resto del mondo. E’ in questi luoghi, spesso di origine ecclesiastica e sotto il protettorato pontificio, che studiarono Copernico, Harvey, Galilei e i padri della medicina moderna.
L’eminente storico della scienza, Sir Alfred North Whitehead (1861-1947), osservando che l’Europa medioevale nel 1500 sapeva meno di Archimede nel III secolo a.C., ma che nel 1700 Newton arrivò a scrivere il suo capolavoro, Principia Mathematica, si domandò come poteva essere avvenuta una tale esplosione di conoscenze in tempi così brevi. Si rispose dicendo: «La scienza moderna deve provenire dall’insistenza medievale sulla razionalità di Dio [...]. La mia spiegazione è che la fede nella possibilità della scienza, generata anteriormente allo sviluppo della moderna teoria scientifica, sia un derivato inconscio della teologia medievale [...]. Le ricerche sulla natura non potevano sfociare che nella giustificazione della fede nella razionalità»21. Lo scrittore C.S. Lewis (1898-1963) sintentizzò così l’opinione di Whitehead: «Gli uomini divennero scientifici perché si aspettavano una legge in natura, e si aspettavano una legge in natura perché credevano in un legislatore».
Fu questa convinzione teistica a indurre Francesco Bacone (1561-1626), considerato da molti il padre della scienza moderna, a insegnare che Dio ci ha fornito due libri (il libro della natura e la Bibbia) e che per essere istruiti in maniera davvero adeguata bisogna applicare l’intelletto allo studio di entrambi. E come lui ovviamente la pensavano i primi scienziati e i più eminenti uomini di scienza: Galilei, Keplero, Pascal, Boyle, Newton, Faraday, Babbage, Mendel, Pasteur, Kelvin, Maxwell ecc.. tutti teisti, e in gran parte cristiani. La loro fede era spesso la principale ispirazione. Ad esempio, la forza trainante alla base dell’intelletto indagatore di Galileo Galilei (1564-1642), era la sua profonda convinzione che il Creatore «che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire»22. Mentre per Giovanni Keplero (1571-1630), «lo scopo principale di ogni indagine sul mondo esterno dovrebbe essere quello di scoprire l’ordine razionale che vi è stato imposto da Dio e che egli ci ha rivelato con il linguaggio della matematica»23. Nel XVI secolo, Cartesio (1596-1650), giustificò la sua ricerca delle «leggi» naturali sul fatto che tali leggi dovessero esistere perché Dio era perfetto, e agiva «nel modo più costante e immutabile possibile» – tranne che nelle rare eccezioni dei miracoli24.
Lo conferma anche il biochimico e teologo Ernest Lucas: «Gli storici della scienza hanno riconosciuto sempre più spesso questo fatto. La fiducia dei primi scienziati moderni, Keplero, Bacone, Newton, di poter indagare il mondo trovandolo ordinato ed intelleggibile, scaturiva dalla fede cristiana. In secondo luogo, essi credevano di essere fatti ad immagine di Dio, e che quindi la loro mente sarebbe stata in grado -tanto per citare le famose parole di Keplero- di “pensare i pensieri di Dio dopo di Lui”, e di scoprire quell’ordine»25. Lo storico e filosofo dell’Università di Bruxelles, Lèo Moulin (1906-1996), afferma invece: «Mi sono chiesto perché l’unica civiltà tecnologica e scientifica sia la nostra. Ho cercato di trovare le ragioni, posso garantire che ci rifletto da parecchio tempo, e l’unica spiegazione che ho trovato è la presenza del terriccio, dell’humus della cristianità. Perché? Perché Dio ha creato un mondo diverso da Lui, non si integra in esso»26.


Conclusione.
Abbiamo dunque contribuito a dimostrare che nella nascita della scienza ha svolto un ruolo essenziale e di fondamentale importanza la concezione cristiana dell’unico Dio Creatore, responsabile dell’esistenza e dell’ordine dell’universo e, grazie alla Sua incarnazione, divenuto incontrabile e conoscibile dall’uomo. Ovviamente sarebbe falso dire che non ci fu, per questo, alcun antagonismo religioso verso la scienza. Ad esempio
John H. Brooke (1944), il primo docente di Scienza e Religione ad Oxford dice: «Nel passato le credenze religiose servivano da presupposto dell’impresa scientifica fintanto che sottoscrivevano tale uniformità, anche se le particolari concezioni della scienza sostenute dai suoi pionieri erano spesso ispirate da credenze teologiche e metafisiche»27. La scienza nasce «serva» della teologia: cioè per capire l’opera di Dio, occorre fornirne una spiegazione. E’ esattamente così che percepivano se stessi coloro che presero parte alle grandi conquiste del XVI e XVII secolo: come qualcuno che persegue i segreti della creazione (un “libro” che andava letto e compreso). E molto spesso si è purtroppo preteso che le scoperte scientifiche dovessero per forza confermare le scoperte teologiche.
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Note.
1 M. Calvin, “Chemical Evolution”, Oxford 1969, pag. 258
2 P. Atkins, “The limitless power of science”, Oxford University Press 1995, pag. 125
3 White, citato in Beltrão, “Ecologia umana e valori etico-religiosi”, pag. 11
4 Lindberg, “The beginning of Western Science“, University of Chicago Press 1992, pag. 54
5 Cohen, “La rivoluzione nella scienza”, Longanesi 1988
6 H. Dorn, “The Geography of science”, Hopkins University Press 1998
7 Aristotele, “Il cielo”, Rusconi Libri 1999
8 citato in S. Mason, “Storia delle scienze della natura”, Feltrinelli 1971, pag. 104
9 anche se molti studiosi dubitano che Platone intedesse il Demiurgo come un vero creatore, si veda ad esempio D. Lindberg, “The beginning of Western Science“, University of Chicago Press 1992
10 S. Jaki, “Science and Creation”, Scottisch Academic Press 1986, pag. 105
11 D. Lindberg, “The beginning of Western Science“, University of Chicago Press 1992
12 R. Stark, “La vittoria della ragione”, Lindau 2008, pag. 46
13 A.N. Whitehead, “Science and the Modern World”, Macmillan 1925,
14 C.E. Farah, “Islam: belief and observances”, Barron’s Hauppaguge 1994, pag. 199
15 si veda B. Russel, “The problem of China”, Allen & Unwin 1922, pag. 193
16 J. Needham, “Scienza e civiltà in Cina”, Einaudi 1981, pag. 704
17 citato in “Peter Hodgson, l’uomo per cui il cristianesimo ha posto le basi “necessarie per lo sviluppo della scienza”, da Il Sussidiario 10/12/08
18 citato in Holdon, “The Advancemente of Science and Its Burdens”, Cambridge University Press 1986, pag. 91
19 Einstein, “Pensieri di un uomo curioso”, Mondadori 1997
20 R. Stark, “La vittoria della ragione”, Lindau 2008
21 A.N. Whitehead, “Science and the Modern World”, Macmillan 1925, pag. 19,31
22 citato in J. Lennox, “Fede e Scienza”, Armenia 2009, pag. 23
23 citato in M. Kline, “Mathematics: the loss of certainty”, Oxford University Press 1980, pag. 31
24 Cartesio, “Oeuvres”, libro 8, cap. 61
25 R. Stannard, “La scienza e i miracoli”, Tea 2006, pag. 221-222
26 L. Moulin, durante l’incontro pubblico “L’europa dei monasteri e delle cattedrali”, Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini 27/8/87
27 J. Brooke, “Science & religion: some historical perspectives”, Cambridge University Press 1991, pag. 19

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martedì, 29 marzo 2011
 “Un uomo onesto, munito di tutte le conoscenze attuali, può solo affermare che per ora, in un certo senso, l’origine della vita appare quasi un miracolo”.

Francis Crick (L’origine della vita, cit., p. 85)


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giovedì, 25 novembre 2010

Scienza e Fede:
intervista al fisico John Polkinghorne.

pubblicata da Anti UAAR il giorno mercoledì 24 novembre 2010 alle ore 23.58
Uno dei più celebri fisici d'Europa è John Polkinghorne, conosciuto per il suo ruolo nella spiegazione dell'esistenza dei quark. Professore di Matematica all'Università di Cambridge ed ex presidente del Queens College, membro della Royal Society e vincitore del Premio Templeton. Nel 1982 lasciò però il mondo della fisica e divenne sacerdote nella chiesa di Inghilterra. Da allora ha scritto più di 30 libri sul rapporto tra fede e scienza, ed è una delle voci leader su questo argomento. Sul North Country Times è uscita una bellissima intervista (che vale la pena leggerla integralmente) realizzata da Dean Nelson, autore del libro in uscita nel 2011: "Salto quantico: come John Polkinghorne ha trovato Dio nella Scienza e nella Religione". Fra le altre cose, ha dichiarato: «Scienza e fede sono amici, entrambi sono alla ricerca della verità. La scienza chiede come le cose si verificano, ma non fa domande sul significato o lo scopo di esse. Coloro che pensano che essa dica tutto hanno un'arida visione della vita. Esistono fondamentalisti religiosi che sostengono che la Bibbia dia risposte a tutte le domande, anche quelle scientifiche. Ma gli scienziati come Richard Dawkins sono altrettanto fondamentalisti».
Polkinghorne si concentra poi sulle recenti dichiarazioni di Stephen Hawking circa l'inutilità di Dio nella creazione del cosmo: «Anche se supponiamo che abbia ragione, si continua a non rispondere alla domanda di come le cose siano cominciate o perché esse esistono. Se la sua teoria è corretta, da dove è venuto tutto? La scienza non potrà mai rendere Dio superfluo. Su molte cose la scienza ha corretto la visione religiosa, e questo è stato vantaggioso per entrambe le parti per aiutare a vedere più chiaramente. Chi ha fede dovrebbe accogliere la verità da qualunque fonte essa proviene. Non tutta la verità viene dalla scienza, ma molto si. Mi dispiace quando vedo cristiani che voltando le spalle alla scienza. Invece alcuni scienziati ritengono che la fede sia una questione di chiudere gli occhi e stringere i denti, credere a cose impossibili presentate da qualche autorità indiscutibile, un libro infallibile o una chiesa infallibili. Non è nulla di tutto questo». E' opinione comune che i fisici siano statisticamente gli scienziati più credenti. Polkinghorne ne spiega il motivo: «Se si lavora in fisica fondamentale si è colpiti dall'ordine meraviglioso del mondo. Si è colpiti da un profondo senso di fondo e di meraviglia e questo porta le persone che lavorano nel campo della fisica fondamentale a chiedersi se ci sia una sorta di mente dietro a questo. I fisici utilizzano un linguaggio che comprende la "mente di Dio" quando scrivono per il grande pubblico. Vi è anche l'intuizione che il mondo è meravigliosamente ordinato in un modo che non sembra proprio essere una felice coincidenza. I fisici credono nella realtà invisibile, senza nemmeno pensarci. Credo che l'eseprienza personale suggerisce l'esistenza di Dio, una volontà e uno scopo e una mente dietro a tutto».

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mercoledì, 24 novembre 2010

IL COMPUTER USATO BENE
intervista a ROBERTO BUSA*


di Maria Cristina Speciani e Vittorio Sacchi

Una vita lunga e feconda quella di padre Busa, il gesuita ottantottenne che è riconosciuto come il pioniere della linguistica computazionale. Usando il computer come nessuno aveva mai fatto prima, con pazienza, coraggio e ostinazione, ha approfondito il suo rapporto con l’infinito riscoprendo sul fondo «la luce di Dio che illumina ogni uomo e lo chiama». Oggi la sua avventura continua prospettando nuove analisi dei fatti e nuove metodologie di ricerca per ottenere dalla tecnologia del computer tutte le sue potenzialità e metterle al servizio dell’uomo.


Sono passati più di cinquant’anni da quando incontrò Thomas Watson, il fondatore dell’IBM, convincendolo a raccogliere la sfida dell’analisi computerizzata del linguaggio di san Tommaso. Nello sviluppo del suo lavoro ha attraversato i principali nodi della rivoluzione informatica. In particolare, come ha vissuto, a partire dal desiderio iniziale, il rapporto tra ricerca e tecnologia?

È meglio che racconti un po’ di storia. Il mio sogno, quando sono diventato gesuita era di andare in missione, invece i superiori mi hanno chiesto di fare il professore di filosofia scolastica con specializzazione in san Tommaso. Durante la guerra, dopo aver fatto il cappellano per un anno, mi hanno mandato a fare la libera docenza alla Gregoriana e poi il Ph.D. Vi racconto la storiella della recluta che, ricevuto l’ordine «avanti marsc», non si ferma in attesa del contrordine; il sergente si dimentica di lui e due giorni dopo quello da Padova ha raggiunto Chioggia e «segna il passo» davanti al mare in attesa di nuovi ordini. Io son quello: mi è stato dato l’ordine di studiare san Tommaso, son partito, mi sono rimboccato le maniche e non ho più abbandonato la filosofia. Anche se oggi troppa filosofia è una passerella di estetismi verbali e non la ricerca della Verità.
Mi venne l’idea di cercare nei testi di san Tommaso la documentazione originaria e probatoria delle affermazioni che chiamiamo filosofiche; così è nato il progetto dell’Index Thomisticus. Il linguaggio mi ha messo a contar parole e mi sono reso conto che il nostro parlare, alle sue radici, non lo conosciamo ancora. Ho usato il computer come strumento che permette di andare più in profondità mediante l’osservazione statistica e probabilistica. E mi sono accorto che le parole non hanno confini precisi: sul fondo c’era la luce di Dio che illumina ogni uomo e lo chiama.

Oggi molti pensano che con il computer si possano risolvere tutti i problemi. A suo parere, quali sono le potenzialità dell’informatica dal punto di vista didattico ed educativo?

Gli aspetti educativi dell’informatica linguistica sono legati alla possibilità di rendersi conto che c’è un «pensiero», una «espressione esteriore» e una «espressione interiore».
La mia impressione è che oggi troppa didattica è basata sulla memorizzazione: si concepisce il nucleo del pensiero umano come una banca di dati e allora l’obiettivo dell’apprendimento diventa sapere tutto.
Invece, i principi sono questi: le strutture dell’espressione scritta riflettono il fatto che c’è un pensiero originario il quale può dominare la moltitudine delle cose perché le classifica, le riunisce e le esprime con le parole. C’è un pensiero la cui caratteristica è di non reagire soltanto allo stimolo che c’è, ma anche e soprattutto agli stimoli che non ci sono ancora o non ci sono più. Per esempio: se si iscrive un bambino a scuola è perché si pensa che tra dieci anni, che non ci sono oggi, questo bambino avrà bisogno di avere un lavoro. E i nostri desideri puntano sempre su quello che non c’è, su quello che non si ha (l’uomo è l’unico animale che ha inventato le distillerie!). In questo senso, il linguaggio, soprattutto il linguaggio scritto, non è una ripetizione continua, ma la creazione di architetture sempre nuove.
L’espressione esteriore è quella che noi chiamiamo realtà virtuale: un’immagine non nel senso stretto della parola, iconico, ma immagine come segno e simbolo i quali vengono fatti sussistere in un altro soggetto che non è l’uomo che le pronuncia. Per esempio, la musica della marcia trionfale dell’Aida, creata dalla mente di Verdi, esiste per conto suo, ma sussiste oggi in un’orchestra, domani in un’altra.
C’è anche una espressione interiore: vuol dire che le frasi che si pronunciano sono costruite prima dentro di noi e poi «buttate fuori» mediante la voce. Ma come si costruisce l’espressione dentro di noi è ancora terra sconosciuta.

Può fare un esempio?

Lo spiego con questa storia. All’inizio degli anni Cinquanta, alcuni anni dopo che avevo cominciato, è nata la traduzione automatica (al MIT si pubblicava allora lo MT Mechanical Translation). Il Penta-gono aveva finanziato tutti i centri che si offrivano di lavorare sulla traduzione dal russo all’inglese e io avevo collegato il gruppo di Leon Dostert e Peter Toma di Georgetown, università dei miei confratelli di Washington DC con l’Euratom di Ispra per tradurre abstract di biochimica e biofisica russi: per questo abbiamo perforato un milione di parole in cirillico. Anche il progetto su san Tommaso, a cui lavoravo sui computer dell’Euratom, era legato a questa iniziativa. Alla metà degli anni Sessanta, a seguito del famoso rapporto ALPAC, il Pentagono improvvisamente sospese i finanziamenti proclamando l’insuccesso della traduzione automatica; tale insuccesso era dovuto non a mancanza di velocità o di memoria dei computer, ma alla mancanza di informazioni filologiche sul nostro parlare, delle quali il computer ha bisogno.
La «vecchia» filologia è basata solo sulla campionatura, sulla massa dei grandi numeri e delle parole che noi cerchiamo; questo non è sufficiente per il computer che ha bisogno di avere dati in percentuale molto approssimati e formalizzati, cioè traducibili in byte. Per far questo è necessario che sia chiaro in base a quali logiche si parla, logiche che si manifestano con la morfologia, con la sintassi e con il lessico. Dal computer, dal mostro d’accaio, dalla tecnologia usata per l’industria dell’informazione viene la richiesta che si conosca meglio in base a quali elementi e a quali logiche si parla. Se l’umanesimo è la scienza dell’espressione umana in tutte le sue manifestazioni, allora il computer esige che noi uomini abbiamo un umanesimo più spinto.

Dunque il computer chiede all’uomo di conoscere meglio se stesso. Allora quali possono essere i vantaggi nell’imparare attraverso lo strumento informatico piuttosto che con un altro supporto?

Studiare con il computer, in realtà è comunicare: dal mio osservatorio comunico dei bit di informazione agli altri. Quando si tratta di studiare occorre introdurre due elementi: raccogliere dati di fatto, il maggior numero possibile, dalla realtà, mediante l’osservazione; poi questi dati vanno sintetizzati. Questa elaborazione è il lavoro specifico del pensiero, ma per sintetizzare bisogna prima di tutto classificare.
In questo senso io ho fatto due ricerche originali, che non ho trovato in nessuna parte: la prima è sulla eterogeneità delle parole e la seconda sui segni grafici delle parole.

La ricerca sull’eterogeneità delle parole in san Tommaso durò ben otto anni, dal 1983 al 1991. Quali furono i criteri del lavoro? E quali i risultati?

Si trattava di classificare le parole secondo «tipi di semanticità», ossia secondo le diversità dei rapporti tra segno e significato. E richiese alcune migliaia di ore-uomo e molta pazienza anche solo per far emergere il criterio per distinguere le categorie delle parole. Perché i rapporti tra significante e significato sono diversissimi in relazione alla semanticità delle parole.
Porto qualche esempio.
Ci sono i nomi deittici, come per esempio i due pronomi personali «io» e «tu». Essi hanno come significante due lettere, rispettivamente i-o e t-u, ma il significato di queste parole è che sono segni della conoscenza di una presenza; non sono concetti, perché un concetto prevede una formula. Ma quando io dico «io» la presenza è diversa da quando un altro dice «io». Pensate, anche il Signore, che pure ha inventato padre Busa, non può dire di essere padre Busa. Un'altra categoria sono i nomi propri; essi sono nomi etichetta e indicano un oggetto preciso; non esprimono che cosa sia, ma anch’essi sono la conoscenza di una singolarità. Per esempio, sentendo qualcuno che chiama Cicci si sa che c’è un Cicci ma non si sa se sia un gatto, una bambina o un ragazzo. Poi vengono i nomi di oggetti (un tavolo, un cavallo) che gli antichi chiamavano sostanza; sono il soggetto e il complemento oggetto di quei verbi che significano attività e produzione. Anche questi sono nomi etichetta. Quando dico tamarindo so che voglio dire una certa pianta o una certa bibita, anche se non dico niente delle sue proprietà. Poi vengono finalmente gli aspetti delle cose: dimensioni, forme, temperatura, peso, movimento eccetera, che solitamente chiamiamo aggettivi. Son quelli in cui sta tutta la cultura perché sono vere e proprie immagini mentali, veri e propri concetti. Poi vengono le parole che esprimono relazioni e correlazioni cominciando con le preposizioni; infine ci sono parole vicarie come i pronomi relativi e simili.
Ho fatto il censimento di tutte queste parole. Negli 11 milioni di parole dell’Index Thomisticus (siccome Dio l’ho messo tra i nomi propri), con tutti gli altri nomi propri arriviamo al 3%; gli oggetti e le cose arrivano al 6-8%; la maggior parte dei restanti sono le parole di correlazione.
A questo proposito, mi ricordo che in un congresso un gruppo di scienziati sosteneva che metà delle parole di san Tommaso esprimessero le realtà religiose invisibili. Invece il nome Cristo non è un nome invisibile; è invisibile come è invisibile Socrate. Le realtà invisibili sono poche e sono alla radice del cosmo: Dio, gli angeli, i demoni e i nostri morti. Ma invisibili sono anche le forze di base della natura, dalle forze cosmiche di base (l’elettricità, la gravità, le onde hertziane) ai loro programmatori che sono gli angeli, i software del Signore Dio loro creatore. Questo c’è in san Tommaso, con altre parole naturalmente.

Invece, come ha strutturato la ricerca sui segni grafici?

Avevo 11 milioni di parole latine; riepilogate secondo «forme» di parola graficamente diverse erano circa 150 000; poi avevo «lemmatizzato» ciascuna di esse trovando 20 000 lemmi. Il lemma è quella parola che nei vocabolari rappresenta tutte le proprie flessioni secondo una certa unità che io chiamo unità lessicale che con le flessioni viene arricchita, ma non contraddetta (il lemma è come il corpicino della bambola Barbie e le flessioni sono come gli abitini che le si mettono intorno).
Ho preso tutti i lemmi, li ho divisi in un massimo di tre segmenti (iniziale, centrale e finale), in qualche senso a caso, senza badare al significato e meno ancora alla glottologia, alle derivazione o alle trasformazioni, ma proprio graficamente. Una stessa stringa di quattro caratteri si trova ripetuta in tante parole all’inizio, come iniziale assieme ad altre stringhe diverse, ma anche in posizione centrale o finale. Ho fatto una classificazione e la mia sorpresa è stata che 11 milioni di parole sono la combinazione di un massimo di 1 500 stringhe diverse di caratteri. Solo 1 500.
Naturalmente ci sono le stesse stringhe con significati diversi.

Nel suo libro Dal computer agli angeli auspica che la statistica linguistica tenga conto della eterogeneità delle parole di un testo e di quella che lei definisce «doppia struttura del lessico». Può spiegare il significato di questa espressione?

Da sempre è risaputo che quando si parla o si scrive ci sono poche parole diverse, di solito corte, moltissimo ripetute. Poi ci sono tante parole, relativamente poco ripetute, tra le quali tutte le parole lunghe. Questo l’ho sempre riscontrato e oggi li chiamo i due emisferi del lessico.
Il primo lessico, quello delle parole frequenti e brevi, le particelle che a scuola venivano chiamate grammaticali, oggi sono definite dagli inglesi function words e anche close class words perché non aumentano. Esse sono contrapposte a quelle di contenuto, chiamate content words e anche open class words perché cambiano e crescono. Le prime sono quelle che esprimono la logica con cui ciascuno cerca di parlare. Le seconde sono quelle che specificano la cultura, cioè i contenuti che specificano il messaggio. I due emisferi sono questi: la logica e la cultura. E tra le persone non c’è differenza nella logica di base, ma nella cultura.
Io non ho lavorato solo le parole di san Tommaso, ma altrettanti milioni di parole in altre 22 lingue e alfabeti diversi: i rotoli di Qumrân, che sono in alfabeto ebraico ma in tre lingue (ebraico, aramaico e nabateo), tutto il Corano in arabo, il finnico, il cirillico, il boemo e ovviamente tutte le lingue europee e il greco; le ultime sono state l’albanese e il giorgiano e poi l’alfabeto fonetico. In tutte queste cose ci sono i due emisferi del lessico.
Nell’oralità non ho fatto calcoli, perché i media espressivi sono tanti e perché nell’oralità il linguaggio è ridotto al minimo. Per esempio, se ordino una birra e dico «cameriere me ne porti un’altra», in questo caso «altra» è la birra; invece, se avessi ordinato una zuppa, «altra» avrebbe un altro significato.
Invece il linguaggio educato è quello scritto.
In questa direzione, la critica di un libro si fa al suo interno. Di fronte a un libro non bisogna mettersi con l’idea di confutarlo, ma vedere se quello che dice è coerente con la logica con cui lo dice. Recentemente mi hanno chiesto perché lavorare su san Tommaso e non su un testo moderno. Trent’anni fa mi hanno invitato a Mosca per lavorare sui testi di Lenin con lo stesso metodo. E ho provato a farlo, nei ritagli di tempo, anche sul libro di Jacques Monod (Il caso e la necessità) e poi su quello di Stephen Hawking (Dal big bang ai buchi neri) e in passato l’avevo fatto con il behaveourista Skinner. Si riesce a vedere il momento in cui i testi di un autore sono illogici: non perché contraddicono san Tommaso o san Bonaventura, ma perché sono illogici in se stessi.

Recentemente i giornali hanno parlato di lei definendola «informatico di scienze umane», invece ci sta facendo una riflessione sull’uomo. Queste categorie valgono in tutti gli ambiti? Anche nel fare scienza?

