Prima di Augias, Odifreddi e Dawkins...
Di Francesco Agnoli (del 26/11/2010 @ 16:43:36, in Storia del Novecento, linkato 207 volte)
Scrive: “o preti, non è lontano il tempo in cui cesserete di essere inutili e falsi apostoli di una religione bugiarda e in cui, lasciando al passato la menzogna e l’oscurantismo, abbraccerete la verità e la ragione, e getterete la tonaca alla fiamma purificatrice del progresso”.
Anche il figlio di Alessandro è un amante del socialismo, del progresso, della “ragione”, contro l’oscurantismo dei credenti. Egli, nei suoi viaggi lontano dalla patria romagnola, arriva a Trento nel 1908, chiamato dal partito socialista locale, e subito viene onorato come grande oratore, “versato soprattutto in anticlericalismo”. Qui, nella città del Concilio, scaglia i suoi strali contro l’ “idra clericale”, in nome della “Redenzione umana”. Non crede in Dio, ma nell’avvenire dell’umanità, radioso e splendente.
Occorre solo eliminare i nemici, gli avversari, coloro che si oppongono al trionfo del bene, all’ “internazionalismo”, all’ “anti-religiosismo”, all’ “affratellamento dei popoli”. Questi nemici sono la Chiesa, il militarismo, il “morbus sacer” del nazionalismo, l’ “Austria guerrafondaia”, guidata da un sovrano ridicolmente cattolico, e i militaristi germanici.
Declama, a testa alta: “I milioni che dovrebbero destinarsi al popolo, a sollevare il popolo, sono invece inghiottiti dall’esercito. Il militarismo! Ecco la mostruosa piovra dai mille viscidi tentacoli che succhiano senza tregua il sangue e le migliori energie del popolo”. Per il giovane rivoluzionario a succhiare il sangue del popolo italiano c’è anche la Chiesa, “grande cadavere”, “lupa cruenta”, “covo di intolleranza”, e i suoi preti, “pipistrelli”, “sanguisughe”, “pallide ombre del medioevo”, “sudici cani rognosi”, che vogliono mantenere il popolo nell’ignoranza.
Le vicende di Galilei e di Giordano Bruno, scrive sempre con vigore il nostro giornalista, sono lì a dimostrare chi sono i nemici della ragione e del progresso. Eppure, prosegue, oggi Marx ci ha finalmente aperto gli occhi, ci ha rivelato che Dio non esiste, e con lui Darwin, che ha dato un grosso colpo alle teorie della Bibbia, tanto che “nessun altra dottrina ha avuto portata maggiore di quella del grande naturalista inglese”.
Mentre scrive, il giovane rivoluzionario si concede qualche scappatella, con donne che poi abbandona senza tanti scrupoli. “E’ vero che a Losanna – scrive - ebbi relazione con una divorziata, ma così per la carne, non per l’anima”. E mentre frequenta svariate signore, e percorre i corridoi dei bordelli, scrive articoli intitolati “Meno figli, meno schiavi!” e definisce l’amore “una grandissima cosa: ma non è poi solo e non è tutto. E’ un mezzo per conservare la specie”, un artificio della natura solo per mantenere se stessa, come ogni buona dottrina materialista insegna.
Queste esperienze e queste convinzioni, non gli impediscono di spiegare ai suoi lettori che i sacerdoti sono sempre degli sporcaccioni, e come loro le suore. Esse, in particolare, sono il bersaglio preferito della pubblicistica socialista, cui il nostro appartiene: si racconta che nei “reclusori” le suore abbiano sempre tresche orrende con le detenute, e che siano delle crudeli violentatrici.
Nel romanzo Orkinzia, degli stessi anni, le “suore infami” fanno violenza “su fanciullette ignude, incatenate, con le braccia dietro la schiena”. I preti, poi, sono orride creature che passano “ributtanti malattie veneree” ai bambini, come “porci in veste talare che pullulano ogni giorno nelle cronache dei giornali come funghi schifosi ammorbanti l’umanità coi loro fetori”.
Per dimostrarlo il nostro racconta appena può, colorandoli il più possibile, gli atti immorali di qualche sacerdote, di qualche suora, di qualche catechista. “Lo so, aggiunge, che questo fa ciccare i ciarlatani neri, ma ne dovranno inghiottire molti altri di questi che sono per loro rospi vivi che guazzano nelle cloache massime e minime”.
La verità, continua infine il nostro, è “che certi voti di castità non possono essere mantenuti senza forzare la natura umana”, che, come si è già detto, è solo animalità ed istinto. Così i preti sono degli ipocriti, perché proclamano una morale disumana, ma la tradiscono di continuo: anche andando a caccia, e cioè “uccidendo tante piccole esistenze create da Dio, se dobbiamo por fede alla Genesi”, e violando il sacro “pacifismo”.
Oltre ad articoli di giornale, il nostro scrive anche un romanzo, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”, infarcito di violenze e turpitudini, adattissimi alla polemica anticlericale, e prende le difese degli ebrei, ingiustamente “martoriati e suppliziati”, ovviamente dalla Chiesa.
Ma chi è questo socialista difensore della purezza, della pace, della tolleranza, di Marx e Darwin, della scienza e del progresso, i cui pregiudizi e le cui calunnie sono ancor oggi condivisi da non pochi giornalisti ed intellettuali alla moda, esattamente un secolo dopo?
Per chi non lo avesse riconosciuto, il suo nome è Benito Mussolini.
Postato da: giacabi a 19:26 |
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ideologia, storia
Il "caso Galileo"
***
Galileo Galilei
16/06/2010
E' il cavallo di battaglia di tanta pubblicistica anticattolica. Utilizzato per bollare la Chiesa come nemica della scienza. Ecco perché è importante tornare a parlarne. Dicendo la verità su come si svolsero i fatti.
Di S.E. Mons. Luigi Negri
Si è concluso non da molto l'anno galileiano e non sono mancate pubblicazioni e articoli che hanno trattato del cosiddetto "caso Galileo". Allora perché interrogarsi ancora sulla vicenda galileiana? Sono almeno due i livelli per cui è importante occuparsene. Sicuramente ricostruire da un punto di vista storico, al di là di tutte le interpretazioni ideologiche e di tutti i pregiudizi, la dialettica tra Galileo e la Chiesa del suo tempo è importante per chiarire che la Chiesa "non è mai stata" e "non è", come vorrebbe certa storiografia laicista, contro la scienza. Il cosiddetto "caso Galileo", come ha avuto modo di precisare l'allora card. Ratzinger, «ancora poco considerato nel XVII secolo, viene - già nel secolo successivo - elevato a mito dell'illuminismo». Secondo tale prospettiva, continuava lo stesso card. Ratzinger, «Galileo appare come vittima di quell'oscurantismo medievale che permane nella Chiesa. […] Da una parte troviamo l'Inquisizione: il potere che incarna la superstizione, l'avversario della libertà e della conoscenza. Dall'altra la scienza della natura, rappresentata da Galileo». Una puntuale ricostruzione storica ha dimostrato ormai con chiarezza che l'obiezione della Chiesa al copernicanesimo di Galileo derivava dal fatto che si affermavano come teorie scientificamente dimostrate delle ipotesi che in realtà avevano ancora bisogno di ulteriori sviluppi e giustificazioni. Le parole di Bellarmino, scritte al padre carmelitano Foscarini, non lasciano adito a dubbi: «quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisognaria andar con molta circospezione in esplicitare le Scritture che paiono contrarie e più tosto dire che non l'intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Inoltre, la preoccupazione della Chiesa era di natura pastorale, ciò che la muoveva non era la volontà di difendere Tolomeo contro Copernico, quanto di evitare che attraverso la divulgazione di teorie non ancora dimostrate si favorisse la libera interpretazione delle Scritture secondo il modello protestante, aprendo inevitabilmente a quella prospettiva soggettivistica e individualistica della fede introdotta da Lutero. Solo se si tiene conto del difficile e drammatico momento storico in cui ci si trovava, si può comprendere una certa rigidità con cui la Chiesa si è posta nel difendere l'interpretazione di alcuni passi delle Scritture, in cui si faceva riferimento al movimento del sole, commettendo l'errore di suffragare la teoria tolemaica con tali passi. Tuttavia ciò che interessava veramente alla Chiesa era difendere la fede del popolo, evitare cioè che in una situazione così delicata un dibattito ancora aperto