Facciamo riferimento ai due emisferi. Nel primo emisfero, quello della logica, si vede la luce di Dio che illumina ogni uomo. In tutti i congressi sostengo che tutte le anime e le intelligenze non vengono per evoluzione: le anime sono fatte tutte dal Signore Dio, una per una. È un paradosso, ma utile per chiarire: non ci vuole meno di Dio tutto intero per fare un’intelligenza d’uomo, per fare uno spirito. La luce di Dio è la logica e la logica sono le leggi dell’essere.
Io vedo tre livelli di logica. Quella che si insegna all’università, la logica formale, è il rapporto tra contenente e contenuto, fra tutto e parte.
Un’altra logica, che non viene così studiata, è quella del rapporto tra autore e opera, tra attivo e passivo che è un rapporto strano, perché è a senso unico: nessun figlio è padre del proprio padre, nessuna statua è l’autrice del proprio scultore. Tutti lo sanno: chi ha scritto un’opera va dalla SIAE a farsi dare la percentuale e non dice mai che la sua opera è fatta per caso.
Il terzo livello è quel rapporto tra pensiero ed espressione che è il principio di non contraddizione. Come dice il nome, la contraddizione ha a che fare con il dire, cioè con l’espressione. Si riesce sempre a pronunciare frasi contraddittorie: per esempio «qui ora piove» e «qui ora non piove», ma nessuno riesce a pensare che ambedue siano contemporaneamente vere, né che ambedue siano contemporaneamente false. L’espressione non deve contraddire il proprio pensiero: il che conchiude alla immoralità intrinseca della menzogna.

Perché oggi nel mondo della cultura questi livelli di logica sono più spesso negati che affermati? Per-ché nella comunicazione, nel lavoro, nella scuola, nella scienza, ci si basa di più sul suscitare sensazioni che non sulla logica?

Direi ignorati, moltissimo ignorati e poche volte negati. Nei libri di logica non ho mai trovato il rapporto attivo/passivo, ma sempre il rapporto ve-ro/falso e poi contenente/contenuto. Ai miei studenti di filosofia, preoccupati di aver letto una gran quantità di autori, dicevo: basterebbe sapere la metà di quel che sappiamo ma saperlo dire meglio il doppio se no è esibizione di quello che abbiamo in magazzino nella memoria.
La storia del linguaggio e della cultura è in fondo storia di anime, storia del colloquio segreto che abbiamo con Dio. Ed è una storia che ha più avventure di quelle di San-dokan e delle Twin Towers.

Perché segreto?

Perché sta nel profondo della logica, perché la logica è data per arrivare a capire il perché di tutto e perché nel vocabolario di tutte le persone c’è la parola «prima» e anche la parola «sempre». Sotto questo luccichio e questo mare di parole c’è la storia delle anime nel tempo: dall’eternità verso l’eternità. Si arriva dunque alla logica come prima luce dell’anima, quella che porta il tempo all’eternità, dall’eternità all’eternità. Un mio amico artigiano mi ha detto che la maggior parte delle persone non sa dove va, ma ci sta andando di corsa. E oggi è così anche per molta filosofia professionale: dalla ragion pratica fino alla new age, certa filosofia è la maschera della logica.

Nel mese di ottobre, al Circolo della Stampa di Milano, ha presentato il progetto a cui sta lavorando. Ce ne illustra i punti chiave?

Il progetto si chiama Lessico Tomistico Biculturale (LTB).
Lo spunto è venuto dall’analisi dell’espressione di san Tommaso ratio seminalis, che era l’antico stoico logos spermatikos, l’anima mundi che Virgilio ha messo in versi latini molto belli. Sant’Agostino l’ha introdotto nel pensiero cristiano spiegando il Genesi e a conseguenza di questo il pensiero cristiano è stato evoluzionista, non nel senso magico di oggi, fino al Rinascimento avanzato. Ho esaminato questa frase, che san Tommaso ha usato dieci o quindici volte più di sant’Agostino.con il metodo cui accennerò dopo e mi è risultato chiaro che san Tommaso, quando scriveva ratio seminalis (che ho trovato sempre tradotto come ragione seminale) aveva in mente quello che abbiamo in mente noi quando parliamo di «programma genetico». Se sostituite nelle frasi di san Tommaso questa espressione, il contesto si accende come una lampadina. Non che lui conoscesse il DNA, perché ovviamente non c’erano gli strumenti di indagine, ma lui sapeva che doveva esserci un programma genetico che partiva da Dio creatore e si esprimeva in ogni individuo. Poi c’erano le forze di base della natura; non dice quali sono, ma dice che ci sono. Per me sono luce, onde hertziane gravità eccetera, queste forze che sono a monte dell’evoluzione, che la generano.

Quando parte il progetto?

Il lessico di san Tommaso è enciclopedico ed è una sintesi di quaranta secoli di civiltà mediterranea: comincia con Abramo, frutto della civiltà e della cultura mesopotamica, circa 3000-3500 anni prima di Cristo, poi c’è il pensiero greco, il pensiero romano, il pensiero arabo e tutto il pensiero cristiano; di questi quaranta secoli, dodici sono di civiltà cristiana. Adesso che ho tutto il suo lessico, prendo in esame san Tommaso non per quello che lo distingue dagli altri autori analoghi, ma per quello che ha in comune con tutti.
Allora, si tratta di prendere le sue parole una per una, avendole già divise per categorie semantiche, risalire da queste parole ai concetti che esprimevano allora (nella cultura del 1200), venire oggi (nel 2000) agli stessi concetti e da questi discendere alle parole che li esprimono e darne così la traduzione in diverse lingue. Per questo il progetto si chiama biculturale. Sono già trent’anni che lavoro in questo senso con il metodo che spiegherò e ho analizzato decine di migliaia di contesti.
Ci sono parole come «esperienza» e «espressione» che hanno circa lo stesso valore che i nostri espressione ed esperienza.
Ci sono altre parole invece che hanno significati molto maggiori. Per esempio, virtus-virtutis non si può tradurre sempre con «virtù» perché virtus ha tutto il vocabolario dell’energia, forza, professionalità, potenza. E anche la parola ordo-ordinis, che ho analizzato in 10 000 contesti, non può essere tradotta sempre con «ordine»: nel latino di san Tommaso non voleva ancora dire precetto, comando e neppure in Dante Alighieri. Ordo-ordinis esprime tutto il vocabolario della organizzazione, pianificazione, progettazione, programmazione, tutti i concetti di struttura e sistema, quelli di tassonomia e classificazione oltre a indicare categorie professionali. Poi spiritus: tante volte è spirito, altre volte è spinta, impulso, pulsione oltre che spirito nel senso di spirituale o anche fantasma.

Allora ci spiega il metodo che propone?

Il metodo. Prendo, di una parola, tutti i contesti, tutte le frasi che la contengono; su queste frasi inserisco i codici delle correlazioni sintattiche, elementari e dirette; in parole correnti i codici che specificano l'analisi grammaticale e logica di questa parola, frase per frase.
Questo è un lavoro da «sgobboni» però è la forma profonda e solida di pensare. Mi aspetto che qualcuno mi dica che è puerile ma ho già la risposta pronta: provi a farla, anche solo su 100 frasi, non su 10 000 come le ho fatte per ordo o su 20 000 per spiritus e si accorgerà della difficoltà. Perché il pensiero e l’espressione sono disparati e il pensiero è multidimensionale, eccentrico e a-centrato: non si riesce mai a trovare i confini di un concetto, se ne trova subito un altro; per questo parlo di unità lessicali più che di unità concettuali. Invece l'espressione è sequenziale, tabulata come le battute di una musica, però «liofilizza» un concetto.
In periferia, in tutto il mondo dovremo trovare persone che sappiano il latino, che siano sgobboni, che non disdegnino gli antichi. Se hanno queste qualità possono partecipare al progetto. A ognuno viene data una parola su cui devono essere eseguite tutte le sintesi di correlazioni con una cascata di programmi monofunzione: non un programma come quello per gli stipendi che fa tutto insieme in un colpo solo, perché questa è ricerca. Dai collegamenti sintattici di ogni parola con i verbi di cui è soggetto o complemento, verranno fuori i suoi significati. Finora a me sono venuti fuori.
Poi ognuno deve fare un elenco di questi significati nella propria lingua: inglese, spagnolo, tedesco eccetera.
Poi i risultati vengono inviati a Roma dove, per prima cosa, un comitato certifica la qualità del lavoro. Questo è indispensabile.
Poi, all’interno di seminari tra esperti di vari paesi e lingue, bisogna esaminare i significati di questi concetti per tradurli nelle diverse lingue e nelle diverse culture contemporanee. Tra l’altro, chi fa l’esame sintattico di una voce deve analizzare le desinenze: per esempio deve dire quando veni è imperativo, quando è passato remoto eccetera, quando rosae è genitivo, ottativo, eccetera; io segnalo solo, in una nota, se la parola è omografa. Questo progetto è la continuazione di tutto quello che ho fatto finora. Ci lavoro da quindici anni e ora è nato a Roma un consorzio tra sei università: Gregoriana, Salesiani, Domenicani, Opus Dei, Servi di Maria, Laterano, più la Sapienza statale di Roma con l’istituto di Tullio Gregory.
L’iniziativa si è sviluppata piano piano e adesso è patrocinata da due gruppi. Il primo con Antonio Fazio, Hans Tietmayer e Michel Camdessous e anche i due cardinali Re e Tettamanzi. Il secondo è la CAEL (Compu-terizzazione delle Analisi Ermeneutiche e Lessicolo-giche), continuazione del CAAL (Centro Automazione Analisi Linguistica) che per trent’anni con la IBM ha finanziato l’Index Thomisti-cus.
Nel mese di dicembre i due gruppi si incontreranno per definire la forma di collaborazione allo stesso scopo. Si cercheranno i finanziamenti con l’intenzione di spendere il meno possibile. Perché, diversamente da quanto avviene di solito (prima i soldi, poi una sede pomposa, poi il lavoro), noi abbiamo cercato prima l’idea, poi il lavoro e i soldi sono sempre venuti. I progetti son come semi che bisogna gettare e piano piano cresceranno.
Un’altra importante novità nel metodo di lavoro è la sperimentazione di una collaborazione internazionale tra diverse università attraverso un lavoro in equipe in rete (e-mail, teleconferenza) e i loro sviluppi. A Roma c’è già un piccolo nucleo di persone che sarà il centro di questo lavoro in rete.
Per concludere, vorrei ripetere che l’informatica e i computer sono un dono di Dio che Lui ha preparato dagli inizi del mondo. Oggi purtroppo in questo campo c’è una grande confusione: primo ne parlano troppo quelli che non ne sanno, secondo ne parlano i sognatori facili, che desiderano far denaro velocemente.
Invece dobbiamo dire che le potenzialità dell’informatica non sono esaurite, stanno ancora «cabrando». Gli aeroplani ci hanno messo 100 anni a perfezionarsi, queste cose ce ne metteranno altrettanti, piano piano.
Per contribuire solidamente a questo sviluppo basta che ognuno cominci a fare il poco che è utile a lui: questo fa crescere vitalmente le strutture nuove. Però bisogna mettersi a lavorare su una linea precisa e definita.
Volete un ultimo aforisma?
Il computer può essere usato bene per il bene, può essere usato male per il bene e può essere usato bene anche per il male.

«Agli inizi l’obiettivo primo erano 12 milioni di schede perforate con stampato sul dorso un contesto di 11 righe. Ne sarebbe risultato uno schedario unico di 90 metri di fronte, 1,20 di altezza e 1 di profondità: peso complessivo 500 tonnellate.
Dopo che ne ebbi perforato sei milioni, la misericordia del Signore ha fatto inventare agli uomini i nastri magnetici. [...] Ebbi da allora in lavorazione un parco di 1800 nastri magnetici, di 2400 piedi cioè 800 metri ciascuno: erano circa 1500 kilometri di nastro, presso a poco la distanza tra Milano e Palermo o tra Parigi e Lisbona. [...] Per cui la prima epoca fu quella delle 500 tonnellate di schede, la seconda fu quella dei 1800 nastri magnetici. Terza epoca è ora quella di 1 solo cd-rom.»
(Dal computer agli angeli, pp. 25-26)

«Siccome il computer è figlio dell’uomo e l’uomo è figlio di Dio, allora il Signore Dio guarda il computer come un nonno guarda i suoi nipotini. Guai a parlarne male e a usarlo male.»

*Nato a Vicenza nel 1913, è tuttora in piena attività. Ha insegnato alla Pontificia Università Gregoriana, all’Aloisianum di Gallarate e all’Università Cattolica di Milano. Dal 1995 al 2000 ha insegnato al Politecnico di Milano nell’ambito dei corsi di Intelligenza Arti-ficiale e robotica tenuti da Marco Somalvico. «1261 momenti di pensiero distillati» da questo corso sono stati pubblicati nel 2000 da ITACAlibri in Dal computer agli angeli.
Autore di numerosissimi saggi. La sua opera fondamentale, l’Index Thomisticus, pubblicato tra il 1974 e il 1980 in 56 volumi e oggi disponibile anche su cd-rom, è il risultato della elaborazione computazionale dei testi di san Tommaso e ha costituito la base di qualsiasi ulteriore ricerca di informatica linguistica.

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lunedì, 22 novembre 2010

articolo di domenica 03 ottobre 2010

E il gesuita creò il link. È merito
suo se navigate in Internet

http://www.ilgiornale.it/foto-id=683671-x=800-y=800/busa.jpg

***
di Stefano Lorenzetto
Roberto Busa ha conosciuto sette papi: dava del tu a Luciani, suo compagno in seminario. "Nel '49 andai dal fondatore dell’Ibm a New York e gli chiesi l’impossibile"
Ora che sta per compiere 97 anni, l’uomo che insegnò ai computer l’arte della scrittura non è più capace di ragionare in frazioni di millisecondo. A ogni domanda si porta le mani giunte davanti alla bocca, guarda verso l’infinito, medita a lungo. Ma la sua mente obbedisce ancora al linguaggio binario, perché articola ogni risposta per punti, dicendo «primo», poi «secondo», mai «terzo», e intanto conta sulle dita partendo dal mignolo per arrivare al pollice, come fanno gli americani. Non c’è una parola, fra quelle che gli escono dalle labbra, che sia superflua o pronunciata a casaccio.
Se esiste una santità tecnologica, credo d’averla incontrata: ha il volto di padre Roberto Busa, gesuita. Perciò inginocchiati anche tu, lettore, davanti a questo vecchio prete, linguista, filosofo e informatico, che ebbe per compagno di seminario Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I. Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se saltabecchi da un sito all’altro cliccando sui link sottolineati di colore blu, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo, a lui.
Era nato solo per far di conto, il computer, dall’inglese to compute, calcolare, computare. Ma padre Busa gli insufflò nelle narici il dono della parola. Accadde nel 1949. Il gesuita s’era messo in mente di analizzare l’opera omnia di San Tommaso: 1,5 milioni di righe, 9 milioni di parole (contro le appena 100.000 della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano 10.000 schede solo per inventariare la preposizione «in», che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell’Aquinate e per confrontarli con altre fonti. In viaggio negli Stati Uniti, chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell’Ibm. Il vecchio magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell’ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: «Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d’essere più americano di noi». Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss - «Think», pensa - e la frase «Il difficile lo facciamo subito, l’impossibile richiede un po’ più di tempo». Lo restituì a Watson con un moto di delusione. Il presidente dell’Ibm, punto sul vivo, ribatté: «E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines».
È da questa sfida fra due geni che nacque l’ipertesto, quell’insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse. Me lo conferma Alberto Cavicchiolo, psicanalista, tra i fondatori di Spirali, la casa editrice di padre Busa che ha pubblicato tra gli altri il libro Quodlibet. Briciole del mio mulino. Spiega Cavicchiolo, uno degli amici più vicini al pensatore della Compagnia di Gesù: «Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 per ipotizzare un sistema software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Per ammissione dello stesso autore di Literary Machines, l’idea risaliva però a prima dell’invenzione del computer. E come ha ben documentato Antonio Zoppetti, studioso di linguistica e informatica, chi davvero operò sull’ipertesto, con almeno 15 anni d’anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa».
Insomma, il gesuita prossimo al secolo di vita incarna il primo esempio documentabile nella storia dell’uomo di utilizzo del computer per l’analisi linguistica. I suoi esperimenti, ai quali fece in tempo ad assistere padre Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica ridotto in sedia a rotelle, hanno trovato compimento nell’Index Thomisticus che padre Busa ha realizzato fra Pisa, Boulder (Colorado) e Venezia, un’impresa titanica che ha richiesto 1,8 milioni di ore, grosso modo il lavoro di un uomo per 1.000 anni a orario sindacale, e che oggi è disponibile su Cd-rom e su carta: occupa 56 volumi, per un totale di 70.000 pagine. A partire dal primo tomo, uscito nel 1951, il religioso ha catalogato tutte le parole contenute nei 118 libri di San Tommaso e di altri 61 autori.
Non c’è congresso scientifico o comunità accademica al mondo dove, all’udire il nome di padre Busa, non ci si alzi rispettosamente in piedi. La sua ultima creatura è stato un consorzio tra sei università (Sapienza, Gregoriana, Salesiani, Domenicani, Opus Dei, Servi di Maria, Laterano) per la creazione del lessico tomistico biculturale, patrocinato dall’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, grande cultore di San Tommaso, e da Hans Tietmeyer e Michel Camdessous, ex presidenti del Fondo monetario internazionale e della Deutsche Bundesbank. Una sua ammiratrice, Francesca Bruni, presidente di Art Valley, istituto che promuove lo scambio tra arte e tecnologie, ha lanciato su Facebook un gruppo al quale si sono subito iscritti oltre 150 studiosi di tutto il mondo.
Dal 1995 al 2000 padre Busa ha insegnato al Politecnico di Milano nei corsi di intelligenza artificiale e robotica. In precedenza era stato per lunghi anni docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Cattolica. Adesso vive ritirato all’Aloisianum, un monumentale istituto di Gallarate, dove pure ha insegnato, donato ai gesuiti negli anni Trenta dalla contessa Rosa Piantanida Bassetti Ottolini, la fondatrice dell’omonima industria tessile che padre Busa conobbe personalmente. Nella casa di riposo per anziani sacerdoti è ospitato anche uno dei più cari amici dello studioso quasi centenario: il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano.
Se dovesse stendere una voce enciclopedica su padre Roberto Busa, che cosa scriverebbe?
«Quante righe?».
Cinque, dieci. Decida lei.
«Facciamo una sola: “Pioniere dell’informatica linguistica”. L’informatica era stata concepita per i numeri. Io ho pensato di applicarla alle parole».
Almeno aggiungiamo dov’è nato.
«A Vicenza. Ma siamo originari di Lusiana, sull’altopiano di Asiago, più precisamente della contrada Busa, donde il cognome. Mio padre era capostazione. Ci trasferivamo da una città all’altra: Genova, Bolzano, Verona. Nel 1928 approdammo a Belluno e lì entrai in seminario. Ero in classe con Albino Luciani. In camerata il mio era l’ultimo letto della fila, dopo quelli di Albino e di Dante Cassoli. Niente riscaldamento. Sveglia alle 5.30. Ai piedi del letto c’era il catino con la brocca. Dovevamo rompere l’acqua ghiacciata. In quei cinque minuti perdevo la vocazione. Dicevo fra me: no, l’acqua gelata no, voglio tornare dalla mamma che me la scalda sulla stufa. Mezz’ora per lavarci, vestirci e rifare il giaciglio. Albino se la sbrigava in 10 minuti e impiegava gli altri 20 a leggere le opere devozionali di Jean Croiset, gesuita francese del Seicento, e le commedie di Carlo Goldoni».
L’unico dei sette pontefici della sua vita al quale abbia potuto dare del tu.
«Fino all’ultimo. Confidenza che non mi sarei mai permesso con Papa Montini e Papa Wojtyla, nonostante i nostri contatti frequenti e cordiali. All’elezione di Giovanni Paolo I i giornali scrissero che era stato scelto un parroco di campagna. Pensai: ve ne accorgerete quando tirerà fuori le unghie. Purtroppo il Signore ce l’ha lasciato solo per 33 giorni. Lo sa che don Albino m’invidiava?».
La invidiava?
«Sì, perché io ero diventato gesuita e lui no. Avrebbe voluto fare il missionario come i primi compagni di Sant’Ignazio di Loyola. Ma il vescovo Giosuè Cattarossi non glielo permise. A dire il vero anch’io, dopo essere diventato gesuita, sognavo di partire per l’India. Invece il superiore provinciale mi chiese a bruciapelo: “Le piacerebbe fare il professore?”. No, risposi. E lui: “Ottimo. Lo farà lo stesso”. Fui spedito alla Gregoriana per una libera docenza in filosofia su San Tommaso d’Aquino».
E se invece il suo vescovo l’avesse mandata a fare il curato in un paesino di montagna, ci sarebbe andato volentieri?
«Certamente. Fu come se mi fosse stato impartito l’avanti marsc’! Il militare riceve l’ordine di raggiungere Roma e poi, arrivato nella capitale, segna il passo in attesa di nuove disposizioni. Così è stato per me: mi hanno ordinato di studiare San Tommaso, sono partito e non ho più smesso».
Che cos’ha di speciale la figura di questo dottore della Chiesa?
«
San Tommaso è il riassunto della civiltà cristiana. Non a caso ho dovuto lavorare su 20 milioni di parole sue e di altri autori, in 18 lingue che adoperano 8 diversi alfabeti».
Immagino che lei sia poliglotta.
«Sa che non me lo ricordo più? Sui miei temi, oltre che in italiano, latino, greco ed ebraico, posso senz’altro improvvisare anche in francese, inglese, spagnolo, tedesco. Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân, che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col giorgiano, con l’albanese. A volte mi lamento col mio Principale, dicendogli: Signore, sembra che tu abbia concepito il mondo come un’aula d’esame. E Lui mi risponde: “Ho lasciato che gli uomini facessero ciò che vogliono. Se fanno il bene, avranno il bene; se fanno il male, avranno il male”».
Come le venne l’idea di trascinare in quest’avventura l’Ibm, creando le premesse per la creazione dei collegamenti ipertestuali che oggi sono alla base del Web?
«Lucia Crespi Ferrario, proprietaria della tintoria Giovanni Crespi di Busto Arsizio, volle regalare al figlio Giulio, quindicenne, un viaggio di quattro mesi negli Stati Uniti. Mi chiese se fossi disposto ad accompagnare il ragazzo. Accettai. E là decisi d’interpellare Watson. Il primo passo della nostra collaborazione fu creare un archivio di 12 milioni di schede perforate, che riempirono una fila di armadi lunga 90 metri per un peso complessivo di 500 tonnellate. Pensi che a quei tempi un elaboratore Ibm impiegava un’ora per mettere in ordine alfabetico 20.000 parole, una velocità che oggi fa sorridere. Il secondo passo furono i nastri magnetici, un gregge piuttosto difficile da pascere: ne avevo 1.800, che uniti fra loro raggiungevano i 1.500 chilometri. Infine sono giunto al Cd-rom e ai 56 volumi dell’Index Thomisticus. La vita è un safari: si sa da dove si parte, ma non che cosa s’incontrerà».
Qual è il senso di un’analisi linguistica sull’opera omnia di San Tommaso?
«La critica del pensiero si fa dal suo interno. Non bisogna confutare un libro, ma analizzare se quello che dice è coerente con la logica di cui si serve per dirlo. In tutti questi anni mi sono passate accanto migliaia di persone, diverse per lingua, colore della pelle, età, religione, cultura, eppure mai quella logica, intravista fin dall’inizio, ha mostrato crepe. Nel poco tempo libero ho applicato lo stesso metodo anche a Jacques Monod e a Stephen Hawking. Fui persino invitato a Mosca per lavorare sui testi di Lenin. La logica ci è stata donata per arrivare a comprendere il perché di ogni cosa. Come mai nel vocabolario dell’umanità, a ogni latitudine, figurano le parole “prima” e “sempre”? Io ci leggo la storia delle anime nel fluire del tempo. Dall’eternità verso l’eternità. Si arriva alla logica come prima luce dell’anima. Ci ho riflettuto molto dopo che un artigiano mi disse questa frase: “La maggior parte delle persone non sa dove va, ma ci sta andando di corsa”».
Fosse nato mille anni fa sarebbe diventato un amanuense, l’avrebbero messa a scrivere codici miniati.
«Il mio mulino sono io. Neanche Dio, che pure ha inventato padre Busa, può affermare d’essere padre Busa. Ogni uomo è una macchina che elabora informazioni per tutto il corso della vita. Nasciamo senza saperlo né volerlo in un corpo che è un mulinare di materia cosmica in continuo cambiamento, soggetta alle modificazioni ambientali. Dentro questo corpo si sveglia la coscienza dell’io, che comincia a manovrare qualche leva e impara a cimentarsi in quella corsa a ostacoli che è il vivere di ciascuno».
La vista di un moderno computer che cosa le fa venire in mente?
«I miei antenati agricoltori e boscaioli che per generazioni hanno faticato sulla terra».
Che cosa pensa di Internet?
«Primo: ne penso un gran bene. Secondo: non lo uso per pigrizia. Lascio che lo faccia per me questa signora». (Indica con un sorriso Danila Cairati Del Bianco, sua segretaria).
Una decina d’anni fa lei dichiarò: «Dio guarda ai computer come un nonno guarda ai nipotini». Lo crede ancora?
«Il paragone è riduttivo ai limiti dell’insolenza. Una mente che sappia scrivere programmi è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l’autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell’affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo».
Perché l’uomo moderno ha quasi completamente smarrito la dimensione verticale, guarda solo all’oggi, senza alcuna prospettiva di eternità?
«Un po’ difficile come domanda. In termini banali direi: per stupidità. Le vie del cielo sono un salire e non un lasciarsi andare».
Il peccato peggiore qual è?
«La superbia».
Non la vanità?
«La vanità è una bambinata».
Nella vita ha più pregato o più studiato?
«Direi più studiato».
E si sente in colpa per questo?
«No, proprio no».
Come s’immagina il paradiso?
«Come il cuore di Dio. Immenso. Guardi che aspetto anche lei in paradiso, mi raccomando». (Si volta verso il fotografo). «Anche lei. E se tardate, come mi auguro, mi troverete seduto sulla porta così». (Incrocia le mani e comincia a girarsi i pollici). «Non arrivano mai, quei macachi...».
(514. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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lunedì, 30 agosto 2010

Il "caso Galileo"

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Galileo Galilei
Galileo Galilei

16/06/2010
E' il cavallo di battaglia di tanta pubblicistica anticattolica. Utilizzato per bollare la Chiesa come nemica della scienza. Ecco perché è importante tornare a parlarne. Dicendo la verità su come si svolsero i fatti.

Di S.E. Mons. Luigi Negri

Si è concluso non da molto l'anno galileiano e non sono mancate pubblicazioni e articoli che hanno trattato del cosiddetto "caso Galileo". Allora perché interrogarsi ancora sulla vicenda galileiana? Sono almeno due i livelli per cui è importante occuparsene. Sicuramente ricostruire da un punto di vista storico, al di là di tutte le interpretazioni ideologiche e di tutti i pregiudizi, la dialettica tra Galileo e la Chiesa del suo tempo è importante per chiarire che la Chiesa "non è mai stata" e "non è", come vorrebbe certa storiografia laicista, contro la scienza. Il cosiddetto "caso Galileo", come ha avuto modo di precisare l'allora card. Ratzinger, «ancora poco considerato nel XVII secolo, viene - già nel secolo successivo - elevato a mito dell'illuminismo». Secondo tale prospettiva, continuava lo stesso card. Ratzinger, «Galileo appare come vittima di quell'oscurantismo medievale che permane nella Chiesa. […] Da una parte troviamo l'Inquisizione: il potere che incarna la superstizione, l'avversario della libertà e della conoscenza. Dall'altra la scienza della natura, rappresentata da Galileo». Una puntuale ricostruzione storica ha dimostrato ormai con chiarezza che l'obiezione della Chiesa al copernicanesimo di Galileo derivava dal fatto che si affermavano come teorie scientificamente dimostrate delle ipotesi che in realtà avevano ancora bisogno di ulteriori sviluppi e giustificazioni. Le parole di Bellarmino, scritte al padre carmelitano Foscarini, non lasciano adito a dubbi: «quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisognaria andar con molta circospezione in esplicitare le Scritture che paiono contrarie e più tosto dire che non l'intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Inoltre, la preoccupazione della Chiesa era di natura pastorale, ciò che la muoveva non era la volontà di difendere Tolomeo contro Copernico, quanto di evitare che attraverso la divulgazione di teorie non ancora dimostrate si favorisse la libera interpretazione delle Scritture secondo il modello protestante, aprendo inevitabilmente a quella prospettiva soggettivistica e individualistica della fede introdotta da Lutero. Solo se si tiene conto del difficile e drammatico momento storico in cui ci si trovava, si può comprendere una certa rigidità con cui la Chiesa si è posta nel difendere l'interpretazione di alcuni passi delle Scritture, in cui si faceva riferimento al movimento del sole, commettendo l'errore di suffragare la teoria tolemaica con tali passi. Tuttavia ciò che interessava veramente alla Chiesa era difendere la fede del popolo, evitare cioè che in una situazione così delicata un dibattito ancora aperto investisse scriteriatamente il popolo. Con questo non si vuol dire che l'atteggiamento della Chiesa del tempo sia stato esente da errori, ma che la questione in gioco sia più complessa di quanto evidenziato da quelle ricostruzioni parziali che denigrano la Chiesa come oscurantista. Per questo motivo Giovanni Paolo II ha precisato che il "caso Galileo" può essere visto come «una tragica reciproca incomprensione» che erroneamente «è stata interpretata come il riflesso di un'opposizione costitutiva tra scienza e fede» (Giovanni Paolo II, Discorso all'Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992). Il secondo livello, forse ancora più urgente da recuperare, è quello del carattere profetico inscritto nella vicenda galileiana. In essa possiamo dire che incomincia a farsi strada quella concezione di ragione che negli ultimi tre secoli si è dimostrata essere dominante: una ragione razionalistica che finalizza la conoscenza della realtà alla manipolazione tecnologica della stessa realtà. Galileo, nel tentativo assolutamente legittimo e positivo di fondare un sapere scientifico su basi metodologiche nuove, si è però dimostrato troppo sbrigativo nel liberarsi delle cosiddette "qualità secondarie", affermando non solo che gli unici aspetti che si potevano conoscere fossero gli aspetti quantitativi, ma addirittura che fossero gli unici presenti effettivamente nella realtà percepita. Rinunciare alle qualità secondarie significava considerare privo di senso qualsiasi discorso intorno alla natura propria di ciascuna realtà, significava ritenere «impresa non meno impossibile e per fatica non men vana» «il tentar l'essenza». Si può, pertanto, affermare che nella vicenda galileiana si apriva una questione estremamente delicata: la concezione di scienza, a cui introduceva il galileismo (non Galileo in quanto tale), successivamente sviluppata dall'illuminismo e dal positivismo, rischiava di ridurre la ragione al tecno-scientismo e di affermare un potere assoluto su tutto, compreso sull'uomo. Oggi questo rischio è più che mai presente, come Benedetto XVI ha sottolineato nella sua ultima enciclica: «Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l'umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l'essere e la verità. In tal caso, noi tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto. Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l'efficienza e l'utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato». Ovviamente, questo non significa non volere riconoscere che, proprio grazie a Galileo, sia nata la scienza moderna, rivelatasi per la storia dell'umanità una delle più straordinarie possibilità positive. Le scoperte scientifiche e tecnologiche che si sono susseguite dal 1600 ad oggi hanno contribuito certamente a migliorare la vita degli uomini. Tuttavia, occorre tenere presente come, allo stesso tempo, sia nata e si sia sviluppata una concezione di scienza che, invece di favorire la piena realizzazione dell'uomo, si è ritorta contro lo stesso uomo, pretendendo, ad esempio, di dominare la vita dalla sua origine (eugenetica) alla sua fine (eutanasia). L'uomo rischia così di essere ridotto a mero oggetto, venendo trattato come realtà senza anima, senza quella dignità assoluta e senza quella libertà che caratterizzano ontologicamente la persona. È sempre più urgente che la scienza non sia vissuta come un potere assoluto e riconosca, invece, che esiste un orizzonte di senso e di valore più grande entro cui è chiamata a muoversi. È proprio questo orizzonte più grande che la Chiesa ha cercato di difendere nella vicenda di Galileo, secondo una preoccupazione di cui oggi si può cogliere ancora più chiaramente il senso. Una scienza senza l'idea di un destino buono dell'uomo da servire finisce inevitabilmente per essere padrona dell'uomo, generando così una forma radicale di schiavitù senza precedenti, come ha denunciato anche Guardini: «chi guarda attentamente, scopre nella vita delle democrazie, così apparentemente libera, i sintomi più preoccupanti di una coercizione indiretta che si esercita attraverso l'apparato della cultura tecnologica». Proprio per questo, se si vuole uscire dalle strettoie imposte dalla mentalità razionalistico-scientista, diventa sempre più fondamentale e decisivo recuperare «il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione», come ha invitato a fare Benedetto XVI. Occorre non dimenticare che «una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008).



Da non perdere
Luigi Negri - Franco Tornagli, Con Galileo, oltre Galileo, Sugarco, Milano 2009, pp. 242, €18,00.
Il libro si divide in due parti. Nella prima, Luigi Negri colloca il "caso Galileo" nel contesto storico-culturale dell'epoca successiva alla Riforma protestante, che vede la contemporanea sfida lanciata alla tradizione cattolica dal fideismo protestante e dallo scientismo, che anche Galilei contribuì a diffondere. Nella seconda, il docente di matematica Franco Tornaghi entra nel merito scientifico della questione. Nella conclusione dell'opera, si trovano utili appendici e tavole cronologiche che la rendono molto utile per chi volesse cominciare ad affrontare il problema.
(il Timone)

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mercoledì, 18 agosto 2010

PROTAGONISTI/
Nicola Cabibbo:
quell' "angolo" di Nobel che a Stoccolma non hanno voluto vedere


mercoledì 18 agosto 2010
La mia conoscenza di Nicola Cabibbo – scomparso a Roma l’altro ieri pomeriggio - ha riguardato vari aspetti della sua personalità. Prima di tutto l’aspetto strettamente scientifico poiché, come fisico delle particelle elementari, anche se sperimentale, non ho potuto fare a meno di incontrare molto spesso fenomeni che potevano essere ben spiegati solo con la teoria di Cabibbo del mescolamento dei quark.
Il secondo aspetto è stato quello manageriale, quando durante sei anni e mezzo Nicola era presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), mentre io ne ero vicepresidente. Infine, più recentemente quando, membri ambedue della Commissione della Fisica del Comitato Interministeriale di Valutazione della Ricerca Scientifica (CIVR), abbiamo passato in rassegna le attività di ricerca in fisica di tutte le Università e degli Enti di Ricerca italiani. Ma, nelle conversazioni che abbiamo avuto modo di avere, abbiamo toccato anche argomenti riguardanti i criteri etici e i limiti che la scienza applicata (diversamente dalla ricerca fondamentale) dovrebbe porsi.
Dal punto di vista scientifico Cabibbo era molto poliedrico: pur essendo un fisico teorico aveva una conoscenza approfondita della struttura dei computer al punto di costruirsene uno da solo. Questa sua passione per i computer lo portò ad essere il promotore del programma di supercomputer APE, che ebbe vari sviluppi (APE100, APONE, APEnext). Si tratta di un array di computer paralleli, pensati in particolare per i calcoli della cosiddetta cromodinamica quantistica, che studia il comportamento dei quark legati nelle particelle, come ad esempio il protone.
Ma il suo nome è legato principalmente a una teoria fondamentale che riguarda il mescolamento dei quark e prende il nome di angolo di Cabibbo.
I costituenti elementari della materia appartengono a due famiglie. Una di queste è costituita dai leptoni, dei quali fanno parte ad esempio l’elettrone e il neutrino. I leptoni conservano indelebilmente il ricordo della loro provenienza: se ad esempio un elettrone si scontra (interagisce) con altre particelle, la sua natura elettronica non viene mai annullata a meno che l’elettrone incontri la sua antiparticella, cioè il positrone. In questo caso le due particelle si trasformano in sola energia raggiante. Questa caratteristica del leptoni si traduce dicendo che il sapore (in inglese flavour) dei leptoni si conserva.
 
Dell’altra famiglia fanno parte ad esempio i costituenti dei nuclei, cioè neutroni e protoni. Si è trovato però che queste particelle non sono effettivamente elementari, ma sono a loro volta costituite da componenti puntiformi detti quark. I quark sono sei e contrariamente ai leptoni non conservano la loro origine; si dice che i quark possono non conservare il loro sapore. Ciò avviene quando i quark interagiscono attraverso le forze nucleari deboli, mentre le forze nucleari forti mantengono il sapore dei quark.
 
La teoria dell’angolo di Cabibbo fornisce la probabilità che un quark, interagendo con altri quark attraverso forze nucleari deboli, si trasformi in un altro tipo di quark. In verità Cabibbo formulò la sua teoria ancora prima che fosse scoperta l’esistenza dei quark, studiando il comportamento di alcuni tipi di particelle. Sfruttando anche la spiegazione proposta da Cabibbo, Gell-Mann ipotizzò poco dopo l’esistenza dei quark, dando origine allo sviluppo dell’attuale teoria delle particelle elementari.
Infine il modello inizialmente proposto da Cabibbo fu ampliato da Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa che ipotizzarono l'esistenza di altri due quark rispetto ai quattro che si conoscevano a quell’epoca, ipotesi verificata poi sperimentalmente.
È veramente singolare che nel 2008 Kobayashi e Maskawa siano stati insigniti del premio Nobel, mentre lo stesso premio non sia stato conferito a Cabibbo. Questo episodio, insieme ad altri avvenuti nell’ultimo decennio, fanno dubitare dell’adeguatezza dell’Accademia delle Scienze svedese, che decide dell’assegnazione dei premi Nobel, o per difetto di competenza o per pregiudizi ideologici.
Le attività scientifiche di Cabibbo sono state ovviamente molto più numerose di quelle summenzionate; esse riguardano essenzialmente lo sviluppo di varie teorie circa il comportamento dei componenti elementari della materia.
L’impegno di Cabibbo non è stato però solo accademico: dal 1985 al 1993 è stato presidente, come gia’ detto, dell'INFN, e dal 1993 al 1998 è stato presidente dell'ENEA. È stato socio nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei per la classe delle scienze fisiche ed era uno dei soli quattro scienziati italiani viventi a essere membro della National Academy of Sciences degli Stati Uniti d'America. Come Presidente dell’INFN, Nicola Cabibbo ha mostrato capacità manageriali unite a una lungimiranza ed una accortezza di scelte che hanno fatto crescere in modo straordinario l’Istituto.
Dal 1986 è stato membro e dal 1993 presidente della Pontificia Accademia delle Scienze. È molto interessante anche questa sua attività di studio e discussione dei rapporti fra scienza e fede. Si debbono sottolineare, a questo proposito, due aspetti. Il primo riguarda la necessità che nelle applicazioni della scienza e nei suoi sviluppi tecnici, ci si debbano porre dei problemi etici, come nel caso delle possibilità aperte dalla manipolazione genetica. Ma non solo: Cabibbo sottolineava il fatto che le ricadute dei progressi tecnologici portavano benefici economici molto ridotti ai paesi in via di sviluppo.
L’altro aspetto riguarda la possibile conflittualità fra scoperte scientifiche e credenze religiose. Egli portò contributi utili alla convinzione, propria di molti fisici, che tali conflitti non esistano. In particolare discusse come la Teoria dell’Evoluzione possa benissimo essere conciliabile con l’idea della Creazione, teoria dell’evoluzione che non va confusa con l’Evoluzionismo, che rappresenta una deriva filosoficamente arbitraria rispetto alle evidenze sperimentali.

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giovedì, 05 agosto 2010

Quando il genio crede in Dio

Scritto da di Claudio DAMIOLI


Dice bene il Papa: Dio non manda in pensione l'intelligenza dell'uomo. Fede e ragione convivono: si può essere un genio ed amare il Creatore. Le prove della storia.


Stando a quel che dice il Papa, possono e devono coabitare: fede e ragione non si escludono a vicenda, l'una aiuta l'altra a conoscere la verità su Dio e sull'uomo. Il succo della recente Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Fides et ratio, può essere sintetizzato in questa semplice, profonda consapevolezza.
Non tutti, ovviamente, concordano con il pensiero del Santo Padre. Non manca chi lo contesta, sostenendo che dove trionfa la ragione deve sloggiare la fede. Ma è la storia, sono i fatti innanzitutto a dar ragione al Papa. E questi fatti, bisogna conoscerli.
Chi crede in Dio può star tranquillo. Da sempre, ininterrottamente fino ai nostri giorni, i più grandi "cervelli" dell'umanità dimoravano nel cranio di uomini di fede. Molti di coloro che sono universalmente riconosciuti come geni, credevano in Dio e pregavano il Creatore. Non risulta che abbiano mai riscontrato dissidi insuperabili tra la fede che professavano e la ragione che utilizzavano alla massima potenza.
E tutto questo sia detto con buona pace degli scettici, pronti a sentenziare "aut fides aut ratio", o fede o ragione, certi che per far posto alla fede bisogna mettere a riposo la ragione.
Tranquilli, cattolici: la storia, i fatti, l'esperienza, come vedremo, sono di tutt' altro parere.
Troppo facile parlare dei filosofi. I più grandi credevano in Dio. Platone e Aristotele, due geni del pensiero, erano certi della sua esistenza, senza avere mai letto un solo rigo delle Sacre Scritture.
Credenti, e santi, i sommi Agostino, Anselmo d'Aosta, Alberto Magno e Tommaso. Santo è anche Bonaventura. Pascal e Vico erano cattolici. E avevano fede pensatori del calibro di Cartesio e Leibniz, di Rosmini e Kierkegaard, di Bergson e Solovev, di Gilson e Del Noce. E anche Kant credeva in Dio (ma quanti errori in questo filosofo).
Dalla filosofia alla scienza, il discorso non cambia.
Anche in questo campo, il pensiero del Papa trova innumerevoli conferme nei fatti. Ed è un fatto innegabile che i più grandi scienziati di tutti i tempi erano, o sono impregnati di profonda religiosità. Gli esempi abbondano. Copernico era un religiosissimo canonico; Newton passava dagli studi sulla gravitazione universale alle pratiche di religione e di carità; saltava pasti e dormiva pochissimo, ma non tralasciava mai di pregare. Galileo Galilei era cattolico convinto, al punto di lasciar scritto che "in tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa". Keplero era credente; Boscovich, che era astronomo, fisico, matematico, architetto, storico e poeta, un vero genio universale, era anche gesuita. Credeva in Dio Ampère, e così Pasteur, il fondatore della microbiologia e della immunologia, che era una vera, autentica anima religiosa; Mendel, lo scopritore delle leggi che regolano l'ereditarietà dei caratteri, era frate agostiniano e sacerdote. I modernissimi Plank, Einstein e Bohr credevano in Dio. Il Nobel Rubbia, scienziato di prim'ordine e credente in Dio, ha dichiarato: "Noi [i fisici] arriviamo a Dio, percorrendo la strada della ragione, altri seguono la strada dell'irrazionale". Non dimentichiamo, infine, un altro illustre italiano, Antonino Zichichi, uomo di fede e scienziato a tutto tondo. E questi sono soltanto una piccola parte.
Prendiamo dunque atto che l'idea che scienza e fede siano tra loro incompatibili, come per anni ci hanno insegnato a scuola, è totalmente falsa. Non dunque" aut fides aut ratio", ma "fides et ratio", come insegna il Papa nella sua ultima Enciclica.
Ne era convinto anche il tedesco Max Plank (1858-1947), uno dei padri universalmente riconosciuti della fisica del nostro secolo, premio Nobel, che scriveva nel 1938: "Per quanto si voglia guardare, non troviamo da nessuna parte, tra religione e scienza, una contraddizione, ma precisamente, nei punti più decisivi, perfetta concordanza. La religione e le scienze naturali non si escludono a vicenda, come molti oggi credono o temono, ma si completano e si connettono reciprocamente".
Gli fa eco, ai nostri giorni, un altro fisico di spessore internazionale, l'italiano Antonino Zichichi, direttore del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana, di Erice, in Sicilia: "L'antitesi scienza-fede è la più grande mistificazione di tutti i tempi. La scienza studia l'immanente, le cose che si toccano. Come ha già detto Galilei, l'immanente non entrerà mai in conflitto con il trascendente che appartiene alla fede. Mondo materiale e mondo spirituale hanno la stessa origine dal Creatore".
Lo scrittore Vittorio Messori, apologeta di prim'ordine, rispondendo a Michele Brambilla che lo intervista sulla compatibilità tra scienza e fede, dichiara nel suo Qualche ragione per credere (Mondadori,1997): "Bisogna stare attenti a non cascare nel trappolone che vorrebbe convincerci di un divorzio irreparabile e unanime tra scienza e fede, non appena si entra nell'epoca moderna. Prendi, ad esempio, uno dei simboli e dei fattori più potenti della "modernità": l'energia elettrica. Alessandro Volta era un uomo da messa e da rosario quotidiani; André-Marie Ampére scrisse addirittura delle Prove storiche della divinità del Cristianesimo; Michael Faraday alternava straordinarie invenzioni a predicazioni del vangelo sulle strade inglesi; Luigi Galvani era devoto terziario francescano; Galileo Ferraris un austero, esemplare cattolico praticante; Léon Foucault, il primo che calcolò la velocità della luce, un convertito... Come vedi, mi sono limitato al campo "elettrico ", ma potrei tediarti dando ti liste analoghe per ogni altra disciplina scientifica".
Certo, non tutti gli scienziati soprannominati erano, o sono cattolici. Ma tutti erano e sono convinti dell' esistenza di Dio, ed è quanto basta per dimostrare concretamente, contro chi lo nega, che Fides et ratio, fede e ragione possono convivere benissimo. A meno di voler ammettere una assurdità: e cioè che i summenzionati luminari, quando si occupavano di Dio, pensionavano la ragione.
Dai geni della scienza a quelli della letteratura e della poesia, la storia non cambia.
Il sommo Dante in testa a tutti, e poi Petrarca, ma anche Shakespeare, Milton, Dostoievski, Manzoni, il Nobel Grazia Deledda (" cattolica a tutte lettere", la definisce il gesuita Sommavilla) per arrivare a Claudel. E poi Lewis, Bernanos, il Nobel Mauriac, Julien Green, Tolkien, Peguy, Chesterton, Eliot, per concludere con il russo Solzenicyn (il più grande scrittore russo di questo secolo, implacabile accusatore dei misfatti del Comunismo) fino al cattolicissimo Eugenio Corti, autore de Il cavallo rosso.
Stessa musica nel campo dell' arte. Giotto, il Beato Angelico (era un frate), Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Bramante, Rembrandt, per citare solo alcuni tra i talenti più noti, non si spiegherebbero senza la fede. Tutto il loro genio è emerso in dipinti e sculture a sfondo religioso. Fede e ragione convivono, insegna la storia. A chi lo nega, vien bene suggerire quel che diceva Gustave Thibon, il francese autodidatta, un genio della umana saggezza: "Chi rifiuta di essere l'immagine di Dio, sarà in eterno la sua scimmia".
RICORDA:

" L'universo è regolato con estrema precisione. [...] Il Big-Bang originale doveva possedere una certa densità, le stelle produrre carbone; la terra, trovarsi a una certa distanza dal sole; l'atmosfera, avere una buona composizione. Era necessario tutto questo perché comparisse la vita. Erano possibili migliaia di altre combinazioni. I fisici le ricreano in laboratorio, ma nessuna ha originato la vita. Questo concorso di circostanze è troppo straordinario perché il caso ne sia il solo responsabile. Ecco perché sono certo che c'è un Creatore".
(Trinh Xuan Thuan, astrofisico americano di origine vietnamita, in René Laurentain, Dio esiste ecco le prove, Piemme, Casale Mon.to (AL) 1997, p.70)



IL TIMONE – N.2 - ANNO I - Luglio/Agosto 1999 - pag. 8-9

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giovedì, 08 luglio 2010

La bellezza del creato
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"Lo scienziato non studia la natura perché è utile, ma perché ne prova piacere perché è bella: se la natura non fosse bella,non varrebbe la pena di studiarla per tutta la vita e la vita non varrebbe la pena di essere vissuta"

 Henri Poincaré -


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lunedì, 05 luglio 2010

L'astrazione scientifica
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"da un lato c'era il pensiero scientifico inumano,dall'altro l'umanità priva di pensiero. L'astrazione scientifica che danza il trionfo della morte-vincitrice sulle ossa dell'uomo che ha distrutto, e lo spirito umano avvilito che tenta di nascondersi negli angoli"
P.Florenskij


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venerdì, 23 aprile 2010

Scienza, origini cristiane
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Peter E. Hodgson                      da:http://www.disf.org/Voci/106.asp
I. Introduzione - II. Le condizioni della nascita della scienza - III. I primi secoli cristiani - IV. Il Medioevo - V. Scienza e fede cristiana - VI. Galileo - VII. La scoperta dell'origine cristiana della scienza.

I. Introduzione
La presenza della scienza nella nostra vita e la moltitudine delle sue applicazioni tecnologiche ci sono così familiari da darle tutte per scontate. Eppure non troviamo nulla di simile nelle grandi civiltà del passato: lo sviluppo delle scienze è storicamente una caratteristica esclusiva della civiltà occidentale.In quelle antiche vi troviamo certamente strutture sociali altamente sviluppate, grandi città, uomini e donne di grande cultura, magnifiche opere architettoniche, la lavorazione del metallo, l'arte della ceramica e anche la filosofia, il teatro e la letteratura. Ma della scienza quale oggi la conosciamo, nessuna traccia.
È necessario mettere in chiaro fin d'ora in modo più particolareggiato che cosa intendiamo precisamente per scienza moderna. Nelle civiltà antiche spesso troviamo uomini di grande talento nel sapere pratico e altresì valenti pensatori speculativi, che tentarono di comprendere il mondo. Si pensi in particolare agli antichi Greci e al grande contributo che hanno dato allo sviluppo della matematica e dell'astronomia pratica. Democrito di Abdera (460 ca.- 370 a .C.), per esempio, rifletteva sulla possibilità che il mondo fosse composto di atomi, le più piccole particelle solide indivisibili. Ma egli non aveva la minima idea di come avrebbe potuto provare se le cose stessero veramente così e, in tal caso, come avremmo potuto scoprire la loro grandezza e la loro struttura. Tale questione, come molte altre, ha trovato risposta soltanto nel nostro secolo.
I Greci cercavano di scoprire il mondo, immaginando l'essenza delle cose e deducendone il loro comportamento. Concepivano un mondo frutto di un pensiero, un mondo in cui ogni cosa tendeva a trovare il proprio posto naturale. Era un modo di pensare troppo ambizioso e sbagliato: non possiamo immaginare l'essenza delle cose.Toccò a Galileo Galilei (1564-1642), che andava costruendo sull'opera dei suoi precursori del Medioevo, capire che occorreva un approccio alla realtà ben più modesto e minuzioso. I fenomeni fisici non vanno solo osservati, vanno anche misurati con la maggior precisione possibile, e i dati ricavati devono essere messi in correlazione con la matematica. Nel secolo XIII ciò era già stato capito da Roberto Grossatesta (1175-1253), il quale si rifece alle regole della geometria per comprendere i fenomeni ottici. Galileo andò oltre e studiò il moto della caduta dei corpi, misurando il tempo impiegato a cadere da una determinata altezza, e verificando i risultati con equazioni matematiche. Ponendo l'accento sul fatto che la scienza è quantitativa e non qualitativa, che è basata su misure esatte e che, come lui stesso dice, il libro della natura è «scritto in linguaggio matematico», Galileo si pone alla soglia della scienza moderna. Attraverso la sua intuizione del metodo scientifico, attraverso le sue minuziose osservazioni e misure, e mediante la sua visione del futuro, contribuì più di chiunque altro a demolire la fisica aristotelica e ad aprire la via alla scienza moderna.
L'opera di Galileo dimostrò pure l'importanza del rapporto tra la scienza e la tecnologia. Egli credeva e sosteneva con molta franchezza che la Bibbia era stata scritta, secondo l'espressione del Baronio, «per insegnarci come si vada in cielo e non come si muova il cielo». In altre parole, la Sacra Scrittura spesso utilizza espressioni del linguaggio in uso senza intenzione di affermare una particolare teoria scientifica. È, dunque, importante distinguere il discorso teologico da quello scientifico, ciascuno dei quali ha metodi e criteri di verità diversi. All'epoca di Galileo la discussione era tragicamente intorbidata dall'opposizione degli aristotelici alle sue scoperte e dall'incomprensione del fatto che le vere scoperte scientifiche mostrano le opere del Creatore. Anzi, esaminando le origini della scienza moderna, ci renderemmo conto, come vedremo, che essa è radicata nelle convinzioni cristiane sulla natura del mondo materiale.
Per scienza moderna intendo la comprensione quantitativa dettagliata del mondo materiale espressa sotto forma di equazioni differenziali. Ciò fu realizzato per la prima volta da  Isaac Newton quando enunciò le sue tre leggi e mostrò come servirsene per calcolare sia il movimento dei pianeti sia la caduta di una mela. Allo stesso modo  Clerk Maxwell poté dimostrare come le sue equazioni consentivano di comprendere i fenomeni elettrici e magnetici. Nel microcosmo degli atomi e dei nuclei, la meccanica quantistica, abitualmente mediante equazioni della forma dell'equazione di Schrödinger, ha la medesima funzione. Il  modello è sempre il medesimo: se si conoscono le condizioni iniziali, si può calcolare la susseguente evoluzione del sistema, con i suoi dettagli quantitativi.
Questa conoscenza dettagliata del mondo è la base essenziale di tutta la tecnologia moderna. Senza di essa, non ci sarebbero né aerei, né televisione, né centrali elettriche. Certo, potremmo dire che, in qualche misura, staremmo meglio senza la moderna tecnologia, ed è evidente che la conoscenza che abbiamo acquisito è purtroppo spesso utilizzata a fin di male. Potremmo anche pensare che senza la scienza moderna la maggior parte di noi non sarebbe qui, e la maggior parte di molti altri uomini vivrebbe in condizioni assai arretrate.
Questo ci induce a porci la seguente domanda: perché, tra le tante civiltà del mondo, la scienza nella sua forma moderna si è sviluppata nella nostra civiltà ed è fiorita in Europa nel secondo millennio? A tale domanda possiamo rispondere prendendo in considerazione ciò che è unico nella nostra civiltà, per poi metterlo in relazione con l'origine della scienza.