investisse scriteriatamente il popolo. Con questo non si vuol dire che l'atteggiamento della Chiesa del tempo sia stato esente da errori, ma che la questione in gioco sia più complessa di quanto evidenziato da quelle ricostruzioni parziali che denigrano la Chiesa come oscurantista. Per questo motivo Giovanni Paolo II ha precisato che il "caso Galileo" può essere visto come «una tragica reciproca incomprensione» che erroneamente «è stata interpretata come il riflesso di un'opposizione costitutiva tra scienza e fede» (Giovanni Paolo II, Discorso all'Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992). Il secondo livello, forse ancora più urgente da recuperare, è quello del carattere profetico inscritto nella vicenda galileiana. In essa possiamo dire che incomincia a farsi strada quella concezione di ragione che negli ultimi tre secoli si è dimostrata essere dominante: una ragione razionalistica che finalizza la conoscenza della realtà alla manipolazione tecnologica della stessa realtà. Galileo, nel tentativo assolutamente legittimo e positivo di fondare un sapere scientifico su basi metodologiche nuove, si è però dimostrato troppo sbrigativo nel liberarsi delle cosiddette "qualità secondarie", affermando non solo che gli unici aspetti che si potevano conoscere fossero gli aspetti quantitativi, ma addirittura che fossero gli unici presenti effettivamente nella realtà percepita. Rinunciare alle qualità secondarie significava considerare privo di senso qualsiasi discorso intorno alla natura propria di ciascuna realtà, significava ritenere «impresa non meno impossibile e per fatica non men vana» «il tentar l'essenza». Si può, pertanto, affermare che nella vicenda galileiana si apriva una questione estremamente delicata: la concezione di scienza, a cui introduceva il galileismo (non Galileo in quanto tale), successivamente sviluppata dall'illuminismo e dal positivismo, rischiava di ridurre la ragione al tecno-scientismo e di affermare un potere assoluto su tutto, compreso sull'uomo. Oggi questo rischio è più che mai presente, come Benedetto XVI ha sottolineato nella sua ultima enciclica: «Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l'umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l'essere e la verità. In tal caso, noi tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto. Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l'efficienza e l'utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato». Ovviamente, questo non significa non volere riconoscere che, proprio grazie a Galileo, sia nata la scienza moderna, rivelatasi per la storia dell'umanità una delle più straordinarie possibilità positive. Le scoperte scientifiche e tecnologiche che si sono susseguite dal 1600 ad oggi hanno contribuito certamente a migliorare la vita degli uomini. Tuttavia, occorre tenere presente come, allo stesso tempo, sia nata e si sia sviluppata una concezione di scienza che, invece di favorire la piena realizzazione dell'uomo, si è ritorta contro lo stesso uomo, pretendendo, ad esempio, di dominare la vita dalla sua origine (eugenetica) alla sua fine (eutanasia). L'uomo rischia così di essere ridotto a mero oggetto, venendo trattato come realtà senza anima, senza quella dignità assoluta e senza quella libertà che caratterizzano ontologicamente la persona. È sempre più urgente che la scienza non sia vissuta come un potere assoluto e riconosca, invece, che esiste un orizzonte di senso e di valore più grande entro cui è chiamata a muoversi. È proprio questo orizzonte più grande che la Chiesa ha cercato di difendere nella vicenda di Galileo, secondo una preoccupazione di cui oggi si può cogliere ancora più chiaramente il senso. Una scienza senza l'idea di un destino buono dell'uomo da servire finisce inevitabilmente per essere padrona dell'uomo, generando così una forma radicale di schiavitù senza precedenti, come ha denunciato anche Guardini: «chi guarda attentamente, scopre nella vita delle democrazie, così apparentemente libera, i sintomi più preoccupanti di una coercizione indiretta che si esercita attraverso l'apparato della cultura tecnologica». Proprio per questo, se si vuole uscire dalle strettoie imposte dalla mentalità razionalistico-scientista, diventa sempre più fondamentale e decisivo recuperare «il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione», come ha invitato a fare Benedetto XVI. Occorre non dimenticare che «una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008).