II. Le condizioni della nascita della scienza
Tutte le grandi civiltà sono caratterizzate da una struttura sociale progredita, che permette a certe persone di dedicare il loro tempo all'indagine speculativa della natura, senza vedersi costrette a dover provvedere alla loro sussistenza materiale. La maggior parte delle grandi civiltà hanno anche avuto sistemi di scrittura che consentivano di fissare e conservare il loro pensiero, e alcune di esse conoscevano la matematica. Vi si trovano anche forme di ingegno pratico indispensabili alla costruzione di strumenti utili. Sono tutte cose che potremmo chiamare "condizioni materiali dell'emergere della scienza", ma data la loro estensione universale e non limitata all'ambito occidentale, dobbiamo cercare altrove la risposta al nostro precedente interrogativo.
Risulta invece determinante lo spirito con cui ci si pone di fronte al mondo materiale. Se ritenessimo ad esempio che il mondo fosse qualcosa di cattivo e non fosse degno della nostra attenzione, precluderemmo in pratica la possibilità di studiarlo in tutti i suoi particolari. Perché possa nascere la scienza, è necessario giudicare il mondo, in un certo modo, come qualcosa di buono, o per lo meno neutro.
Dobbiamo inoltre credere che il mondo sia razionale e ordinato: ciò che scopriamo un giorno deve essere vero anche il giorno dopo e deve esserlo anche in altri luoghi. E tale ordine deve essere di un genere particolare. Se credessimo che l'ordine del mondo fosse qualcosa di necessario, qualcosa cioè che non potrebbe essere diversamente, potremmo sperare di scoprirlo semplicemente riflettendovi su deduttivamente, come facciamo in matematica. Se invece l'ordine del mondo è un ordine dipendente o contingente, qualcosa cioè che potrebbe essere anche diverso da come è, il solo modo di conoscerlo è di considerarlo quale esso è in realtà, facendo pertanto degli esperimenti.
La ricerca scientifica è una professione frustrante e troppo spesso i risultati sono scarsi o si fanno attendere. Non è difficile, a volte, abbandonare il lavoro. Sovente il solo mezzo per riuscire nell'impresa è quello di perseverare con tenacia a qualunque costo; ma ciò è possibile soltanto a condizione che si creda fermamente nell'esistenza di un ordine e che questo ordine possa essere scoperto. Inoltre, dobbiamo credere che l'ordine della natura sia accessibile alla mente umana e che l'impresa di scoprirlo possa davvero portarsi a compimento. Alla conoscenza scientifica non si può pervenire se non attraverso gli sforzi di collaborazione di un grandissimo numero di uomini e di donne, sforzi che richiedono molti anni.Ciò non si realizzerebbe mai se la conoscenza cui ognuno arrivasse fosse mantenuta segreta, anziché essere liberamente comunicata e condivisa.
Abbiamo precedentemente riepilogato alcune convinzioni riguardanti il mondo materiale, cui si può giungere attraverso l'investigazione e che sono necessarie perché la scienza possa compiere i suoi primi passi. Sono convinzioni che tutti i membri di una società devono possedere e anche tenere per certe. Possono sembrarci abbastanza logiche, ma costituiscono un insieme di convinzioni che si è trovato, per così dire, perfettamente amalgamato una sola volta nel corso della storia umana. Basta prendere in esame le convinzioni riguardanti il mondo materiale che possiamo rintracciare nelle altre civiltà, per trovare qualcosa di molto diverso. La  materia, ad esempio; è ritenuta spesso qualcosa di malvagio o controllata da demoni capricciosi. In un simile terreno la scienza non avrebbe potuto attecchire.
Una convinzione generalmente condivisa da molte antiche civiltà è quella di un universo ciclico; essa viene talvolta chiamata la dottrina del Grande Anno; secondo tale convinzione, dopo un tempo molto lungo, tutto si ripete di nuovo. Non c'è nulla di nuovo; tutto ciò che avviene è già avvenuto un'infinità di volte in passato e si ripeterà un'infinità di altre volte in futuro. Una simile convinzione è enormemente paralizzante: se siamo preda di un destino inesorabile, perché tentare di fare qualcosa di nuovo?
Ci troviamo quindi di fronte al seguente interrogativo: perché quell'insieme di convinzioni del tutto singolare, che è necessario per il fiorire della scienza venne a trovarsi nello spirito europeo? Come abbiamo visto, la scienza moderna spiccò veramente il volo con Newton, ma le sue origini si possono trovare nell'opera di Galileo e di non pochi altri nel corso dei secoli precedenti. Siamo così condotti a cercare le radici della scienza nel Medioevo. L'origine della scienza può, anzi, essere intravista molto addietro, nei primi secoli cristiani, dai quali prenderemo l'avvio nella nostra disamina.

III. I primi secoli cristiani
Nei secoli che seguirono la nascita del cristianesimo, i cristiani non erano che una piccola setta perseguitata in mezzo ai cultori di altre religioni ben affermate. La loro intransigente avversione nei confronti delle idee pagane li rendeva sospetti agli occhi degli scienziati e dei filosofi greci. Eppure, la dottrina cristiana racchiudeva un insieme di convinzioni riguardo al mondo naturale che finalmente condussero al primo vagito vitale della scienza, nel tardo Medioevo, e alla sua successiva fioritura nel Rinascimento. Le basi di tali convinzioni erano già patrimonio degli Israeliti, in particolare la convinzione circa la razionalità del mondo.
Le convinzioni dell'Antico Testamento riguardo alla creazione erano state consolidate e meglio comprese attraverso l'insegnamento del Nuovo Testamento. A proposito della creazione, il pensiero cristiano pone l'accento non soltanto sul fatto che l'universo è stato creato da Dio a partire dal nulla e nel tempo, ma anche sul fatto che esso dipende totalmente da Dio, pur essendo da Lui del tutto distinto (CREAZIONE , III-IV). A ogni istante, l'universo nella sua esistenza è sostenuto da Dio e, senza questo potere che lo conserva nell'essere, cadrebbe nel nulla.
Nei primi secoli cristiani si ebbero appassionate discussioni sulla natura di Cristo e le eresie pullularono. Fu compito di una serie di Concili della Chiesa definire la vera natura di Cristo. Nel Concilio di Nicea (325) venne formulato un Credo che, ripreso e completato dal Concilio di Costantinopoli (481), rimane la principale professione della fede cristiana: Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium. Et in unum Dominum Iesum Christum, Filium Dei unigenitum. Et ex Patre natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero. Genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt... (DH 150)
È facile che si ripetano queste sacre parole senza rendersi pienamente conto della loro portata e ancor meno della loro importanza per la scienza. L'inizio del Credo di Nicea afferma la creazione dell'universo da parte di Dio: Factorem coeli et terrae. Uno dei modi più diffusi di concepire il rapporto fra Dio e il mondo contrario alla Rivelazione cristiana fu il  panteismo, che non faceva distinzione alcuna tra Dio e la sua creazione, ritenendo che essa facesse in qualche maniera parte di Dio. Nel mondo greco-romano l'universo era concepito come un'emanazione da un principio divino, che non era distinto dall'universo. I1 panteismo è esplicitamente escluso dal Concilio di Nicea, il quale proclamò che Gesù Cristo è il Figlio Unigenito di Dio. Cristo è generato, non creato. Soltanto Cristo fu generato e quindi condivise la sostanza di Dio; l'universo fu creato, non generato (Et in unum Dominum Iesum Christum, Filium Dei unigenitum ... Genitum, non factum). Mentre il panteismo era una delle dottrine che nelle culture antiche impedivano il sorgere della scienza, il Credo di Nicea, al contrario, spianò la strada alla sua nascita.
Parecchie cosmologie antiche ritenevano che il mondo fosse il campo di battaglia tra due princìpi eterni, il Bene e il Male. Tale dualismo era certamente un ostacolo per la scienza, perché se così fosse, il mondo sarebbe stato l'imprevedibile risultato di una lotta continua. Il dualismo venne escluso già dal Credo di Nicea (325), quando esso afferma che tutto è stato creato per mezzo di Cristo: per quem omnia facta sunt (cfr. DH 125 ).
È propria della dottrina cristiana della creazione la convinzione che Dio abbia creato l'universo con la più libera delle decisioni. Egli non era costretto né a creare, come fece, né a non creare. Ne deriva che l'universo non ha carattere di necessità: avrebbe potuto anche non essere creato, oppure essere creato in altro modo. Non è quindi possibile conoscere l'universo attraverso il pensiero puro o ragionando a priori. Si può solo sperare di arrivare a comprenderlo studiandolo e facendo esperimenti. Ecco perché la dottrina cristiana della creazione implicitamente incoraggia il metodo sperimentale, il quale resta di importanza essenziale per lo sviluppo della scienza.
Tutte le culture dell'antichità avevano una concezione ciclica del mondo ed era, questa, una delle convinzioni che ostacolavano il progresso scientifico. Il pessimismo insito nella stessa concezione ciclica fu spazzato via in modo decisivo dalla convinzione dell'unica Incarnazione del Cristo; dopo tale evento, il tempo e la storia rivelarono definitivamente la loro logica lineare, avente cioè un inizio ed una fine.
Le discussioni teologiche dei primi secoli cristiani sembrano lontane; è però indubbio che ebbero un'importanza decisiva per la storia. Oggi, chi ha sentito parlare dei valentiniani, dei marcioniti, dei nicolaiti, degli encratiti, dei borboriani, degli ofiti o dei setiani, per citarne soltanto alcuni? Pochi di più sono coloro che hanno sentito parlare degli ariani, un'eresia presente anche ai nostri giorni. Ario e i suoi seguaci erano disposti ad accettare il termine e il concetto di «unigenito» (monogenés), ma era per loro inaccettabile quello di «consustanziale» (homooúsios) , perché non si trovava nella Sacra Scrittura. Se il giovane diacono Atanasio non avesse avuto la meglio su di loro, il cristianesimo sarebbe stato completamente distrutto.
Nella Lettera ai Colossesi , s. Paolo dice che in Cristo tutte le cose sussistono e che tutto fu creato per mezzo di lui e in vista di lui (cfr. Col 1,16-17). Poiché egli presentò Cristo come il divino lógos, ne deriva di conseguenza che la creazione poteva essere interamente vista come qualcosa di razionale e di ordinato ( GESÙ CRISTO: RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL LOGOS).
Nel volgere dei primi secoli cristiani, le tendenze dei teologi furono diverse: si passava dalla posizione di Tertulliano (160-215 ca.), piuttosto diffidente nei confronti dei filosofi, a quella di coloro, più numerosi, che come il martire Giustino (100-165 ca.) o Clemente di Alessandria (150-215 ca.) ritenevano il pensiero greco un valido aiuto alla teologia, sebbene suggerissero di non studiarlo come qualcosa fine a se stesso ( PADRI DELLA CHIESA).
Perfino Agostino di Ippona (354-430) che era stato in gioventù un appassionato cultore delle arti liberali - fra le quali si annoveravano anche la geometria e l'astronomia - in seguito le apprezzò poco. Nondimeno, la sua teologia stimolava allo studio sistematico del mondo naturale, poiché rifletteva la convinzione che il mondo, dato il suo carattere sacramentale, simboleggiasse verità spirituali. Agostino fu un osservatore estremamente acuto di una vasta gamma di fenomeni naturali: spiava tutto ciò che potesse offrire anche solo un fugace barlume della Ragione che riteneva presente in tutto. Aveva un vivo interesse per la natura, in primo luogo perché essa, all'osservatore attento, rivelava Dio. Le sue riflessioni filosofiche sulla natura sono tuttora considerate tra le più profonde che siano mai state scritte (AGOSTINO , V).
All'inizio del VI secolo, Giovanni Filopono, un platonico che viveva ad Alessandria, scrisse estesamente sul mondo materiale, mostrando quanto influissero le convinzioni cristiane su quelle del mondo pagano circostante, specialmente su quelle che provenivano dall'antica Grecia. Si dedicò in modo particolare al commento di Aristotele, per il quale aveva una grandissima ammirazione, ma ogniqualvolta l'insegnamento di Aristotele non collimava con la convinzione cristiana, egli non esitava a prenderne le distanze. È particolarmente importante un passo dei suoi commentari sulla fisica di Aristotele in cui egli, a differenza del filosofo greco, affermava che tutti i corpi cadono nel vuoto alla stessa velocità, indipendentemente dal peso, e che i proiettili attraversano l'aria non a causa del movimento dell'aria, ma perché hanno ricevuto inizialmente una certa quantità di energia cinetica. Questa idea anticipa significativamente le idee presenti nelle teorie di Galileo, e denota una netta rottura con la fisica aristotelica. Filopono non fu il primo autore dell'Antichità a staccarsi da Aristotele, ma egli se ne distanziò in un modo più evidente e decisivo.
Il suo rifiuto delle idee aristoteliche nasceva dalle sue convinzioni cristiane, in particolare quelle fondate sulla dottrina della creazione. Affrontando il problema del movimento, egli poneva l'interrogativo: «Il sole, la luna e le stelle avrebbero potuto non ricevere da Dio, loro creatore, una certa energia cinetica, nello stesso modo in cui gli oggetti pesanti e leggeri ricevettero una direzione secondo la quale muoversi?». Egli credeva altresì che le stelle non sono composte d'etere, ma di materia ordinaria, e in tal modo negava la distinzione fatta da Aristotele fra materia celeste e materia terrestre.
Ciò dimostra che le convinzioni cristiane riguardanti il mondo sono incompatibili con la visione aristotelica della divinità della materia celeste e dell'eternità del movimento. Era quindi inevitabile che la diffusione del cristianesimo determinasse il tramonto della fisica aristotelica, aprendo così la via alla scienza moderna.

IV. Il Medioevo
I1 Medioevo è spesso dimenticato o giudicato negativamente. Un'analisi oggettiva dimostra però che si tratta di una delle epoche notevolmente più creative della storia umana. Per Medioevo si intende il periodo che va dall'anno 800 al 1450, considerando tardo Medioevo gli ultimi secoli, cioè l'arco di tempo dal 1200 al 1450. In questa epoca ebbero luogo in Europa Occidentale la fondazione delle  Università, l'inizio di sviluppi tecnologici senza precedenti che consentirono un miglioramento del tenore di vita, l'organizzazione di un sistema finanziario di grande estensione, ma soprattutto la nascita della scienza moderna.
Alla base di tutto ciò vi era un nuovo modo di rapportarsi al mondo materiale, una fiducia, un dinamismo e una capacità di decisione mai conosciuti prima. Fu un tempo di grande fermento intellettuale. In Europa vennero fondate varie Università e gli scritti degli antichi Greci incominciavano ad essere disponibili in traduzione. Veniva ripensata la teologia cristiana e per la sua riformulazione si ricorreva a concetti di pensatori greci, estranei in se stessi alla teologia, ma di singolare efficacia espressiva. Gli scritti di Agostino e di altri, come Filopono, creavano già rapporti nuovi con il mondo naturale.
Le due principali caratteristiche della tradizione intellettuale occidentale che rendono possibile la scienza sono l'insistenza sulla coerenza logica e la verifica sperimentale. Entrambe sono già qualitativamente presenti presso i Greci; il contributo essenziale del Medioevo, a questo riguardo, fu però quello di affinare tali caratteristiche, stabilendo tra loro un legame più reale. Ciò venne attuato soprattutto grazie all'insistenza sulla precisione quantitativa, che può essere raggiunta utilizzando la matematica per formulare le teorie, poi per verificarle non mediante semplici osservazioni, ma per mezzo di misure precise. Questo passaggio fu realizzato nel XII secolo, soprattutto da Roberto Grossatesta, ritenuto il fondatore della scienza sperimentale.
La sua opera sulla scienza sperimentale dipendeva non poco da Platone, il quale insegnava che le forme pure, che stanno dietro l'apparenza delle cose, sono per natura matematiche. Pertanto, se vogliamo dimostrarlo, le nostre teorie devono essere matematiche e il risultato dei nostri rilievi deve essere espresso in numeri. Grossatesta elaborò in modo assai dettagliato la sua teoria sul metodo scientifico, sebbene personalmente avesse fatto pochi esperimenti. Raccomandava il metodo dell'analisi e della sintesi; in altri termini, sosteneva che il problema dapprima deve essere scisso nelle sue parti più semplici e, quando ognuna è stata compresa, i risultati possono essere messi insieme per arrivare a dare la spiegazione dell'intero problema. Le osservazioni stesse e gli esperimenti possono suggerire ipotesi e anche teorie, che è possibile poi verificare oppure invalidare, confrontandole con nuove osservazioni e nuove misure.
Grossatesta applicò il suo metodo innanzi tutto ai fenomeni della luce. Credeva che la luce fosse la forma più elementare, il principio primo del movimento, e da ciò deduceva che le leggi della luce avrebbero dovuto stare alla base della spiegazione scientifica. Dio creò la luce e tutto venne dalla luce. La luce stessa, nel suo modo di propagarsi, di riflettersi, di rifrangersi segue regole geometriche, ed è il mezzo con cui i corpi più elevati esercitano la loro influenza su quelli più bassi. Di conseguenza, anche il movimento è matematico. Egli studiò l'arcobaleno e le sue critiche alle spiegazioni date da Aristotele e da Seneca furono passi proficui sulla via che conduceva a un'adeguata spiegazione dei fenomeni. Nella sua opera è implicita l'insistenza sulla misura quantitativa, e anche questa deriva dall'insistenza della Bibbia sulla razionalità dell'opera del Creatore, che tutto fissò in numero, peso e misura(cfr. Sap 11,20).
Non si dovrebbe pensare che gli esempi sopra riferiti siano caratteristici della concezione medievale del mondo. In realtà, sono piuttosto atipici trattandosi di un'età caratterizzata da una sconcertante mescolanza di profonda perspicacia e di ingenua credulità, di sano ragionamento e di fantastiche superstizioni, di analisi critica e di formule magiche. Tuttavia, nonostante una simile farragine, balza evidentissima l'insistenza sul pensiero razionale, la formulazione matematica e la verifica quantitativa, il che avrebbe alla fine condotto alla scienza moderna. Forse, agli inizi, altro non fu che un bagliore nell'oscurità, un bagliore che divenne però sempre più intenso, fino alla nascita della scienza moderna, in ordine alla quale l'esigenza della precisione quantitativa ebbe un'importanza di primo piano; e ciò fu reso possibile dal vigoroso sviluppo tecnologico che si ebbe lungo il Medioevo.
All'inizio del Medioevo furono i monasteri ad apparire come i principali centri dell'innovazione tecnologica. Essi furono innanzi tutto case di preghiera, ma la necessità di una larga autosufficienza (essi sorgevano spesso in zone molto arretrate e sottosviluppate) costringeva i monaci a dispiegare una vasta gamma di capacità nei più svariati campi: dalla costruzione di edifici all'architettura, all'agricoltura, al settore tessile, all'orologeria, alla metallurgia, all'incisione.
A partire dal XIII secolo, le Università fondate in un gran numero di centri cittadini come Bologna, Padova, Parigi, Oxford, Praga, divennero ben presto attivissimi centri di studio. Gli studenti vi si applicavano all'apprendimento di molte discipline: la grammatica, la dialettica, la retorica, la musica, la filosofia della natura, l'aritmetica e la geometria, realizzando così un connubio tra le arti liberali e meccaniche. Nell'età medievale l'università rispondeva pienamente al suo nome: essa assicurava infatti un'educazione universale ed era una struttura che comprendeva una componente scientifica e tecnologica importante.
Tale fervore di attività stimolava lo sviluppo del commercio internazionale, perché le merci erano esportate da un paese all'altro in quantità sempre maggiori. Ciò richiedeva un sistema monetario solido, che andava dal conio della moneta a un'organizzazione bancaria internazionale. Sorsero banche di grandi mercanti come i Medici a Firenze, che controllavano il commercio in tutta l'Europa. Questo favorì un accentuato miglioramento del livello di vita, sebbene questo subisse delle battute d'arresto, in certi periodi, a causa delle carestie, delle pestilenze e delle guerre.

V. Scienza e fede cristiana
Il Medioevo vide sbocciare, per la prima volta nella storia, una civiltà "cristiana". Poiché le idee cristiane andavano progressivamente impregnando lo spirito europeo costituendo così la concezione dominante riguardo al mondo e alla natura, dovremmo chiederci quale sia il concetto cristiano del "mondo materiale" e come esso si leghi a quelle convinzioni che abbiamo prima riconosciuto come necessarie per la nascita della scienza.
Il cristiano crede che il mondo è buono. Nel primo capitolo della Genesi leggiamo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» ( Gen 1,31). La materia fu ulteriormente nobilitata dall'Incarnazione, allorché «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» ( Gv 1,14).
La materia è ordinata e razionale, perché fu creata da un Dio fonte di razionalità. Nel   Libro della Sapienza leggiamo che il Creatore «ha tutto disposto secondo misura, calcolo e peso» ( Sap 11,20), una delle frasi della Bibbia maggiormente citate durante il Medioevo. L'ordine del mondo materiale è frutto di una libera scelta di Dio. Egli avrebbe potuto creare il mondo in molte altre maniere, ma scelse di crearlo così. Ciò indica l'importanza delle nostre convinzioni teologiche in rapporto al nostro modo di concepire il mondo materiale. Si attribuisce a Dio, allo stesso tempo, la razionalità e la libertà. Se si pone troppa insistenza sulla sua razionalità a scapito della sua libertà, ci si trova allora di fronte a un mondo chiuso e necessario, senza nessuna possibilità di scienza. Se, al contrario, si accentua troppo fortemente la libertà di Dio a scapito della sua razionalità, eccoci di fronte a un mondo totalmente imprevedibile, e, ancora una volta, senza alcuna possibilità di scienza.
I cristiani credono che l'ordine della natura sia accessibile alla mente umana e credono che sia possibile acquisire conoscenze sul mondo, perché Dio comandò all'uomo di dominare la terra: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gen 1,28). Ma la visione cristiana offre una nuova motivazione allo sviluppo della pensiero scientifico: infatti, attraverso le conoscenze acquisite mediante la ricerca scientifica, siamo anche in grado di progredire nella nostra conoscenza di Dio. Nella parabola dei talenti (cfr. Mt 25,14-30) Gesù sollecita a sviluppare pienamente tutte le proprie capacità, e fra queste va intesa anche l'acquisizione di una sempre più vasta e approfondita conoscenza del mondo attraverso l'osservazione e l'esperienza.
Dell'ultima condizione per lo sviluppo della scienza, la convinzione, cioè, che la conoscenza debba essere liberamente condivisa, se ne trova sempre testimonianza nel Libro della Sapienza : «Senza frode imparai e senza invidia io dono, non nascondo le sue ricchezze. Essa è un tesoro inesauribile per gli uomini; quanti se lo procurano si attirano l'amicizia di Dio, sono a lui raccomandati per i doni del suo insegnamento» (Sap 7,13-14).
Si può così mettere in luce che lungo i secoli che precedettero la nascita della scienza moderna lo spirito collettivo dell'Europa si ispirava a un sistema di convinzioni che comprendeva proprio quegli elementi particolarmente necessari allo sviluppo delle scienze. Si può a ragione affermare che vi è una continuità viva e organica tra rivelazione cristiana e pensiero scientifico, proprio perché il cristianesimo offriva le convinzioni che resero possibile la nascita della scienza moderna ed anche il clima morale che ne poteva favorire lo sviluppo.Si potrebbe tuttavia sostenere che si trattò di una pura coincidenza storica; come potremmo essere sicuri che si tratti di un'autentica influenza causale? È possibile accertarlo esaminando l'opera di alcuni filosofi del tardo Medioevo.
Nell'epoca medievale le idee prevalenti sulla natura del mondo avevano come fonte il pensiero aristotelico. Aristotele sosteneva l'eternità del mondo, l'esistenza di un ciclo universale in un mondo caratterizzato dal determinismo, perfino in ciò che concerne gli oggetti materiali. Riteneva inoltre che la materia celeste, il mondo delle stelle e dei pianeti, fosse incorruttibile, contrariamente alla materia terrestre, che poteva invece subire mutamenti. Tali convinzioni, di fatto, impedirono lo sviluppo di un autentico pensiero scientifico. Perché la scienza potesse svilupparsi nella sua forma moderna, fu necessario sbarazzare il campo dal pesante ingombro dell'aristotelismo.
Il prestigio di Aristotele era tale che l'insegnamento dei filosofi delle scuole medievali consisteva essenzialmente nel commento delle sue opere. Eppure, alcuni dei princìpi di Aristotele erano incompatibili con la fede cristiana e i filosofi non esitavano a scostarsene quando sembrava loro necessario. Sorgevano così accese discussioni su diversi argomenti, in particolare su quelli che riguardavano la creazione del mondo e il movimento dei corpi. Nel 1277 il Vescovo di Parigi, Etienne Tempier giudicò necessario condannare 219 proposizioni filosofiche ritenute contrarie alla fede cristiana. Ciò comportò una svolta nella storia del pensiero perché le successive speculazioni filosofiche sul movimento furono orientate verso una direzione che condusse al tramonto della fisica aristotelica, aprendo così la via alla scienza moderna.
Uno di questi filosofi, Giovanni Buridano (1290-1358 ca.), si interessava in modo particolare alla natura del movimento. Si tratta del problema fondamentale della fisica: una vera scienza, fin dal suo inizio, non può che prendere avvio da esso ( MECCANICA). In piena coerenza con la sua fede nella creazione, Buridano scrisse che: «Dio, creando il mondo, collocò ognuna delle sfere celesti come gli parve bene, e, nel far ciò, impresse loro un impulso che permise alle sfere di muoversi senza che Egli dovesse ancora intervenire, eccezion fatta per l'influenza generale mediante la quale Egli prende parte, come co-agente, a tutto ciò che si produce». Si può qui ravvisare una chiara rottura con Aristotele, che sosteneva essere continua l'azione dell'agente per l'intera durata del movimento. Quello che Buridano chiamava "impulso", venne in seguito precisato nel concetto di movimento, e l'idea espressa nel passo citato diventò la prima legge del moto di Newton. Gli studi di Buridano ebbero una larga diffusione e le sue idee furono conosciute in tutta l'Europa, in particolare da Leonardo da Vinci e dagli scienziati del Rinascimento.
La fede cristiana nella creazione del mondo da parte di Dio minò anche la nettissima distinzione fatta da Aristotele tra materia celeste e terrestre. Dal momento che entrambe sono create da Dio, perché dovrebbe esservi una differenza? Ciò permise a Newton di comprendere che la forza che attira una mela facendola cadere sulla terra è la stessa che mantiene in orbita la luna.
Uno dei fattori vitali per lo sviluppo di ogni scienza è la convinzione che si possa costruire nel mondo una catena causale di fatti, cioè l'idea che ogni avvenimento sia il preciso risultato di avvenimenti precedenti. Solo in tal modo è possibile realizzare una corrispondenza fra le verifiche sperimentali che noi possiamo fare e la bontà delle nostre teorie, pur ammettendo un certo margine di incertezza. Un corollario che ne deriva è che, se vogliamo provare la validità delle nostre teorie, dobbiamo fare delle verifiche con la maggior precisione possibile. L'insistenza sulla precisione è essenziale per il progresso della scienza.
Ne abbiamo un esempio nello studio di Keplero (1571-1630) sull'orbita del pianeta Marte ( KEPLER , III). Erano state compiute da Tycho Brahe certe misurazioni estremamente precise sulla sua posizione, senza dubbio le più precise che si potessero fare prima dell'invenzione del telescopio. Keplero si prefisse di scoprirne l'orbita. Sulla scia di Aristotele, credeva che l'orbita fosse circolare, come conviene alla materia celeste incorruttibile.Scoprì che, in effetti, è quasi circolare, ma sebbene si dedicasse alla sua ricerca con la più grande diligenza, non riuscì a far corrispondere i suoi risultati alle misure di Tycho. Giunse a scoprire un'orbita circolare che corrispondeva con i dati solo all'incirca entro dieci gradi d'arco, ma non entro due, come era richiesto dall'esattezza delle misure. Molti avrebbero detto che ci si poteva accontentare e sarebbero passati oltre. Ma questo non era lo stile di Keplero, il quale era persuaso che la coincidenza dovesse essere esatta, salvo qualche incertezza dovuta alle misure. Così, insistette nella sua ricerca per anni, finché si rese conto che non si sarebbe potuto mai far coincidere perfettamente l'orbita osservata con un cerchio. Allora provò con un'ellisse e l'orbita ne riuscì perfettamente coincidente. Fu come aprire un varco che rese possibile la ricerca di Newton sulle orbite dei pianeti, ricerca mediante la quale questi dimostrò, partendo dalla sua teoria della dinamica celeste, che le orbite planetarie dovevano essere in realtà necessariamente ellittiche.
Questa tappa di vitale importanza per lo sviluppo della scienza poté essere raggiunta, come abbiamo più volte osservato, grazie alla ferma convinzione di un ordine insito nella natura. Ciò spinse  Alfred N. Whitehead (1861-1947) a dire nelle sue Lowell Lectures su La scienza e il mondo moderno (1925) che «il Medioevo fu un lungo tirocinio della mentalità dell'Europa occidentale nel senso dell'ordine». E, come se ciò non bastasse, aggiunse che la cultura medievale è stata determinante per la conformazione della mentalità occidentale perché ha favorito «la fede inespugnabile che ogni evento particolare può essere correlato, in modo perfettamente definito, ai suoi antecedenti e fungere da esempio di princìpi generali. Senza questa fede l'enorme lavoro degli scienziati sarebbe disperato. È questa fede istintiva, vivamente sostenuta dall'immaginazione, che costituisce il principio motore della ricerca: v'è un segreto, e questo segreto può essere svelato» (tr. it. Torino 1979, p. 30). Chiedendosi poi come mai tale convinzione fosse così saldamente radicata nello spirito europeo, ne concludeva che la fede nella possibilità di una scienza, fede che precedette lo sviluppo della teoria scientifica moderna, deriva inconsciamente dalla teologia medievale.
Ci si potrebbe domandare se l'espressione "conseguenza inconscia" (inconscious derivative) impiegata da Whitehead sia il termine più appropriato, dal momento che molti di quegli uomini del Medioevo erano consapevoli ed espliciti circa il fatto che la loro fatica di studiosi metteva in luce le opere del Creatore. Anzi, alcune convinzioni chiaramente cristiane ebbero un ruolo decisivo nel rendere possibile la nascita della scienza moderna. La concezione di un universo ciclico, ad esempio, paralizzante per il nascere e il progredire della scienza, fu scalzata via in modo decisivo dalla fede cristiana nell'unicità dell'Incarnazione. Grazie proprio a questo evento, la storia cessò di essere un'infinita serie di cicli che si ripetevano, e divenne una storia lineare con un inizio e una fine (TEMPO, IV). G.K. Chesterton lo sottolineava così a proposito della dottrina dell'eterno ritorno: «Sono davvero fiero di osservare che essa fiorì prima del sorgere e del diffondersi del cristianesimo e ritorna quando il cristianesimo viene dimenticato».

VI. Galileo
I filosofi aristotelici consideravano l'universo come un organismo vivente ripieno di finalismi e lo analizzavano in termini di essenze e di cause. Galileo, sulla scia di Euclide e di Archimede, lo concepiva come formato di oggetti che si muovono secondo leggi matematiche, le quali si possono scoprire con l'esperimento.Pertanto studiò in modo nuovo il problema del movimento, cercando non le sue cause, ma le pure descrizioni matematiche del modo in cui gli oggetti si muovono. Galileo doveva superare la generale convinzione secondo cui i Greci avrebbero conseguito il vertice della conoscenza in tutte le arti e in tutte le scienze, tanto che ogni problema poteva essere studiato ricorrendo alla loro autorità. L'idea del progressivo ampliarsi e approfondirsi della conoscenza, tanto diffusa oggi, era evidentemente inesistente. La natura ha parlato per bocca di Aristotele e il nostro compito è di ascoltare e interpretare. Galileo, però, credeva che il Libro della natura fosse scritto in linguaggio matematico e che noi lo potessimo leggere facendo osservazioni e compiendo esperimenti.
Già Keplero si era reso conto dell'importanza della esattezza numerica per l'osservazione dei cieli e aveva formulato le leggi del movimento dei pianeti. Galileo fece la stessa cosa per i movimenti sulla superficie terrestre. Studiò il modo in cui le sfere rotolavano su un piano inclinato e il modo in cui i proiettili fendevano l'aria, e poté esprimere i risultati conseguiti in semplici leggi che mettevano in relazione la posizione, la velocità, il tempo.
I concetti fondamentali della dinamica furono stabiliti qualitativamente da Buridano e dai suoi successori e sollevarono molte discussioni sul movimento di caduta dei corpi e su quello dei proiettili, in particolare riguardo al rapporto tra la distanza di caduta e il tempo, nel primo caso, e alla traiettoria seguita dai proiettili, nel secondo. Concetti come quello di movimento e di energia raggiunsero la loro precisione attuale solo dopo secoli di studio.
Galileo comprese l'importanza della precisione delle misure, ma si trovava in una situazione ben più difficile di quella di Keplero. Lunghi periodi, come quelli della rotazione dei pianeti, possono essere misurati solo con una precisione relativa quando si dispone di strumenti primitivi, ma è ancor più difficile misurare con precisione il tempo immensamente più breve che impiega un corpo a cadere da una determinata distanza. Secondo un aneddoto probabilmente apocrifo, Galileo si servì delle pulsazioni del suo polso per misurare il periodo di oscillazione della lampada della cattedrale di Pisa, e scopri che esso non dipendeva dall'ampiezza. Per la caduta di un corpo è necessaria una misura più precisa e Galileo usò un sottile getto d'acqua che usciva da una grande giara, pesando quanta ne era sgorgata durante la caduta. In seguito accrebbe l'esattezza della sua misurazione facendo rotolare una sfera su un piano inclinato, invece di lasciarla cadere liberamente: in questo modo il tempo di caduta era più lungo e lo si poteva misurare più facilmente.
Mediante tali esperimenti Galileo dimostrò che la distanza percorsa era proporzionale al quadrato del tempo. Questa legge vale anche per la caduta libera. Galileo arrivò ad una valutazione approssimativa di quello che oggi chiamiamo il movimento dei proiettili e scoprì che la gittata è massima quando l'angolo di elevazione della pistola è di 45°. I1 famoso aneddoto che vuole che Galileo abbia gettato due pesi dalla sommità della Torre Pendente di Pisa è apocrifo; comunque, lo scienziato dimostrò che il tempo di caduta è indipendente dalla massa, contrariamente a quanto sostenuto da Aristotele.
Come abbiamo visto parlando di Keplero, il progresso della scienza dipende spesso dalla precisione delle misure. Quelle di Brahe erano le più precise possibili mediante l'osservazione diretta. La tappa successiva, l'invenzione del telescopio, è dovuta principalmente a Galileo. Le lenti, nel corso dei secoli, erano state usate negli spettacoli. Keplero intuì il loro singolare potere, e i primi telescopi che ingrandivano tre o quattro volte gli oggetti furono realizzati nei Paesi Bassi e in Francia. Galileo sentì parlare di questi strumenti e riuscì a costruire un cannocchiale che ingrandiva trenta volte, ed era quindi ben più potente di tutti gli altri allora esistenti. Dopo che osservazioni di oggetti lontani sulla terra l'ebbero convinto dello scarso apporto che il suo telescopio poteva dare alla conoscenza, decise di puntarlo verso il cielo e ben presto fece una serie di importanti scoperte. Osservò le macchie solari e le montagne lunari, imperfezioni insospettate in quelle che, secondo Aristotele, erano sfere perfette. Osservò vari satelliti del pianeta Giove e scoprì che essi compivano il loro movimento di rivoluzione intorno al pianeta. Era precisamente come un sistema solare in miniatura e costituiva una sorta di convalida della concezione copernicana del sistema solare.
La ricerca di Galileo ebbe un'importanza decisiva sotto parecchi aspetti. Egli sostituì le speculazioni qualitative e non verificabili degli aristotelici con un ragionamento matematico quantitativo sorretto da una precisa verifica sperimentale. Dimostrò che gli strumenti scientifici, come il telescopio, potevano essere utilizzati per accrescere la potenza dei nostri sensi in maniera affidabile. Criticò l'uso di concetti non ben definiti e non verificabili, come quello di "perfezione assoluta" e dimostrò che il loro posto non è nella scienza. Sostituì i termini vaghi della lingua corrente con una nuova terminologia scientifica, nella quale a ogni concetto è attribuito un preciso significato matematico e verificabile. Lo spirito della nuova scienza era ottimista. Galileo, infatti, non dubitava che le antiche incomprensioni e i vecchi pregiudizi sarebbero stati vinti, i segreti della natura svelati e il mondo trasformato.
In tal modo, con Galileo la fisica aristotelica, già minata da non pochi secoli, giunse al suo tramonto. I filosofi aristotelici faticarono a darsi per vinti. Presentarono varie obiezioni apparentemente plausibili all'opera di Galileo, obiezioni che a poco a poco, però, si rivelarono false o insostenibili. Gli argomenti di Galileo a sostegno del movimento della terra intorno al sole erano certamente inesatti, per esempio quelli riguardanti l'origine delle maree, e dovette passare qualche secolo perché fossero corretti. Galileo comprese tuttavia la fondamentale importanza della teoria copernicana e riuscì a confutare la maggior parte degli argomenti che si adducevano per dimostrarne la falsità. Ciò rese possibili gli ulteriori sviluppi della scienza, grazie ai quali si giunse alla prova definitiva della validità della teoria copernicana ( COPERNICO, IV.1).
Galileo comprese che, se la nuova scienza voleva trionfare, doveva essere sostenuta dalla Chiesa. Contava molti amici nelle alte sfere ecclesiastiche, i quali erano tutt'altro che indifferenti ai suoi studi. Tuttavia, i suoi avversari aristotelici poterono cogliere nella Sacra Scrittura dei passi che sembravano contraddire il sistema eliocentrico, fra cui il notissimo passo di Giosuè sul sole che veniva fermato (cfr. Gs 10,12). Galileo pensava che la Sacra Scrittura utilizzasse spesso il linguaggio della vita quotidiana, senza prendere posizione sulle teorie scientifiche (SACRA SCRITTURA, I). Era pertanto inevitabile che lo scontro tra Galileo e gli aristotelici si trasferisse sul piano teologico, in un periodo molto delicato per la Chiesa , a causa delle conseguenze della Riforma protestante. In quel momento critico per lo sviluppo della scienza, il dibattito sulla natura della scienza, sul suo metodo e sulla validità delle sue conclusioni nel contesto dell'insegnamento della Chiesa, assunse un'importanza rilevantissima. E la assume anche ai nostri giorni.

VII. La scoperta dell'origine cristiana della scienza
Le radici cristiane della scienza moderna sono poco conosciute. Chi ne mise per primo in luce l'evidenza fu il fisico francese Pierre Duhem (1861-1916). Fisico teorico dedicatosi al campo della termodinamica, Duhem aveva sempre avuto un vivo interesse per la storia della fisica. Gli fu chiesto di scrivere una serie di articoli sulla storia della meccanica e nel primo, com'era naturale, trattò delle idee degli antichi Greci. Analogamente alla maggior parte degli storici delle scienze della sua epoca, egli pensava di sorvolare su quanto accadde durante il Medioevo per arrivare decisamente ai giganti del Rinascimento. Ma Duhem era un uomo scrupoloso, che non si accontentava di fonti di seconda mano. Trovò oscuri riferimenti a un'opera anteriore e, seguendoli, soprattutto negli archivi di Parigi, scoprì il lavoro di Buridano, del suo allievo Nicola Oresme, e quelli di molti altri studiosi medievali, riconoscendone il contributo assai significativo all'origine delle scienze moderne.
Duhem scrisse due volumi sulla storia della meccanica, tre su Leonardo da Vinci, poi incominciò la sua opera più importante, il Système du Monde. Scrivendo sulla dottrina del Grande Anno, Duhem vi affermava: «Alla costruzione di questo sistema contribuirono tutti i discepoli della filosofia ellenica - peripatetici, stoici, neoplatonici -; a questo sistema Abu Masar offrì l'omaggio degli Arabi; i rabbini più illustri, da Filone di Alessandria a Maimonide, l'avevano accettato. Per condannarlo e gettarlo a mare come una mostruosa superstizione, dovette venire il cristianesimo».
I1 primo volume del Système du Monde , dedicato all'epoca dei Greci, fu pubblicato nel 1913 e venne grandemente esaltato da George Sarton, fondatore ed editore del giornale "Isis", che disse di attendere con impazienza la pubblicazione del secondo volume. Quando però lo lesse, comprese che ciò che il fisico francese aveva scoperto era del tutto inconciliabile con le sue tendenze secolariste. Duhem morì prematuramente nel 1916, quando erano stati pubblicati solo i primi cinque volumi del Système du Monde. Lasciava i manoscritti degli altri cinque volumi, ma questi incontrarono una grande opposizione e la loro pubblicazione dovette attendere ancora quarant'anni. La sua opera resta di fatto ancora poco conosciuta al di fuori di un ristretto circolo di specialisti.
Va però osservato che a partire dagli anni '30 del XX secolo, successivamente alle suggestioni di Whitehead prima ricordate, numerosi altri autori hanno offerto riflessioni sulle origini cristiane della scienza moderna. Fra questi, vanno ricordati gli studi storici di Alistair Crombie, Stanley Jaki e Olaf Pedersen, ed i contributi di molti altri autori. Sono studi che meritano di essere conosciuti soprattutto dai cristiani, in particolare da coloro che si dedicano all'educazione dei giovani, i quali spesso ascoltano ripetere molte voci che ci sarebbe un'opposizione di fondo tra scienza e fede cristiana.


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lunedì, 01 marzo 2010

La scienza

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 La scienza, al suo inizio, si deve a uomini che amavano
il mondo. S’accorsero della bellezza delle stelle e del
mare, dei venti e delle montagne. Siccome li amavano, i
loro pensieri si fermarono su di essi, e cercarono di
capirli più intimamente che non permettesse una
semplice contemplazione superficiale. […] Ma, a passo a
passo, come si è sviluppata la scienza, l’impulso
dell’amore, che l’originò, è stato ostacolato sempre più,
mentre  l'impulso del potere, che da principio era un
semplice seguace di campo, gradualmente ha usurpato
il comando, a causa del suo impensato successo. Colui che amava la natura è stato deluso, il tiranno della natura è stato ricompensato…Quando d’altro canto la scienza si considera come una tecnica per la trasformazione di noi stessi e di quanto ci sta attorno, vediamo che ci dà un potere del tutto indipendente dalla sua validità metafisicaCosì solo in quanto noi rinunciamo al mondo come amanti, possiamo conquistarlo da tecnici…Non appena si comprende l’insuccesso della scienza considerata come metafisica, il potere conferito dalla scienza come tecnica si otterrà solo da qualcosa di analogo alla adorazione di Satana, cioè dalla rinuncia dell’amore

(B. Russell, La visione scientifica del mondo, 1931)


***

“Io non credo che la scienza per sé sia fonte
adeguata di felicità, né credo che la mia
mentalità scientifica abbia contribuito granchè
alla mia felicità, che io attribuisco al fatto che
vado di corpo due volte al giorno, con
immancabile regolarità. La scienza di per se
stessa mi sembra neutra, essa, cioè, accresce il
potere degli uomini per il bene come per il male.
Una valutazione dello scopo della vita è cosa
che va aggiunta alla scienza se si vuole che
essa rechi felicità.”
(B. Russell, in una lettera a W. Norton)

***
Ad ogni accrescimento della conoscenza e della tecnica
la saggezza diviene più necessaria, poiché ognuno di
questi accrescimenti aumenta la nostra capacità di fare
del male, se i nostri scopi non sono saggi.”
(B. Russell, Ritratti della memoria)


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sabato, 27 febbraio 2010

La mela che non si può prendere,

 Majorana e l'atomica.

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 Di Francesco Agnoli (del 19/12/2007 in Scienza,)
La retorica sulla libertà di ricerca scientifica è uno di quegli slogans banali, che almeno la conoscenza del passato dovrebbe permetterci di evitare.
Pensiamo ad esempio cosa avvenne con la bomba atomica. Durante la seconda guerra mondiale sembrò ad un certo punto che qualcosa potesse risolvere il conflitto: il primo a ipotizzare l'uso di una scoperta scientifica, in sé buona, la fissione nucleare, per un uso malvagio, la creazione della bomba nucleare, sembra sia stato Hitler, al quale poi, però, si accodarono in tanti.
Pochi anni prima uno scienziato italiano, Ettore Majorana era forse stato uno dei primi ad intuire i pericoli insiti in una scienza priva di senso del limite. Era, costui, un allievo di Enrico Fermi, il futuro padre dell'atomica. Si racconta che i due facessero a gara a risolvere complicatissimi calcoli: Majorana, considerato dal maestro un genio al pari di Galilei e Newton, a memoria, Fermi col calcolatore, alla lavagna o su un foglio. Sembra addirittura che Majorana avesse compreso ed illustrato agli amici dell'università di Fisica, prima di Heisenberg, "la teoria che da Heisenberg prese il nome, del nucleo fatto di protoni e neutroni". Poi Majorana ed Heisenberg divennero buoni amici, finchè nel 1938 lo scienziato italiano scomparve.
La sua morte fu presentata come un semplice suicidio. Ma pochi in realtà ci credettero: fu convinzione diffusa infatti che Majorana fosse fuggito, forse in un convento, perché angustiato dalle terribili conseguenze che aveva intuito potessero derivare dalle recenti scoperte sull'atomo. Sono ipotesi, suffragate da molti indizi, anche se non da certezze. Eppure ci dicono della "coscienza religiosa" che fu propria di un uomo di genio, di uno scienziato come Majorana. Quanto ad Heisenberg, invece, vi sono notizie indiscutibili: era senz'altro il fisico da cui Hitler si aspettava qualcosa.
 Racconta Leonardo Sciascia, nel suo "La scomparsa di Majorana", che i fisici che lavoravano all'atomica in America "credevano fino all'ossessione" che anche Heisenberg stesse facendola: "ma Heisenberg non solo non aveva avviato il progetto della bomba atomica, ma aveva passato gli anni della guerra nella dolorosa apprensione che gli altri, dall'altra parte, stessero per farla". Antonino Zichichi, già presidente della World Federation of Scientists, ci dà altre preziose informazioni: "Il primo fisico che immaginò l'unificazione dei fenomeni fondamentali (M.P.Bronstein) fu condannato a morte da Stalin in quanto non aveva voluto piegarsi alla sua ideologia. Il padre della fisica quantistica, Max Planck (fervente cattolico, ndr), ebbe il figlio ucciso dai nazisti come ritorsione perché non aveva voluto collaborare al progetto per la prima bomba nucleare della storia. Il padre della superfluidità, P. Kapitza, visse sul lastrico con la famiglia per aver rifiutato di dirigere il progetto sovietico per la prima bomba a fusione nucleare". Vi furono dunque scienziati che ritennero che non tutto ciò che era fattibile era di per se stesso buono e giusto. Altri, invece, agirono (salvo poi, magari, pentirsene amaramente, come Oppenheimer), da tecnici di laboratorio: fecero la bomba atomica e diedero le istruzioni per l'uso.
Chiesero infatti che "l'obiettivo fosse una zona del raggio di un miglio e di dense costruzioni; che ci fosse una percentuale alta di edifici in legno; che non avesse fino a quel momento subito bombardamenti, in modo da poter accertare con la massima precisione gli effetti…".
Conclude Sciascia: "Chi sia pur sommariamente conosce la storia dell'atomica, è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero. E non per il fatto che rispettivamente non la fecero o la fecero ma precipuamente perché gli schiavi ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia; mentre i liberi senza alcuna remora, e persino con punte di allegria, la proposero, vi lavorarono, la misero a punto e, senza porre condizioni o chiedere impegni la consegnarono ai politici e ai militari". Qualcuno potrebbe dire che il paragone implicito, tra atomica ed ingegneria genetica senza limiti, è eccessivo. E' vero: è assai più grave violentare la natura dell'uomo, modifìcando le modalità stesse del nascere, che inventare la bomba atomica in tempo di guerra! Teologicamente, però, il problema è ancora quello dell'albero del Genesi: c'è una mela che non si può prendere; c'è un limite, buono, che è intrinseco alla nostra condizione di esseri relativi. Un limite che paradossalmente non ci limita, ma ci apre alla Verità.


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Solo coloro che pensano a metà

 diventano atei

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 “la scienza conduce ad un punto oltre il quale non ci può più guidare”, ma oltre il quale l’uomo deve comunque innalzarsi: “non è certo un caso-scriveva- che proprio i massimi pensatori di tutti i tempi siano stati anche nature profondamente religiose”, perché in veritàsolo coloro che pensano a metà diventano atei; coloro che vanno a fondo col loro pensiero e vedono le relazioni meravigliose tra le leggi universali, riconoscono una Potenza creatrice”.
 Planck, padre della fisica dei quanti,
 Francesco Agnoli  Il Foglio, 14/1/2010

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Galileo Galilei

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Il caso Galileo Galilei stando ai fatti: i suoi guai, più che da parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.

"Eppur si muove": storia di un falso
Stando a un'inchiesta dei Consiglio d'Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase "sicuramente storica", un suo "Eppur si muove!", fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici. Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest'ultimo falso: la "frase storica" fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.

Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo "vero" (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i quali c'erano uomini di scienza non inferiore alla sua - assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere. Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un'altra che Galileo giudicava "da imbecilli": era, invece, quella giusta. L'alzarsi e l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta all'attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.

Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio non si opponeva affatto all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco. In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua "scommessa" copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente - sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.

Niente frasi "titaniche" (il troppo celebre "Eppur si muove!") comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un "caso" che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l'incompatibilità tra scienza e fede.

La condanna: continuare il suo lavoro
Torture? carceri dell'Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il gioiello".

Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze - che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa "pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall'ergersi come difensore della ragione contro l'oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: "In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".

Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell'indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l'8 gennaio 1642, nove anni dopo la "condanna" e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: "Gesù!".

I suoi guai, del resto, più che da parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.
 Vittorio Messori, da Uomini, storia, fede (BUR 2001)

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scienza - articoli, storia

mercoledì, 24 febbraio 2010

Galileo:
La verità sul processo
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Dopo il processo a Gesù, quello a Galilei è forse il più conosciuto e dibattuto nella storia. Conosciuto, in realtà, molto male, se è vero come è vero che per tantissime persone esso segna un contrasto insanabile tra fede e scienza, tra Chiesa e rivoluzione scientifica. Cercherò di dimostrare, analizzando la vita e il pensiero del grande Galilei, che i luoghi comuni, ribaditi con tenacia dai calunniatori, e ben digeriti dall'abbondanza dei ri-masticatori di frasi fatte e di pensieri già pensati, hanno avuto la capacità, nell'immaginario collettivo, di ribaltare sostanzialmente i termini del discorso. Che, in breve, sono questi: anzitutto Galilei fu sempre un cristiano, non per comodità, ma per convinzione personale; in secondo luogo il suo straordinario magistero è dovuto al suo appartenere ad una cultura, quella italiana, profondamente cattolica, che dopo oltre mille e cinquecento anni stava ancora affrancandosi, piano piano, dalle favole politeiste ereditate dal paganesimo; infine Galilei divenne il "divin uomo", lo scienziato famoso e ben pagato che fu, in buona parte grazie proprio alla Chiesa, che accolse e consacrò tutte le sue scoperte più importanti, nessuna esclusa, e che entrò in conflitto con lui, nelle persone di Roberto Bellarmino e Urbano VIII, soprattutto per questioni personali e di metodo, più che scientifiche, non senza qualche torto, e qualche ragione. Ma andiamo con ordine.
E' bene anzitutto partire dal quadro storico in cui Galilei va inserito. L'Italia, sede del papato, è anche la patria delle università, dei Comuni, del rinascimento, dell'arte, della rinascita della medicina; è il luogo di studio e di formazione del canonico Copernico, e di scienziati come Vesalius ed Harvey…. La religione dominante è appunto quella cattolica, che esalta Dio come Logos, come Ragione, propone la creazione come qualcosa di "buono", di bello, osteggia magia e astrologia, sempre rinascenti sull'onda del pensiero pagano, ed esclude dal creato la presenza di divinità immanenti, elementi spiritali di origine panteista.
La scienza moderna dunque non nasce già calzata e vestita, d'improvviso, come un fiore nel deserto, come Atena dalla testa di Zeus. Il pensiero di fondo dell'Europa cristiana è quello di Sant'Agostino: "Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione…Lontano da noi il credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non potremmo neppure credere se non avessimo un'anima razionale".
Contemporaneamente, dappertutto nel mondo, vi sono credenze politeiste, irrazionali, magiche, animiste, che di per sé, da sole, escludono la possibilità stessa del concetto di legge fisica. Nel buddismo, ad esempio, il mondo è una grande illusione, e così pure la vita e l'esistenza: in questo contesto, non può certo nascere un pensiero scientifico, che indaghi la realtà, le sue leggi. Analogamente, mentre in Africa gli stregoni invocano la pioggia con le loro danze tribali, nella più evoluta Cina non si è "mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana" (J.Needham, citato in La vittoria della ragione, Lindau).
Galilei insomma, nasce nell'Italia cattolica, più precisamente nel comune di Pisa, nel 1564. Nel 1589, grazie all'appoggio del cardinal Francesco Del Monte, viene nominato lettore di matematica nella sua città; poi si sposta a Padova per 18 anni. Subito rivela doti straordinarie, insieme ad un carattere piuttosto difficile, che lo mette in contrasto molto spesso con i suoi colleghi universitari. Nel 1609, perfezionando uno strumento di invenzione altrui, costruisce il suo primo telescopio: lavora personalmente i vetri, e riesce ad aumentarne di continuo le prestazioni. Inizia così l' avventura intellettuale del grande pisano. Galilei, qui sta la novità, punta il cannocchiale al cielo, e con la pubblicazione del Sidereus nuncius rende edotto il mondo delle sue scoperte: il carattere scabro ed irregolare della superficie lunare, costellata di rilievi e avvallamenti; un immenso numero di stelle oltre a quelle conosciute; quattro satelliti intorno a Giove.
Cosa c'è di anti-cristiano in queste scoperte? Nulla. Di anti-pagano? Tutto. Infatti la cosmologia dell'epoca è ancora quella aristotelico-tolemaica: i cristiani, soprattutto i commentatori del Genesi, la hanno spesso criticata, ma senza proporre nessuna alternativa utile. Per questo, nel XVI secolo, i dotti credono ad una Luna e a pianeti cristallini, perfetti, lisci, di quinta essenza, divini. Per costoro, come per Aristotele, esistono due fisiche: quella terrestre, e quella celeste. Anche questa visione dualista era stata già combattuta da cristiani come Ambrogio, Grossatesta, e tanti altri, i quali facevano questo semplice ragionamento: un solo Creatore, un solo legislatore universale, dunque una sola fisica.
Nel suo Esamerone, più di mille anni prima, Ambrogio spiegava che "in principio Iddio Dio creò il cielo e la terra", "simultaneamente", con un "atto fulmineo della sua volontà", non come due entità qualitativamente diverse, ma come creature procedenti dallo stesso Creatore. E accennando ad Aristotele affermava: "Non concludono nulla dunque, coloro che per sostenere l'eternità del cielo hanno ritenuto di dover introdurre un quinto elemento etereo" (la quinta essenza, ndr), perché cielo e terra, avendo iniziato ad esistere nel tempo, sono entrambi "corruttibili".
La reazione al Sidereus Nuncius, e cioè all'unificazione di fisica terrestre e fisica celeste, che è la grande e imperitura conquista del pisano, non si fa attendere. Chi si oppone? Gli astrologi, i medici che legano le malattie agli influssi astrali, matematici di Parigi, Bologna, Padova…cattedratici che non vogliono abbandonare la propria visione del mondo, e il proprio prestigio. Nessuna scomunica religiosa, o d'ambito cattolico, di fronte ad una constatazione che mette in crisi l'idea di una divinità immanente, ma che risulta da subito perfettamente concorde con quella di un Dio trascendente. "A Pisa, a Firenze, a Bologna, a Venezia, a Padova, molti, o mio Keplero, hanno visto, ma tutti tacciono ed esitano". Così scrive Galilei a Keplero, mentre l'aristotelico Cesare Cremonini si rifiuta di guardare nel cannocchiale, invocando l'ipse dixit del pagano Aristotele. Al disappunto e all'incredulità di molti si aggiunge presto l'invidia, con la nomina di Galilei, da parte di Cosimo II de Medici, a Primario Matematico dello studio di Pisa, con uno stipendio straordinario di 1000 scudi all'anno.
Ma chi consacrerà le scoperte e la figura di questo scienziato, emergente ma anche, da subito, in grande difficoltà e con tanti avversari "laici"? L'ordine dei Gesuiti. E' Galilei stesso, dopo le sue scoperte, a volerle patrocinare a Roma, presso la prestigiosa "Accademia di matematica" dei Gesuiti del Collegio Romano. In quest'epoca i gesuiti sono un ordine forte, diffuso in tutto il mondo, con immensi meriti in campo scientifico. Padre Matteo Ricci, ad esempio, è colui che negli stessi anni introduce la scienza occidentale in Cina, facendo conoscere a quel paese l'orologio automatico, la matematica, la geometria e la cartografia ai cinesi che la terra è tonda e non quadrata. Di poco posteriori sono i gesuiti Martino Martini, autore nel 1655 del Novus Atlas Sinensis, il primo Grande Atlante della Cina, ed Eusebio Chini, un altro missionario gesuita, esploratore, cartografo, che avviò lo sviluppo civile ed economico delle terre che oggi costituiscono lo Stato messicano del Sonora e quello americano dell'Arizona, insegnando agli indigeni l'arte della coltivazione, dell'allevamento, dell'irrigazione, della distillazione, della lavorazione del ferro…
I gesuiti sono viaggiatori, missionari, instancabili costruttori di scuole, abili matematici ed astronomi. A ragione Galilei vuole passare da loro. Ed infatti è il matematico gesuita Cristoforo Clavio a tributargli "gran lode" "in quanto primo che abbi osservato questo". "La dichiarazione del Clavio, osserva il Camerota, segnò un punto decisivo nella campagna condotta da Galileo a sostegno delle straordinarie scoperte dei biennio 1609-1610. L'indiscutibile competenza scientifica della scuola gesuita ed il grande prestigio personale del suo principale esponente contribuivano, infatti, a garantire in modo estremamente autorevole la piena attendibilità dei riscontri telescopici galileiani. A seguito di quel pronunciamento, lo stesso Galilei, nel febbraio 1611, notava come, ormai, a dubitare dell'effettività delle 'novità celesti' fossero rimasti solo i rappresentanti del più stolido e pertinace aristotelismo" (M. Camerota, "Galileo Galilei", vol.I pag. 240, Mondadori).
Dopo questi fatti Galilei, nella primavera del 1611 viene "ricevuto dal papa Paolo V, che non volle che lo scienziato si genuflettesse ai suoi piedi" ed entra nelle grazie di cardinali e prelati romani. Tra i riconoscimenti dei gesuiti, non si può dimenticare il discorso in cui il gesuita belga Odo van Maelcote, incaricato dal Bellarmino, esalta Galilei come "uno dei più grandi astronomi del nostro tempo", e lascia addirittura intendere "l'accettazione di una prospettiva copernicana" (i gesuiti, lungi dal rimanere ancorati al sistema tolemaico, ne vedono chiaramente le mancanze, deridono "le fantasie degli antichi", e cercano, o di correggerlo, o di propendere per il modello "geo-eliocentrico" tychonico).
Il vero e proprio "trionfo romano" si conclude con l'ammissione di Galilei, probabilmente su richiesta di mons. Malvasia, all'Accademia dei Lincei, un prestigioso cenacolo segnato da un fervente senso religioso, posto sotto la protezione papale, e considerato da molti come la prima società scientifica d'Europa. Tornato da Roma con grandi onori, Galilei viene subito avversato da un "gruppo di aristotelici toscani", suoi colleghi d'università, per i quali Galilei "rappresenta un outsider, particolarmente inviso in quanto balzato rapidamente, sull'onda del successo delle scoperte astronomiche, a grandi onori" e a "generosi proventi" (idem, p. 270).
A questo punto lo scienziato pisano scopre le macchie solari, che in realtà aveva già mostrato a Roma a "molti prelati". La notizia, Phebus habet maculas, è scioccante per il Cremonini e i Peripatetici tutti, che vedono attaccata ancora una volta la loro credenza nell'immutabilità e incorruttibilità della materia celeste, e anche per tutti quei rinascimentali che, rispolverata la magia degli antichi, cercano di far rinascere un culto del sole. Per i cattolici, le macchie di Febo non comportano alcun problema teologico.
Anzi, ribadendo "il pieno riconoscimento dell'intrinseca unità di tutti i fenomeni dell'universo" e abbattendo definitivamente la separazione tra sfera celeste e terrestre, riconfermano l'idea della creazione, contrapposta ad un'idea panteista ed animista, in quell'epoca tornata di moda. Gli unici contrasti in ambito cattolico nascono tra Galilei e un bravissimo matematico ed astronomo gesuita, Christoph Scheiner, anzitutto sulla priorità di chi abbia scoperto le macchie solari (Galilei), poi su chi abbia per primo parlato dell'inclinazione dell'asse solare (Scheiner).
Nel 1612 però Galilei scrive al cardinal Conti, il quale, nella sua risposta, dichiara l'alterabilità della materia celeste "comune opinione dei Padri"; quanto al movimento di rotazione terrestre lo ritiene possibile, ed indica la posizione del teologo spagnolo Diego de Zuniga, che in un suo commentario al libro di Giobbe sosteneva "essere più conforme alle Scritture moversi la terra, ancor che la sua interpretazione non sia seguita" (idem, p.311). In questo periodo Galilei comprende che l'ultima possibilità che i suoi avversari hanno di screditarlo è quella di "buttare la cosa in politica", o meglio, in religione.
E' risaputo, infatti, che dietro i due sciocchi domenicani, il Caccini e il Lorini, che causeranno il primo "processo" a Galilei nel 1616, si muovono un gruppo di aristotelici, una vera e propria "lega antigalieliana", guidata da Lodovico Delle Colombe, che Galilei chiama "pippione" (in toscano "piccione", ma anche "coglione"). Costui era stato appunto il primo, dopo numerosi scontri in nome di Aristotele, a tirare in ballo la Scrittura contro la dottrina copernicana, come ultima ratio e per motivi evidentemente strumentali (idem, p. 313). Scrive a proposito Federico Di Trocchio: "Le indagini storiche hanno però accertato che fu un gruppo di scienziati pisani e fiorentini a suscitare il fatale scontro tra Galileo e la Chiesa, mossa che costituiva l'unica possibilità di arrestare il copernicanesimo, vista l'impossibilità di contrastarlo sul piano scientifico. L'ostilità della comunità scientifica nei confronti di Galilei fu, almeno all'inizio, generale. L'amico Paolo Gualdo gli scriveva da Padova nel 1612: 'Che la terra giri, sinhora, non ho trovato né filosofo né astrologo che si voglia sottoscrivere all'opinione di Vostra Signoria…'. I più accaniti oppositori furono però un gruppo di studiosi di Pisa e Firenze: Giorgio Coresio, professore di greco all'università di Pisa, Vincenzo di Grazia, che insegnava invece filosofia, nonché Arturo Pannocchieschi, rettore della stessa università. Altro importante membro del gruppo era Cosimo Boscaglia, professore a Pisa, prima di logica e poi di filosofia, che fu molto apprezzato da Ferdinando I e Cosimo II de' Medici. Il più agitato del gruppo era però un filosofo dilettante di Firenze, Lodovico delle Colombe, che viene descritto da un contemporaneo come un individuo 'lungo, magro, nerastro, e di fisionomia sgradevole'. Galilei lo chiamava Pippione, che in toscano vuol dire sia 'piccione' che 'coglione', nel duplice senso, sia letterale che metaforico. Tutto il gruppo veniva perciò indicato nelle sue lettere come la 'lega del Pippione'".
Tra i motivi di avversione a Galilei vi è senza dubbio anche l'invidia: "I risultati clamorosi ottenuti con le osservazioni rese possibili dal cannocchiale e la pubblicazione del 'Sidereus nuncius' avevano reso Galileo rapidamente famoso, sicché per tornare dall'università di Padova a Pisa aveva preteso delle condizioni di privilegio. Per essere libero di fare ricerca, non aveva infatti alcun obbligo di insegnamento: il suo stipendio veniva però pagato con i fondi dell'università e si trattava, oltretutto, di uno stipendio superiore a quello degli altri professori, i quali erano tenuti, oltre a insegnare, anche ad abitare a Pisa, obbligo dal quale Galilei era esentato. Questi e altri privilegi, accordati a chi si contrapponeva all'ortodossia scientifica del tempo, apparivano ampiamente ingiustificati al mondo accademico pisano". (Federico Di Trocchio, "Il genio incompreso", Mondadori).
Che i due domenicani, il Lorini e il Caccini, siano strumenti della suddetta lega e del Delle Colombe, lo testimonia anche una lettera di Matteo Caccini, al fratello domenicano: "Ma che leggierezza è stata la vostra, lasciarvi metter su, da piccione o da coglione, a certi colombi! Che havete a pigliarvi gl'impicci d'altri?". In un'altra missiva, Matteo rivela di aver appreso che "la sua (di Tommaso) è stata un a carriera fatta da que' colombi, et io la tengo per verissima" (Camerota, p.325-326).
I primi guai a Galilei nascono dunque da baruffe di scienziati, di colleghi universitari, aristotelici o invidiosi, tramite la sciocca ingenuità di domenicani ignoranti e facilmente manipolabili, è bene ripeterlo, dagli scienziati e dagli intellettuali dell'epoca. La tattica adottata, in extremis, dal Dalle Colombe e dai suoi alleati, perdenti sino a questo momento grazie al ruolo dei Gesuiti, si rivela immediatamente efficace. La polemica sulla presunta inconciliabilità tra copernicanesimo e Scritture esplode per una serie di motivi che non è facile comprendere del tutto. Certo non è un caso che a prestarsi al gioco, non senza violente polemiche con alcuni confratelli, siano due dominicani: siamo nell'epoca in cui altri due domenicani, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, sostengono l'eliocentrismo "copernicano", ma in nome delle loro convinzioni magiche ed astrologiche, al di fuori di qualsiasi prospettiva scientifica.
Si dimentica troppo spesso che la nascita della scienza moderna è contemporanea ad un grande scontro epocale, quello tra Chiesa e visione magica del mondo, che avrebbe potuto cambiare il corso della nostra cultura. Neoplatonismo, neopitagorismo ed ermetismo rinascimentali, infatti, non hanno portato solo un interesse verso visioni matematiche, per il vero molto simboliche e astratte, ma anche per interpretazioni del mondo in chiave animista e panteista, e quindi magica. La "città del Sole" di Campanella è costruita in modo da captare gli influssi astrali, e il sole vi appare quindi come una vera divinità. Come ha notato Paolo Rossi in origine "i primi sostenitori della verità copernicana non sono certo facilmente inseribili tra i moderni o tra gli assertori di un nuovo metodo scientifico", per cui "parlare di 'arretratezza scientifica' di fronte alle incertezze manifestate in quegli anni è un non senso".
Infatti Giordano Bruno nel 1585 difende la teoria di Copernico "sullo sfondo della magia astrale e dei culti solari", legandola alla filosofia di Marsilio Ficino, che non disdegnava presentarsi come un sacerdote del culto solare e che considerava i pianeti come "stelle viventi" e "grandi animali". Nel 1592 Francesco Patrizi era stato condannato per aver sostenuto sì la rotazione della Terra, ma all'interno di una visione secondo la quale gli astri hanno vita spirituale e intelligenza. Robert Recorde, John Dee e Thomas Digges, tutti personaggi che si richiamano a Copernico sono accesi sostenitori dell'ermetismo e dell'astrologia. Anche nei testi di Wiliam Gilbert, "anch'egli in qualche modo copernicano, non mancano temi vitalistici né richiami a Ermete, Zoroastro, Orfeo" (P.Rossi, "La nascita della scienza moderna in Europa", Laterza, pp.88-89). La centralità del sole è per loro di tipo sacrale, non astronomica e fisica. Lo stesso Copernico, che come medico "praticò la medicina per mezzo della teoria degli influssi astrali", era stato in parte condizionato dal neoplatonismo e dal neopitagorismo rinascimentali, dando alla centralità del sole, in certi momenti, quasi un significato mistico, religioso (Antiseri, Koyrè, Yates).
Non c'è da stupirsi allora se tra gli uomini di Chiesa, gli unici che combattono il revival magico e la rinascente eliolatria pagana, in nome della ragione, e quindi della scienza, alcuni finiscano per interpretare Copernico negativamente, a causa delle strumentalizzazioni che tanti ne avevano fatto. In questo clima Galilei decide di difendersi sul piano dell'esegesi, con l'aiuto di due sacerdoti suoi allievi, padre Benedetto Castelli, grande scienziato, e un barnabita.
Il succo delle "lettere copernicane" è perfettamente ortodosso: la Sacra Scrittura e la natura scaturiscono entrambe dal "Verbo Divino", "quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio". Inoltre la Scrittura non deve essere sempre interpretata alla lettera, sia perché si rivolge al volgo, per essere da lui compresa, sia perché, come aveva detto il cardinal Baronio, il suo intento non è quello di dire "come vadia il cielo" ma "come si vadia in cielo". Trovandosi però ad analizzare il miracolo narrato in Giosuè 10, 11-13, in cui Dio ferma il sole al fine di prolungare il giorno, Galilei ritiene di poter adottare una posizione concordista, ritorcendo contro i suoi avversari l'interpretazione letteralista. Spiega cioè che il passo in questione è molto più compatibile con la teoria copernicana che con quella tolemaica.
Si tratta di una posizione che era già stata sostenuta, che veniva affermata nello stesso periodo anche da un frate, Antonio Foscarini, e che trova sostenitori accreditati ancor oggi. Le prime lettere di Galilei, lungi dal placare le polemiche, le ampliano, sino alla richiesta da parte dei cardinali Barberini e del Monte, suoi amici, di non eccedere "i limiti fisici o mathematici, perché il dichiarar le Scritture pretendono i theologi che tocchi a loro", e di trattar quindi del sistema copernicano "senza entrare nelle Scritture".
Di fronte a questi inviti, che se accolti avrebbero sicuramente scongiurato qualsiasi futuro contrasto, Galilei risponde con altre due lettere, all'amico Mons. Pietro Dini, in cui ritorna sul rapporto tra astronomia copernicana ed esegesi biblica. Così facendo, però, si espone, per invasione di campo, all'invasione di campo della Chiesa. Roberto Bellarmino rivolge allora a lui e al Foscarini l'invito (12 aprile 1615) esplicito a considerare il sistema copernicano solo in termini ipotetici, ex suppositione.
Molto prudentemente però aggiunge che nel caso in cui si dimostri la validità delle tesi copernicane "allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non le intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra". E concludeva: "io non crederò che ci sia tal dimostratione, finchè non mi sia mostrata".
Siamo di fronte ad una posizione perfettamente corretta: Bellarmino non si dichiara assolutamente contrario al sistema copernicano, bensì afferma di non voler che altri intervenga nella interpretazione delle Scritture prima che esso sia una certezza dimostrata e non solo una ipotesi, come è ancora allora e come ammetterà proprio Galilei in seguito alla lettera di Bellarmino.
Siamo così al 1616, l'anno della convocazione di Galilei a Roma e della condanna da parte del Santo Uffizio, diviso al suo interno, della "dottrina pitagorica" della mobilità della terra e della immobilità del sole. Tale dottrina non viene però dichiarata "eretica"; a Galilei non viene imputata nessuna colpa personale, nè richiesta alcuna abiura. In realtà il decreto del 1616, per quanto sicuramente sbagliato, col senno di poi, dimostra che se la questione non fosse stata portata sul terreno delle Scritture, la Chiesa non se ne sarebbe occupata: infatti la pubblicazione di Copernico è sospesa donec corrigantur, cioè finché non verrà corretta eliminando solo i dieci versi della prefazione a Paolo III dove si accenna alle Sacre Scritture; l'altro testo proibito è la lettera del Foscarini, perché "esplicitamente votata ad una difesa concordista [e quindi scritturale] della cosmologia Pithagorica" (l'utilizzo di questo aggettivo, al posto dell'aggettivo "copernicana", può essere compreso solo alla luce dei ragionamenti precedenti, sulle implicazioni animiste e magiche del neopitagorismo eliocentrico rinascimentale).
Dopo il decreto del 1616 Galilei entra in contrasto con il gesuita Orazio Grassi, valente scienziato e architetto della chiesa di Sant'Ignazio a Roma, intorno all'apparizione di alcune comete nel cielo. Il Grassi in un suo scritto sostiene contro Aristotele che le comete costituiscono dei veri e propri corpi celesti, situati oltre la sfera lunare. Galilei risponde interpretando "la parte di un aristotelico conservatore" inoltrandosi "in una selva di incoerenze" (Rossi, p.123), e definendo le comete, erroneamente, come effetti ottici dovuti ai riflessi della luce solare sui vapori che circondano la terra. La sua trattazione è tutta giocata in attacco, con un linguaggio ed un tono che sconcertano i Gesuiti, che si sentono ingiustamente attaccati, dopo tanto favore concesso allo scienziato pisano. In effetti Galilei adotta sovente, nelle sue polemiche, un linguaggio violento, brutale, che gli alienerà nel tempo molti amici, definendo gli avversari "serpe lacerata, castrone, scorpione, solennissima bestia, ignorantissimo bue, animalaccio…".
La verità è che non tollera che i Gesuiti, abbandonato Tolomeo e Aristotele, stiano sempre più abbracciando il sistema geo-eliocentrico di Tycho Brahe. Nel 1623 esce "Il Saggiatore" dedicato al nuovo papa, il cardinal Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII. La sua elezione è motivo di grande gioia per Galilei, che lo ricorda come un amico e un grande estimatore. Decide così che è venuto il tempo di tornare a Roma, dove giunge il 23 aprile del 1624: il giorno dopo è già accolto in una lunga udienza privata dal papa, che lo rivedrà, in tre mesi, ben sei volte. Nel periodo della sua permanenza nell'urbe Galilei constata di essere ancora stimato ed amato da molti cardinali e uomini di curia.
Lascia Roma carico di doni ricevuti direttamente dal papa, insieme ad un attestato in latino in cui si esaltano le doti e le scoperte del "dilectus filius Galilaeus", che può essere considerato, a quest'epoca, a tutti gli effetti, "l'astronomo ufficiale del papa". Anche i suoi allievi più intimi, padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, fanno fortuna: il primo viene nominato alla nuova cattedra di matematica dell'università pontificia La Sapienza nel 1626, mentre il secondo nel 1629 assume la stessa cattedra a Bologna. Commenta Pietro Redondi: "il più prestigioso insegnamento scientifico universitario in terra papale era assicurato ad un galileiano" (P. Redondi, "Galileo eretico", Einaudi, p. 119-123).
I
n realtà, amicizia e stima a parte, Urbano VIII dissente su un punto, in particolare, rispetto a Galilei: ritiene che "poiché per ogni effetto naturale può darsi una spiegazione diversa da quella che a noi sembra la migliore (data l'onnipotenza divina, ndr), ogni teoria deve muoversi sul piano delle ipotesi e rimanere su questo piano". Ad una siffatta opinione Galilei risponde con un ragionamento assai più realista e quindi più conforme alla dottrina cattolica: nessuna conoscenza umana limita la libertà e l'onnipotenza di Dio, perché "noi non cerchiamo quello che Iddio poteva fare, ma quello che Egli ha fatto".
L'uomo infatti è dotato di ragione per conoscere le realtà naturali, benché altre realtà, quelle soprannaturali, abbisognino della Rivelazione divina, delle sacre Scritture. Nel 1632 esce il "Dialogo sopra i due massimi sistemi", l'opera che segna la rottura con Roma. Galilei viene infatti immediatamente convocato a discolparsi, e sostiene insistentemente di aver voluto confutare, non avvallare, la teoria copernicana. L'evidente menzogna rafforza l'ala intransigente del sant' Uffizio, che attribuisce a Galilei alcune colpe: l'aver trattato il sistema copernicano come verità assoluta, pur in assenza di prove concrete, e non come ipotesi; l'aver posto in bocca a Simplicio, cioè ad uno sciocco, persino nel nome, incaricato di difendere le idee aristoteliche, alcune frasi di Urbano VIII, lanciandogli così una evidente sfida; l'aver proposto come prova incontrovertibile della teoria copernicana, erroneamente, il moto delle maree, mettendo nel "mazzo con le vecchie ridicolose" la posizione degli scienziati vaticani i quali collegavano a ragione le maree alla attrazione della luna (mentre Galilei bollava questa opinione come una credenza magica).
Galilei si trova dunque a mal partito: da una parte il suo tentativo di negare la realtà, dall'altra il rancore di Urbano VIII, che si sentiva offeso personalmente, da un uomo che aveva sempre trattato con benevolenza ed onori. "All'origine dell'iniziativa inquisitoriale stava in primo luogo lo sdegno del papa Urbano VIII" (Camerota, p. 632): è bene ribadire questo concetto, l'esistenza di questo scontro personale e non dottrinale, senza il quale non si capiscono molte vicende, come ad esempio il fatto che Urbano VIII, con notevole testardaggine, non ascolti nè il suo teologo personale, Agostino Oreggi, nè il celebre teologo Pasqualigo, consultato anch'egli dal papa stesso, i quali erano entrambi sostenitori della necessità di distinguere "tra ciò che appartiene alla fisica, ciò che spetta alla matematica e ciò che appartiene alla metafisica" (Redondi, p.316 e p.318, 342. Pasqualigo scriveva: "Non vedo come la fisica e la teologia debbano essere confuse in una sola scienza").
Il 22 giugno 1633 Galilei abiura davanti ai suoi giudici, che in numero di sette su dieci condannano la teoria copernicana, senza però definirla formalmente eretica, e senza impegnare la infallibilità della Chiesa. Galilei non fa un giorno di carcere, vive alcuni giorni presso il palazzo dell'ambasciata toscana di villa Medici, per poi essere accolto "con sincera amicizia", dall'arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, nell'attesa che l'estinzione della epidemia pestilenziale gli consenta di tornare ad Arcetri, nella sua villa vicino Firenze.
Nel 1634 muore la dilettissima figlia Suor Maria Celeste, che lo aveva aiutato a sopportare con fede anche le avversità di uomini di Chiesa, e gli ulteriori attacchi dei colleghi universitari, come il professore di filosofia dello studio pisano Chiaramonti o aristotelici libertini come Antonio Rocco, che attaccavano Galilei anche per le scoperte del Nuncius. In un bilancio finale, infine, occorre ricordare che il sistema copernicano verrà dimostrato molto più avanti, con le scoperte del 1725, del 1837 e definitivamente nel 1851 con gli esperimenti di Foucault. Galilei morirà l'8 gennaio del 1642, munito della benedizione papale, assistito dai discepoli Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, e, come ebbe a scrivere il Viviani stesso, "con filosofica e cristiana rassegnazione rese l'anima al suo Creatore": lui che mai aveva dubitato della capacità delle Scritture di indicare la via al cielo, che non aveva mai contrapposto scienza e fede; lui che aveva raggiunto la fama e la celebrità grazie alla consacrazione dei Gesuiti e del papato, prima di inimicarseli con le sue violente polemiche, nonostante l'avversione degli scienziati e degli universitari laici dell'epoca; lui, infine, che era incorso, non senza alcuni suoi gravi errori, nel risentimento non certo lodevole di un papa che sino ad allora era stato suo amico e protettore.
Una storia complessa, dunque, che in troppi hanno voluto elevare a simbolo di uno scontro teorico, dottrinale, quello tra scienza e fede, che non ci fu (basti pensare che tutte le opere di Galilei furono subito ristampate, anche in terra pontificia, ad eccezione del solo Dialogo). Se lanciamo ora un veloce sguardo agli sviluppi successivi della scienza e della cultura dopo Galileo, possiamo dire che Urbano VIII non comprese quello che invece avevano capito tanti ecclesiastici di rango come mons. Giovanni Ciampoli, consigliere e addetto culturale del papa stesso, oltre che eminenza grigia della Segreteria di Stato vaticana, il celebre padre Mersenne e molti altri, che videro sempre in Galilei il filosofo e lo scienziato cristiano chiamato finalmente a sostituire l'astro-biologia pagana di Aristotele, e a combattere "contro il naturalismo averroistico e l'irreligiosità libertina e magica" allora in auge. Ciampoli auspicava l'abbandono di Aristotele, non certo per quanto riguarda i principi della logica, ma affinché si ponesse un limite "a quell'ibrida mescolanza tra dogmi cattolici e filosofia aristotelica" che risultava spesso ingiustificabile, soprattutto in fisica (e che in realtà già nel medioevo aveva portato il vescovo di Parigi Tempier a condannare l'eternalismo di Aristotele).
Padre Mersenne, dal canto suo, si schiera dalla parte della nuova scienza "come un argine di fronte ai pericoli grandissimi che sono rappresentati, per il pensiero cristiano e il suo patrimonio di valori, dalla ripresa dei temi magici, dalla diffusione della tradizione ermetica, dalla presenza di posizioni che si richiamano al naturalismo rinascimentale e alle dottrine presenti nel pensiero di Pomponazzi" (Rossi, p.205).
Ciampoli, Mersenne e tanti altri (la lista degli ecclesiastici galileiani sarebbe troppo lunga, da padre Riccardi, maestro di Sacro Palazzo e superiore dei domenicani, a mons. Sforza Pallavicino, a scienziati come don Balli, padre Maignan, padre Valeriano Magni, padre Stefano Degli Angeli, padre Francesco Maria Grimaldi…oltre ai già citati padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, sino a don Marco Ambrogetti e padre Clemente Settimi, che stettero accanto al vecchio Galileo, ormai cieco, per scrivergli gli appunti e rispondere alle lettere) videro giusto: con lo scienziato pisano la magia entrò definitivamente in crisi, e con essa tutte le filosofie animiste e panteiste, e quindi anti-cristiane, che erano risorte coll'umanesimo e il rinascimento. Il nuovo avversario della fede, da allora, non sarebbero stati più i maghi e i filosofi pagani, che interpretavano il mondo come un "grande animale", ma i filosofi razionalisti, atei e materialisti, che toglieranno l'anima non solo alle stelle, ma anche agli uomini.
Prima, però, ci fu la generazione degli scienziati credenti: dopo l'ecclesiastico Copernico, Galilei e il religiosissimo Keplero, vi furono, a prescindere da alcune incrostazioni esoteriche, scienziati devoti come Isaac Newton, Robert Boyle e tanti altri. Spetterà a questi due, in particolare, il compito di teorizzare una visione meccanicistica cristiana, già adombrata da alcuni religiosi in epoca medievale, escludendo però un indebito allargamento del meccanicismo al regno dello spirito. Boyle, per esempio, attaccò spesso i seguaci di Epicuro, di Democrito e di Cartesio, che volevano trarre conclusioni materialiste dal meccanicismo, dichiarando che "il problema della 'prima origine delle cose' va tenuto accuratamente distinto da quello del 'successivo corso della natura'".
Dal canto suo Newton prese le distanze dai "possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo", affermando che il "cieco destino" e il "Caos", non avrebbero mai potuto essere chiamati in causa per giustificare, insieme alle mere leggi della natura, il "disegno intenzionale", divino, intelligente e non casuale, sotteso alla creazione. "La ammirevole disposizione del sole, scriveva Newton, dei pianeti e delle comete può essere solo opera di un Essere onnipotente e intelligente", che ha posto in essere leggi naturali che hanno cominciato ad operare solo dopo che l'universo è stato creato. "Newton e i newtoniani, conclude lo storico della scienza Paolo Rossi, non accettarono mai l'idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche" (Rossi, p.207,208).

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lunedì, 15 febbraio 2010

Quanta ignoranza su Galileo!


Galileo Galilei
tratto da Pensare la storia, Ed. Paoline, Vittorio Messori.

Stando a un’inchiesta dei Consiglio d’Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase “sicuramente storica”, un suo “Eppur si muove!”, fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici.
Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest’ultimo falso: la “frase storica” fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.
Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo “vero” (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i quali c’erano uomini di scienza non inferiore alla sua - assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere.
Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo “scuotimento” delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un’altra che Galileo giudicava “da imbecilli”: era, invece, quella giusta. L’alzarsi e l’abbassarsi dell’acqua dei mari, cioè, è dovuta all’attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.
Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c’è da stupirsi: il Sant’Uffizio non si opponeva affatto all’evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.
In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il “novatore” Copernico, condannato invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua “scommessa” copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente - sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.
Niente frasi “titaniche” (il troppo celebre “Eppur si muove!”) comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un “caso” che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l’incompatibilità tra scienza e fede.
Torture? carceri dell’Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il “condannato” si trasferì come ospite nel palazzo dell’arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo “Il gioiello”.
Non perdette né la stima né l’amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d’Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa “pena”, in realtà, era anch’essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall’ergersi come difensore della ragione contro l’oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: “In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa”.
Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell’indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l’8 gennaio 1642, nove anni dopo la “condanna” e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: “Gesù!”.
I suoi guai, del resto, più che da parte “clericale” gli erano sempre venuti dai “laici”: dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l’offesa dall’Università.
In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto “grande” quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II “non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell’inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo”. Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il “caso” è troppo importante, per non parlarne ancora.

Il Galilei - alla pari, del resto, di un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo - convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli. “Provvisoriamente, mise le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una loro sistemazione definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Sennonché le leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle - una di 13 e l’altra di 12 anni - entravano nel monastero di San Matteo d’Arcetri e dopo poco vestirono l’abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia” (Sofia Vanni Rovighi).
Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile.
“Sarebbe”, diciamo, perché, grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant’Uffizio, quella Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. “Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i “concubini” come lui venivano decapitati” (Rino Canimilleri).
È un’osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: “Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo “oscurantismo” che avrebbe bloccato la ricerca scientifica”. Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l’affermazione di un altro studioso, il Dessauer: “Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati”.
Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l’altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti: l’approvazione ecclesiastica per il libro “incriminato”, i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com’era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.
Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant’anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.
Del resto, proprio nell’astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana - ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti - consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un’eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.
Il governo dell’Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell’Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell’astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della “nuova Italia” che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.
Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico - fuori, cioè, dall’orbita di regioni cattoliche - le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell’onda possono permettersi, non certo l’Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.
La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. I greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un “filosofo” come era anche lo scienziato, darsi a simili attività “utilitarie”. (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l’impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici “profani”).
È chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno - come gli olandesi o gli inglesi - grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all’intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all’arte stessa, a partire dall’epoca moderna è legata al commercio, all’industria, alla guerra. Al denaro, insomma.
Che questa - e non la pretesa “persecuzione cattolica” di cui, l’abbiamo visto, parlano anche storici cattolici - sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l’intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce. Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato “perseguitato”) è un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L’opera fondamentale che pubblica nel 1543 - La rotazione dei corpi celesti - è dedicata al papa Paolo III, anch’egli, tra l’altro, appassionato astronomo. L’imprimatur è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo ascolterà la condanna.
Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com’è di possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non disapprovano la teoria “eliocentrica” copernicana, ma spesso l’incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e fatto membro dell’Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli al sistema eliocentrico.

Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: “La gente presta orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare all’aria tutti i princìpi dell’astronomia”. E Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: “Simili fantasie da noi non saranno tollerate”.

Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al “copernicano” e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.
Sempre Lutero ripeté più volte: “Si porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni”. Questo “letteralismo”, questo “fondamentalismo” che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno vigore, difeso com’è dall’ala in grande espansione - negli Usa e altrove - di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.

A proposito di università (e di “oscurantismo”): ci sarà pure una ragione se, all’inizio del Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università - questa tipica creazione del Medio Evo cattolico - ce ne sono 108 in Europa, alcune altre nelle Americhe spagnole e portoghesi e nessuna nei territori non cristiani. E ci sarà pure una ragione se le opere matematiche e geometriche degli antichi (prima fra tutte quelle di Euclide) che costituirono la base fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna, giunsero a noi soltanto perché ricopiate dai monaci benedettini e, appena inventata la tipografia, stampate sempre a cura di religiosi. Qualcuno ha addirittura rilevato che, proprio in quell’inizio del Seicento, è un Grande Inquisitore di Spagna che fonda a Salamanca la facoltà di scienze naturali dove si insegna con favore la teoria copernicana...
Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.

Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.

È successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito entusiastico della “modernità”, e del conseguente “progresso”, per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: “Pio IX e gli altri papi “reazionari” erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro tempo postmoderno che scopre l’altro volto, quello oscuro, della modernità e del progresso”.
È successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come “conservatrici”, “superate”, mentre ora quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli “attardati” di papi avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più profetico è anche quello che fu considerato il più “reazionario”: l’Humanae Vitae.
Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è verificato anche per quel “caso Galileo” che ci ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.
Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.
Dai tempi dell’antichità classica sino ad allora, in tutto l’Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.
D’altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea. Un santo e un dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto - e con lui un’altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio - a dare alla Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un secolo dopo.
Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro deciso dal Sant’Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: “Un po’ come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna rivista scientifica”. D’altro canto, lo stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo riconferma l’apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: “L’intento dello Spirito Santo, nell’ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo”.
Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua contraddizione, l’essersi anch’egli impelagato nel “concordismo biblico”: davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch’egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella “fermata” una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza sperimentale.
Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti - al di là degli errori in cui possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi coscientemente avvertivano - giudicando una certa baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell’uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla “Ragione- al posto di quelli basati sulla Rivelazione. “La condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione, per ipotesi e non in modo assoluto”. Così uno storico d’oggi. Dopo oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben conosciamo, c’è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano. Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la Tradizione nel loro senso più letterale. Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei positivisti - accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l’autorità del ragionare umano e dell’esperienza dei nostri sensi.
Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come Popper) - se non un’altra specie di fideismo - che ragione ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il “vero”? Come provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette “verità scientifiche” non sono affatto “verità” indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata “oggettività e infallibilità della Scienza”).
Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant’Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano messi in campo.
L’irrigidimento avviene soltanto quando dall’ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello “scientismo” in cui in effetti degenererà. “In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all’Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino: raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i teologi!” (Agostino Gemelli).
Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con un’intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti, pur considerati “intolleranti” per definizione. La stima per lo scienziato e l’affetto per l’uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come “arroganza e vanità spesso assai vive”. Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch’essi “sperimentali”.
Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) “un imbecille con la testa tra le nuvole”, uno “appena degno di essere chiamato uomo”, “una macchia sull’onore del genere umano”, uno “rimasto alla fanciullaggine”; e via insultando. In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell’autorità ecclesiastica.
Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell’intellettuale moderno, fu quella sua “vanità”, quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l’altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l’altro, il suo rifiuto del latino: “Galileo scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all’uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza” (Rino Cammilleri).
Di recente, 1`erede” degli inquisitori, il Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca - una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura “progressista” - che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi sull’oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere “perché la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all’origine del terrorismo degli scienziati, dell’autoritarismo dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti...”. Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo stupito: semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era passata dal culto tutto “moderno” della Scienza alla consapevolezza “postmoderna” che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.
Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato - da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era - in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo:
Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla trionfare, e dall’altra parte uomini che per la verità non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l’una e l’altra convinte della verità della loro opinione, l’una e l’altra in buona fede ma che adoperano l’una e l’altra anche mezzi extra-teorici per far trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel 1616, l’autorità ecclesiastica fu particolarmente benevola con Galileo e non lo nominò neppure nel decreto di condanna e nel 1633, sebbene sembrasse procedere con severità, gli concesse ogni possibile agevolazione materiale. Secondo il diritto di allora, prima, durante e, se condannato, dopo la procedura, Galileo avrebbe dovuto essere in carcerato; e invece non solo in carcere non fu neanche per un’ora, non solo non subì alcun maltrattamento, ma fu alloggiato e trattato con ogni conforto”.
Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato: “Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti. Si osserverà che quell’azione di Galileo va giudicata tenendo presente l’epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza, usando grande bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari di Galileo”.
Prosegue la studiosa: “Occorrerà anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l’autorità che giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l’errore non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre a 12 anni. E se poi si osserva che - diamine! - Galileo è Galileo, mentre suor Arcangela non è che un’oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente che tormentare l’uno è colpa ben più grave che tormentare l’altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie”.
Nella “Lettera alla Granduchessa Cristina”, Galileo si fece giudice ed esegeta “scientifico” della Bibbia, dicendo - in merito all’arresto del sole e della luna al comando di Giosuè - che “coll’aiuto del sistema Copernicano noi abbiamo il senso facile, letterale e chiaro del comando”.
Inoltre,
“[...] Galileo aveva scritto che alcune volte le Scritture “oscurano” il loro proprio significato. Nella copia mandata a Roma la parola “oscurano” era cambiata in “pervertono”. Questa e l’altra parola contraffatta, “falso”, furono le uniche due criticate dal consultore del Santo Uffizio al quale la lettera era stata sottoposta. La lettera nell’insieme fu trovata in accordo con l’insegnamento cattolico” (cit. in James Brodrick s.j., S. Roberto Bellarmino, Ancora, Milano 1965, p. 431-432 e 436).
grazie  a: http://www.antoniopassiatore.it/prof/Default.asp

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sabato, 13 febbraio 2010

La ragione
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De
            Giorgi anteprima3

Ennio De Giorgi


'operando come matematico mi sono forzato ad ammettere che: non solo le cose che esistono sono, come è ovvio, più di quelle che conosco ma per poter parlare del­le cose conosciute sono costretto a fare riferimento a cose sconociute ed umanamente inconosci­bili;
 …perciò il fatto che la religio­ne preveda il mistero appare (al matematico) più come condizio­ne necessaria per la sua credibilità che non come ostacolo all’accet­tarla'. 
Ennio De Giorgi Osservatore Romano del 18 novembre 1978
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La sete di conoscenza dell’uomo è il segno di un desiderio segreto di vedere qualche raggio della gloria di Dio'
Ennio De Giorgi Congresso Internazio­nale dei Matematici, a Varsavia nel 1983
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"All’inizio e alla fine, abbiamo il mistero.  La matematica ci avvicina al mistero, ma nel mistero non riesce a penetrare
Ennio De Giorgi
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«Credo che sia un mistero il motivo dell'utilità della matematica nei confronti della realtà non solo fisica, ma anche biologica, economica, eccetera per me l'indicazione più suggestiva sta nel Libro dei Proverbi, uno dei libri più antichi della Bibbia, che a un certo punto dice che la sapienza (che è più vasta della matematica) era presso Dio quando Egli creò il mondo e che la sapienza deve essere trovata dall'uomo che che Lo cerca e Lo adora. La matematica è una delle più significative manifestazioni dell'amore della sapienza».

Per me l'idea della resurrezione, l'idea che la vita non finisce nel breve arco degli anni che abbiamo, l'idea che anche le persone carissime che sono morte vivono in qualche modo ancora, è uno degli elementi fondamentali della mia vita e anche della mia attività di ricerca. E' uno dei motivi per cui posso continuare a studiare, immaginare cose nuove anche a una età in cui uno potrebbe dire sono verso la fine della carriera accademica, penso che è un tragitto in cui fino all'ultimo devo amare la sapienza in modo completo sperando che quest'amore continuerà anche se in altre forme dopo la morte.”
 Ennio_De Giorgi intervista di Michele Emmer.
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 “Sì, lui è stato il mio rivale. Ecco un bell'esempio di un matematico religioso! Anzi, un es. estremo di religiosità, quasi da monaco

John Nash

«Accadde che lavorassi in parallelo con Ennio De Giorgi. Egli fu il primo a raggiungere la vetta».

John Nash   autobiografia

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Altro che lo pseudomatematico Odifreddi!!!!


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giovedì, 11 febbraio 2010

La conversione di Francis Collins
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Tempi num.28 del 12 luglio 2007
Lo scienziato che ha decodificato l'intero genoma umano ci racconta la sua conversione e ci spiega perché è proprio la sorprendente complessità del cosmo a convincerlo che aveva ragione C. S. Lewis

di Roberto Persico


Un'altra vittima di C. S. Lewis. Eppure c'erano tutte le premesse perché Francis Sellers Collins finisse come uno dei tanti pazienti ideali di Berlicche, quelli che arrivano quietamente all'inferno senza mai porsi neppure il problema. «Come figlio di liberi pensatori - scrive ne Il linguaggio di Dio, da poco uscito in Italia - ho avuto un'educazione tipicamente moderna per quanto riguarda l'atteggiamento nei confronti della fede: semplicemente, non era considerata una cosa importante». E quel «desiderio di qualcosa che stava al di fuori di me, spesso associato alla bellezza della natura o a un'esperienza musicale particolarmente profonda», che racconta di avere talvolta sperimentato nell'adolescenza, non trovò nessuno pronto ad accoglierlo. Anzi, approdato nelle aule universitarie, l'anticristianesimo militante che vi si era diffuso spinse il professor Collins da un agnosticismo in fondo indifferente al problema religioso a un deciso ateismo.
Intanto maturava un curriculum di tutto rispetto, passando dalla chimica alla fisica alla biologia, per approdare infine alla medicina. Ma proprio qui Dio era in agguato, tra le corsie in cui Collins faceva il suo tirocinio da medico, nel volto di morenti che trovavano nella fede la forza per affrontare lietamente l'ultima sofferenza. «Se la fede non era altro che la maschera di una tradizione culturale, perché quelle persone non alzavano il pugno a Dio e non chiedevano di smetterla con quelle chiacchiere su una potenza amorevole e benefica?». Di colpo, si rese conto che l'indifferenza non è una posizione degna di un uomo di scienza. «Non mi ritenevo uno scienziato? E uno scienziato tira forse conclusioni senza riflettere sui dati? Poteva esserci una domanda più importante di "Dio esiste"? Questa presa di coscienza fu un'esperienza assolutamente terrificante». E sulle prime tentò di offrire ragioni al proprio ateismo. Poi però incappò in "Scusi, qual è il suo Dio?" di Lewis. «Mi resi conto che tutti i miei costrutti contro la plausibilità della fede erano degni, al massimo, di uno scolaretto. Lewis pareva conoscere tutte le mie obiezioni, talvolta prima che fossi riuscito a formularle con precisione, e le risolveva invariabilmente nell'arco di una o due pagine».

Spiegare il Dna a Bill Clinton

 Dai giorni dell'università, Francis Collins ne ha fatta di strada, fino a diventare direttore del "Progetto Genoma", l'impresa internazionale che ha condotto alla mappatura dell'intero patrimonio genetico dell'uomo. E durante la presentazione ufficiale dei risultati, nel giugno del 2000 alla Casa Bianca, accanto al presidente Bill Clinton, così commentò l'evento: «Pensare che abbiamo potuto dare una prima fugace occhiata al nostro manuale di istruzioni, finora noto soltanto a Dio, mi fa sentire umile. Provo un grande timore reverenziale».
La sua carriera di studioso è cresciuta di pari passo con la sua fede, e ora con Il linguaggio di Dio ha voluto delineare una posizione che lui chiama "evoluzionismo teologico" - «espressione poco accattivante», riconosce - sostituendola col più sintetico e suggestivo "BioLogos": correttamente intesi, non c'è nessuna contraddizione tra i dati della conoscenza scientifica e la verità dell'esperienza religiosa. Una posizione lucidamente critica sia nei confronti di chi pretende di fare della scienza un sostegno dell'ateismo, sia rispetto agli integralismi religiosi che negano le evidenze scientifiche in nome di letture letterali della Bibbia. Ma vuole anche superare la teoria del "disegno intelligente", che fa intervenire Dio come "tappabuchi" di un'evoluzione difettosa. Chiuso il libro, abbiamo raggiunto Collins nel suo ufficio al National Human Genome Research Institute, e lui ha trovato il tempo di fare due chiacchiere con Tempi.
Gli argomenti che porta nel suo libro a sostegno della ragionevolezza dell'ipotesi di Dio sono fondamentalmente due. Uno è il cosiddetto principio antropico, cioè la sorprendente convergenza delle costanti fisiche fondamentali dell'universo verso le condizioni che rendono possibile la vita sulla Terra. L'altro è l'esistenza della legge morale, dell'altruismo, di valori che l'evoluzione (che pure chiarisce tante altre verità) non basta a spiegare. Al contrario dei sostenitori del principio antropico, gli scienziati che propendono per l'esistenza del "multiverso" teorizzano che il nostro universo non sarebbe che una delle infinite bollicine di una sconfinata schiuma cosmica, bollicine che continuamente si formano e si distruggono. Così la "sorprendente convergenza" delle costanti del cosmo sarebbe solo una delle infinite possibilità, che prima o poi avrebbe dovuto realizzarsi comunque. «Ma se le costanti che determinano le proprietà della materia e dell'energia nel nostro universo fossero anche solo lievemente differenti - ribatte Collins - non ci sarebbe nessuna possibilità per la vita. Perciò è difficile sfuggire alla conclusione che, come ha scritto Freeman Dyson, "l'universo sembrava sapere che stavamo arrivando noi"».

Darwin e il paradosso della morale

A proprio sostegno Collins cita anche la recente pubblica professione di fede fatta da Antony Flew, ateo da una vita, che «è stato pesantemente influenzato dalla scoperta del potere teologico del principio antropico. Una tale precisione nella regolazione di queste costanti non può essere liquidata come una "coincidenza". L'ipotesi del multiverso, secondo la quale il nostro non sarebbe che uno tra pressoché infiniti universi paralleli dove queste costanti assumono di volta in volta valori diversi, è a mio parere l'unica alternativa praticabile alla conclusione che tali valori siano stati definiti da un'intelligenza superiore. Molti osserverebbero, tuttavia, che credere nel multiverso richiede almeno tanta fede quanta credere in Dio. Uno come Leonard Susskind può supporre che la questione potrebbe essere definita se si potessero rilevare segnali dagli altri universi, ma al momento sembra altamente improbabile. E anche se accadesse, lascerebbe comunque senza risposta la domanda su come tutti questi universi abbiano avuto origine. Il che sembra riportarci alla necessità di una Causa Prima che stia fuori da tutti questi universi. E così torniamo a Dio».
Anche l'idea che la coscienza morale sia un segno di Dio ha trovato diversi critici, i quali suggeriscono che si potrebbe scoprire che i gruppi umani che sviluppano attitudini altruistiche sopravvivrebbero più facilmente di quelli che si scannano l'un l'altro: se così fosse, la teoria di Collins si rivelebbe un altro caso di "Dio tappabuchi". «Nessuno degli argomenti che sviluppo ne Il linguaggio di Dio ha la pretesa di essere una prova. Se l'argomento della legge morale dovesse risultare debole e saltasse fuori che le nostre tendenze altruistiche possono essere spiegate sulla base dell'evoluzione darwiniana, la mia fede non ne sarebbe scossa. Ma non credo che sia probabile, dato che, primo, l'evoluzione opera sugli individui, non sui gruppi (e Richard Dawkins su questo è d'accordo). Secondo, l'evoluzione riguarda solo la capacità di un individuo di trasmettere il proprio Dna meglio dei concorrenti. Terzo, proprio per questo il gesto di una persona che aiuta un'altra a rischio della vita è uno scandalo per l'evoluzione, e dovrebbe essere qualcosa a cui noi umani guarderemmo con scherno, non con ammirazione. Tenga presente anche la conseguenza dell'argomento che la legge morale sarebbe un puro risultato dell'evoluzione: vorrebbe dire che il nostro senso del bene e del male è una pura illusione, uno sporco trucco della selezione naturale, con significato di valore di alcun tipo. È una conclusione che trova riscontro nell'esperienza di ciascuno?»
Eppure scienziati come Dawkins, "il rottweiler di Darwin", o Daniel Dennet, autore di Illusioni filosofiche sulla coscienza, scrivono libri per dimostrare che «la fede è uno dei più grandi mali del mondo» o che la coscienza può essere totalmente ridotta alla neurobiologia. Collins nel suo libro li bastona duramente, smontando le loro tesi pezzo per pezzo. Ma sono sempre loro a tener banco agli occhi dell'opinione pubblica. «Circa il 40 per cento degli scienziati crede in un Dio personale - replica Collins - e per quel che ne so la maggior parte di loro aderisce alla prospettiva che ho definito BioLogos per tenere insieme quel che conoscono come scienziati e quel che credono come esseri spirituali. Ma discutere apertamente la propria fede nell'ambiente scientifico è generalmente tabù. Quelli che lo fanno corrono il rischio di essere considerati dei rammolliti intellettuali, così molti credenti tengono le proprie opinioni per sé. Inoltre, questa riluttanza a mettersi in gioco non è solo degli scienziati: le tensioni in atto fra atei conclamati da una parte e fondamentalisti religiosi dall'altra rende molti riluttanti ad affrontare la questione per timore di essere incasellati in uno dei due schieramenti».

Le forme diverse dello sguardo a Dio

 Malgrado l'inasprirsi del dibattito fra atei e credenti, però, è possibile tenere insieme l'affermazione della verità e la tolleranza. Scrive Collins: «Ciascuno deve intraprendere una propria ricerca della verità spirituale. Se Dio esiste, sarà lui a offrire aiuto. La tolleranza è una virtù, l'intolleranza un vizio. Mi turba profondamente sentire gli adepti di una tradizione di fede liquidare le esperienze spirituali di altri credenti. Tuttavia, se la fede è una ricerca della verità assoluta, non dobbiamo commettere l'errore di affermare che tutti i punti di vista in conflitto fra loro sono ugualmente veri. Il monoteismo e il politeismo non possono essere entrambi corretti.
Personalmente, credo che il cristianesimo abbia un particolare accento di verità. Ma ciascuno, come ho detto, deve condurre la propria ricerca». Una posizione troppo poco promossa oggi, spiega lo scienziato a Tempi: «Purtroppo, la nostra società sembra aver preso l'abitudine di amplificare solo le posizioni estreme. Io credo che moderazione, tolleranza e comprensione siano molto più diffuse di quel che comunemente si ritiene». E cosa si potrebbe fare, allora, per dare maggior eco a questa concezione del rapporto tra scienza e fede? «Potremmo cominciare - risponde Collins - chiedendo ai grandi scienziati di spendere un po' di tempo a cercar di capire il punto di vista dei più profondi pensatori religiosi, e allo stesso modo chiedere ai capi delle Chiese di immergersi nelle ultime scoperte scientifiche. Oggi entrambi i gruppi sono fin troppo pronti a fare una caricatura gli uni degli altri piuttosto che a cercare di capirsi seriamente. Bisognerebbe creare delle opportunità per mettere insieme i leader dalla mente aperta in un ambiente che incoraggi l'idea che la scienza e la fede sono forme diverse di conoscenza, ed entrambe possono offrire scorci impressionanti di Dio. E dovremmo lavorare molto di più nelle nostre scuole, per insegnare alle giovani generazioni la verità sulla natura come ce la mostra la scienza e insieme aiutarle ad apprezzare il valore permanente delle verità che derivano dalla fede».
 grazie ad: Amadigi


Postato da: giacabi a 17:28 | link | commenti
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Leonardo si convertì
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"Divenuto vecchio stette molti mesi ammalato; e vedendosi vicino alla morte, disputando de le cose cattoliche, ritornando nella via buona, si ridusse a la fede cristiana con molti pianti. Laonde confesso e contrito, se bene e' non poteva reggersi in piedi, volse devotamente pigliare il Santissimo Sacramento fuor de 'l letto".
Vasari,Vite ed.1550
il Vasari riferisce che la conversione portò poi Leonardo anche ad un ripensamento critico della sua opera di artista: il genio toscano si pentì di non aver dedicato più tempo e creatività al tema del sacro.

Postato da: giacabi a 16:17 | link | commenti
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L'origine della Scienza è nel Cristianesimo

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Durante il secolo XVI avvenne la cosiddetta Rivoluzione scientifica grazie a scoperte e conquiste straordinarie.

Esse furono il culmine di molti secoli di progressi sistematici portati avanti dagli scolastici medioevali e sorrette da un'invenzione del XII secolo prettamente cristiana: l'Università (vedi qui).

Scienza e religione non solo erano compatibili, ma addirittura inseparabili, e la scienza nacque grazie a studiosi cristiani profondamente religiosi (vedi qui).
Cito direttamente da Wikipedia, sotto la voce "Storia della concezione della scienza":
"La scienza moderna poggiò le sue basi da questi modelli (Aristotele, Platone ecc..) e Galilei poneva le dimostrazioni necessarie sullo stesso piano della "sensata esperienza". L'ideale geometrico della scienza dominò il pensiero di Cartesio. Isaac Newton stabilì il concetto descrittivo della scienza contrapponendo il "metodo dell'analisi" al "metodo della sintesi".
Piccola divagazione: su Wikipedia, alla voce "Cenni storici" dell'argomento: Metodo scientifico, vengono casualmente citati solo uomini credenti alla base del suo sviluppo: i filosofi della scolastica medioevale, Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Immanuel Kant, e Albert Einstein. Piccola coincidenza...

La scienza si basa su due elementi: teoria, cioè enunciati astratti, e ricerca, cioè osservazioni relative alle previsioni o ai divieti empirici. Perciò la vera scienza, come afferma anche un gigante fra gli storici: March Bloch, non è nata in greca poichè la scienza dei greci, si pensi ad esempio ad Aristotele, Democrito, o ad Empedocle, era o completamente empirica o assolutamente non empirica. Ignorava o non implicava effetti osservabili e quindi l'altro elemento fondamentale della scienza.

I greci non furono veri scienziati.
Nonostante questo qualcuno ritiene ancora, erroneamente, che gli antichi greci furono invece primi a sviluppare e concepire la vera e propria scienza.
Effettivamente gli antichi greci sembrarono sul punto di ottenere la scienza (come afferma anche Lucio Russo nel suo libro "La rivoluzione dimenticata").
Ma perchè la quasi totalità degli storici della scienza non la ritiene "vera" scienza? Perchè, ad esempio secondo Bernard Cohen, "gli ellenistici erano interessati a spiegare il mondo naturale solo attraverso principi generali astratti".
(Cohen, La rivoluzione nella scienza, Longanesi 1988)

Alcuni osservavano la natura in modo attento e sistematico, nonostante Socrate considerasse l'empirismo, come le osservazioni astronomiche, una "perdita di tempo", e Platone fosse d'accordo e consigliasse ai suoi studenti di "lasciar perdere i cieli stellati"
(Mason, Storia delle scienze della natura, Feltrinelli 1971, pag. 104)

David Lindberg, grande storico della scienza, afferma: "I greci crearono reti accademiche coordinate, le famose "scuole", ma produssero solamente filosofie antiempiriche, raccolte di fatti ateoretici, mestieri e tecnologie isolati, che non sfociarono mai nella vera scienza"
(Lindberg, The beginning of western science, University of Chicago Press 1992)
"Non si basavano sull'osservazione (elemento fondamentale della scienza), ma sulla pura teorizzazione. La scienza greca non era scienza perchè mancava totalmente di empirismo essendo costituita da una serie di asserzioni astratte (a volte anche corrette) ma che ignoravano o non implicavano effetti osservabili
(Stark, La vittoria della ragione, Lindau 2005, pag. 44).

Due esempi:
Aristotele sebbene elogiato per il suo empirismo, insegnava che la velocità alla quale un oggetto cade a terra è proporzionale al suo peso, e quindi che una pietra che pesa il doppio di un'altra cadrà due volte più velocemente.
(Aristotele, Il cielo, Rusconi Libri 1999)
Se si fosse recato però a una delle vicine scogliere avrebbe constatato la falsità della proposizione.
Empedocle, ritenuto un grande scienziato dell'epoca, affermava che tutta la materia fosse composta da fuoco, aria, acqua e terra.
(March Bloch, La società feudale, Einaudi Torino 1999)

Il sapere greco ristagnò nella propria logica interna. A parte ulteriori sviluppi della geometria accadde molto poco dopo Platone e Aristotele.
I romani assorbirono il mondo greco, abbracciandone gli insegnamenti. Ma l'apporto della cultura greca non fece progredire intellettualmente il mondo romano in modo significativo. E in Oriente accadde lo stesso.
Addirittura lo storico della scienza Harold Dorn, afferma:
"Il sapere greco esclusivamente ateorico fu una barriera per l'ascesa della vera scienza: non permise il progresso del mondo greco, di quello romano, nè del mondo islamico, dove si preservarono e studiarono con attenzione gli insegnamenti greci".
(Harold Dorn, The Geography of science, Hopkins University Press 1998)

La scienza si sviluppò solo nell'Europa cristiana
Tra i tanti, l'Edward Grant, importante storico e filosofo della scienza, sostiene: la scienza vera si sviluppò solo una volta: in Europa, nell'Europa cristiana.
Ad esempio, la Cina, il mondo islamico, l'India, l'antica Grecia e l'antica Roma avevano un'alchimia molto avanzata, ma in Europa l'alchimia si evolvette in chimica. Molte società svilupparono elaborati sistemi di astrologia, ma solo in Europa l'astrologia condusse all'astronomia. Perchè?
Ci risponde nel 1925 Alfred North Whitehead:
"La scienza ebbe origine in Europa a causa della diffusa fede nelle sue possibilità, essa è un derivato della teologia medievale. Non può provenire che dalla concezione medioevale, la quale insisteva sulla razionalità di Dio".
(Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pag.30)

Il grande matematico e filosofo sapeva bene che la teologia cristiana era stata un elemento di fondamentale importanza per lo sviluppo della scienza in Occidente. Termina quindi dicendo:
"Le immagini di divinità rintracciabili nelle altre religioni, in particolar modo in Asia, erano e sono troppo impersonali e irrazionali per poter incoraggiare la scienza. Mancava quella fiducia che proviene dall'idea dela razionalità intelligibile di un essere personale, propria del cristianesimo".
(Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pag.31)
Infatti la maggior parte delle religioni non cristiane non presuppone una creazione: l'universo è eterno e ciclico, senza principio e scopo. Non essendo creato nn ha un creatore.

Gli scolastici erano in grado di contestare il sapere greco e svilupparono la scienza proprio in esplicita opposizione ad Aristotele e agli altri autori classici. Lo sviluppo della scienza non risultò come prolungamento del sapere classico. Fu la naturale conseguenza della dottrina cristiana: per amare Dio è necessario conoscere e apprezzare a fondo le meraviglie del Suo operato. Essendo Dio perfetto, Ottimo e Massimo Artefice (come lo chiama Copernico, vedi qui), il suo creato funziona secondo principi immutabili che secondo questi scienziati potrebbe essere possibile scoprire attraverso la ragione e l'osservazione atronomica.
La scienza nasce come "serva" della teologia: è esattamente così che percepivano se stessi coloro che presero parte alle grandi conquiste del XVI e XVII secolo, come qualcuno che persegue i segreti della creazione.
"Per Newton, Keplero e Galileo la creazione era un libro che andava letto e compreso".
(Jeffrey, Refernce and Recognition in Medieval Thought, University of Ottawa Press, pag.14).
Nel XVI secolo Cartesio, genio scientifico francese e uomo credente, giustificò la sua ricerca sulle "leggi" naturali sul fatto che tali leggi dovessero esistere perchè Dio era perfetto, e agiva "nel modo più costante e immutabile possibile, tranne nelle rare eccezioni dei miracoli"
(Cartesio, Ouevres, Libro 8, cap. 61)

La cosa paradossale è che gli atei moderni, i cosiddetti atei scientisti, vivono nella speranza e nella fede di poter un giorno dimostrare l'inesistenza di Dio e smentire chi crede basandosi sulla scienza. Compatendoli, ho voluto ricordare a loro che senza l'ingegno e la fede di quei credenti non ci sarebbe stata neanche la scienza moderna.

Per verifiche e approfondimenti:
Peter Hodgson, uno dei tanti scienziati per cui il cristianesimo ha posto le basi "necessarie per lo sviluppo della scienza" - Il sussidiario.
La vittoria della ragione, Rodney Stark, Lindau 2005 pag. 35-40
Scienza, Enciclopedia Treccani
Le origini medioevali della scienza moderna, Edward Grant, Einaudi 2001.
La rivoluzione della scienza, Bernard Cohen, Longanesi 1998.
Science and Creation, Stanley Jaki, Scottish Accademic Pres 1986
La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn, Einaudi 1978

Dal bel blog: Ragione e Fede



Postato da: giacabi a 12:27 | link | commenti
scienza - articoli

mercoledì, 13 gennaio 2010

Scienza e fede
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Ciò che di permanente e di obiettivo rimane oggi della questione galileiana può essere sintetizzato nella domanda: quale rapporto c’è tra scienza e fede o, in modo più esplicito, quale rapporto c’è tra la scienza ed il destino dell’uomo?
Nella vicenda di Galileo possiamo infatti distinguere un aspetto immediato e un aspetto anticipatore o profetico. L’aspetto immediato è quello sotto gli occhi di tutti: una vicenda che sul piano scientifico si presentava molto complessa, con delle conseguenze di carattere ecclesiale e culturale e, in qualche modo, sociale e che quindi ha dovuto essere considerata e risolta con un procedimento molto più disciplinare ed amministrativo, che dogmatico o teologico in senso stretto. Ma c’è anche l’aspetto anticipatore che a distanza di qualche secolo può ben essere riconosciuto: il problema della scienza, a cui introduce il galileismo e quindi il razionalismo settecentesco, è quello di una scienza che pretende di rappresentare il sapere come tale, la totalità del sapere; che pretende di essere il punto discriminante sulla verità della fede. La sottovalutazione della fede come superstizione, la dichiarazione dell’impossibilità del soprannaturale, l’impossibilità dei miracoli, la riduzione dell’avvenimento cristiano dapprima a religione naturale e poi sostanzialmente a fenomeno in qualche modo "patologico", perché legato all’ignoranza del popolo, sono conseguenza di una concezione ed uno sviluppo di carattere scientistico. La Chiesa non poteva non avvertire la preoccupazione che in questa vicenda era contenuta anche la possibilità di uno sbilanciamento totale di un orizzonte, con una scienza che pretendeva di essere, da un lato, una conoscenza dei fenomeni a livello particolare e, dall’altro, una conoscenza assoluta e totalizzante. Questo non chiarisce tutti gli aspetti della questione, ma ne chiarisce una linea di comprensione che va dal 1600 a oggi.
E oggi più che mai risulta attuale il problema del rapporto tra l’autonomia della ricerca scientifica e l’autorità della Chiesa.
Se per autonomia della scienza si intende infatti la piena responsabilità degli scienziati di impostare la ricerca secondo quello che ritengono più adeguato per lo svolgimento della ricerca stessa, realizzando lo statuto proprio della scienza che professano con un’assoluta libertà di metodo e fissando per la ricerca obiettivi e metodi che non obbediscono ad altro se non alla ricerca stessa, l’autorità della Chiesa non ha niente da dire a questo riguardo; essa non può però non avere la preoccupazione di rappresentare un ambito di vita e di educazione a cui lo scienziato, in quanto credente, possa continuamente rifarsi, per un realismo nell’impostazione della propria indagine. Lo scienziato che crede in Dio, lo scienziato che crede che Dio si sia definitivamente rivelato nella Vita, nella Passione, nella Morte e nella Resurrezione di Gesù Cristo e quindi crede che esista il luogo che salva la verità di Dio e dell’uomo, uno scienziato che può pertanto essere rigenerato continuamente nella sua certezza corre meno degli altri la tentazione di ideologizzare la sua scienza, di concepirsi capace di trasformare "le pietre in oro". Comunque l’autorità della Chiesa educa un popolo che si assume la responsabilità della propria vita, e quindi anche la responsabilità di ogni ricerca scientifica particolare, rifiutando ogni ipotesi di lavoro che gli venga sotto banco imposta da preoccupazioni estranee alla scienza.
Se per autonomia della scienza invece si intende pensare un mondo in cui la scienza è tutto, ne consegue pensare un mondo che alla fine è stato contro l’uomo: che la scienza non è tutto è quanto la Chiesa ha sicuramente voluto dire intervenendo su Galileo. Certo non si può dire che Galileo fosse di questo pensiero, ma non si può vedere la scienza del ventesimo secolo senza fare i conti con Galileo. Non si può guardare il problema come se fosse un particolare e basta: era un particolare che portava in "nuce" uno sviluppo secolare, per cui la scienza, svincolata da qualsiasi appartenenza è diventata totalizzante.
Quanto detto della scienza vale anche per la filosofia, nel momento in cui la filosofia non è qualche cosa che si fa a comando, per illustrare i dogmi della Chiesa. La Chiesa per illustrare i suoi dogmi può avere bisogno di formule, che prende con estrema libertà e spregiudicatezza da vari sistemi filosofici, perché non è legata a nessun sistema filosofico. Consideriamo S. Tommaso d’Aquino: la Chiesa con Leone XIII (quindi non ai tempi di Galileo, ma tre secoli dopo) lo ha indicato come maestro esemplare, che ha vissuto integralmente il suo cammino verso la verità, e l’incontro tra la verità e la ragione con totale responsabilità, ma in un ambito di appartenenza che formava continuamente la sua personalità, anche di ricercatore filosofico. Quindi la Chiesa non si preoccupa del contesto ideologico e nemmeno dei contenuti della ricerca; si preoccupa di rappresentare, per colui che ricerca, un ambito di appartenenza, che rende realistico il lavoro. Quanto più è realistico il lavoro, tanto meno si possono realizzare delle contraddizioni assolute tra il contenuto della Rivelazione e il contenuto della ricerca, perché il contenuto vero della ricerca è in qualche modo il mistero stesso dell’essere. Qualsiasi ricerca, anche particolare, come ha confidato nei suoi scritti Newton, è come un approssimarsi alle tracce dell’Eterno, ma senza fretta, senza premure, senza concordismi inutili.
La Chiesa per difendere la verità non ha bisogno della scienza e la scienza per porsi come scienza non ha bisogno di concordare con la fede. La scienza ha davanti a sé intero il campo della ricerca e del rischio, perché come ogni attività umana la scienza è un rischio. Occorre che il soggetto che compie questo rischio sia credente; se non lo è, lo compie lo stesso ma in modo implicito; dovendo ritrovare i termini del suo realismo all’interno della sua onestà intellettuale; un esempio in tal senso sono i filosofi greci, nessuno dei quali ha preteso che la sua posizione fosse un assoluto (Socrate insegna). Poichè il contenuto della ricerca è sempre mobile e la ricerca è continuamente in evoluzione, lo stesso incremento delle conoscenze e dei mezzi di ricerca, il traguardo stesso della ricerca si spostano continuamente.
La verità cristiana non è dunque l’eliminazione delle ricerche particolari, ma la possibilità di fare queste ricerche senza esasperazioni e senza riduzioni. Non sarà la scienza a dirci se Dio esiste o no. E non sarà la scienza a cambiare l’uomo circa il suo Destino. La scienza può essere fatta nella certezza del Destino: se è fatta così, è fatta con totale responsabilità e con totale rischio.
Non possiamo infine non riconoscere che la scienza e il progresso tecnologico-scientifico hanno incrementato i mezzi per conoscere e illuminare la realtà, quindi per trasformare in meglio le condizioni di vita dell’uomo, quanto meno quelle materiali. Il presupposto che è sempre valso dall’Illuminismo in poi a questo proposito è che l’incremento della scienza e del progresso tecnologico-scientifico comporta necessariamente l’incremento dell’uomo. Siamo però costretti a chiederci se è vero che l’incremento del progresso tecnologico-scientifico ha incrementato l’uomo come coscienza di sé, come rapporto tra sé e la realtà, come rapporto tra sé e il Destino proprio degli altri uomini. Per spiegarmi mi rifaccio alla terza parte della Redemptor Hominis: L’uomo cresce e crescendo può utilizzare in modo sempre più umano gli strumenti. L’idea che dagli strumenti vengono i fini è stata completamente negata dall’evoluzione stessa della scienza: la scienza non pone i fini, si occupa della ricerca dei significati particolari, che sono significati di fenomeni che interessano regioni del sapere, e non il sapere nella sua univocità.
Che l’uomo possa utilizzare bene la scienza, non deriva dalla scienza, deriva dal livello di maturazione della personalità dell’uomo.
Questo è un altro aspetto per cui quello che è successo nei primi 50 anni del XVII secolo, in quella che poteva sembrare un’ostinata controversia fra ecclesiastici e scienziati è invece quanto mai attuale. Se la Chiesa avesse detto "non ci interessa, pensate su questo quel che volete" avrebbe gravemente sbagliato nella sua vocazione di realtà educante la coscienza ecclesiale e la coscienza umana, perché non è possibile dire che la scienza non interessa a chi ha la preoccupazione di tenere viva l’intera esperienza dell’uomo. I fini l’uomo non li riceve dalla scienza, li riceve da autorità che sono morali, tanto è vero che la scienza per secoli ha ricevuto i fini dall’esperienza cristiana. I fini dell’uomo nascono a livello dell’impegno dell’uomo con il senso profondo della sua esistenza e non è l’analisi di un particolare, dei fenomeni che riguardano regioni del sapere, che possa darcene una formulazione chiara. Può confermarci un’idea di fine, ma non può certamente produrla a tavolino. Per questo la scienza non può fare a meno della filosofia, né può sostituire la filosofia, perché comunque, dal punto di vista naturale, la filosofia nasce come impegno dell’uomo col senso ultimo della sua vita. La scienza può favorire il progresso dell’uomo in quanto non pretende di fissare il fine, ma di dare all’uomo, che cresce nella consapevolezza del suo fine, strumenti per l’ottenimento di obiettivi particolari.
Luigi Negri.
Prefazione al libro "Galileo Galilei. Mito e realtà"

Postato da: giacabi a 20:20 | link | commenti
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