Da non perdere
Luigi Negri - Franco Tornagli, Con Galileo, oltre Galileo, Sugarco, Milano 2009, pp. 242, €18,00.
Il libro si divide in due parti. Nella prima, Luigi Negri colloca il "caso Galileo" nel contesto storico-culturale dell'epoca successiva alla Riforma protestante, che vede la contemporanea sfida lanciata alla tradizione cattolica dal fideismo protestante e dallo scientismo, che anche Galilei contribuì a diffondere. Nella seconda, il docente di matematica Franco Tornaghi entra nel merito scientifico della questione. Nella conclusione dell'opera, si trovano utili appendici e tavole cronologiche che la rendono molto utile per chi volesse cominciare ad affrontare il problema.
(il Timone)
Postato da: giacabi a 07:33 |
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scienza - articoli, storia
I gesuiti del Far West
Oggi
che ucronia, fantastoria e "storia controfattuale" vanno tanto di moda,
immaginiamoci uno scenario inedito. Roma, Porta Pia, 20 settembre 1870:
l’artiglieria piemontese ha fatto il suo dovere, la breccia è
praticata, le fanfare del La Marmora suonano alte, una nube di polvere e
di grida annunzia la carica dei bersaglieri: quand’ecco che, dall’alto
delle mura, un nugolo di frecce accoglie i fanti piumati mentre dagli
spalti dei difensori non si alzano i «Viva il papa!» dei gendarmi
pontifici né i «Saint Pierre et Saint Louis!» degli zuavi, ma belluine grida di guerra simili allo stridere del falco e all’ululare del lupo.
Non accadde: ma non si andò lontano dal vederlo accadere. Alla vigilia dell’aggressione, difatti, due capotribù della gente dei Cœur d’Alène, stanziata nel nordovest degli Stati Uniti, nell’area delle Montagne Rocciose, scrivevano generosamente al papa: non avevano grande esperienza di guerra, dicevano, ma avrebbero potuto essere utili in quel duro momento di prova, e si ritenevano «fortunati di poter versare il loro sangue e donare le loro vite per il nostro buon padre Pio IX». E qui non siamo più nella fantascienza: al contrario, da una trentina d’anni quella era storia, storia vera. Tanto della Chiesa, quanto dell’America e dei suoi popoli nativi, in quel momento minacciati da una sparizione che si sarebbe purtroppo di lì a poco largamente tradotta in uno dei più tremendi e dei meno noti genocidi della storia.
In un libretto non ampio, ma denso di fatti ben narrati e documentati, Mission. I gesuiti tra gli indiani del West, il giornalista e pubblico amministratore forlivese Paolo Poponessi, che da anni si occupa della storia della Compagnia di Gesù in America, ci fornisce una sintesi delle sue ricerche relative alla sconosciuta o quasi epopea degli "abiti neri" – come li chiamavano appunto i pellerossa – in un’area del Nordamerica di antica colonizzazione in parte francese, nella seconda metà dell’Ottocento. Scorrendo questa ricerca, ci si accorge che per noi italiani quegli avvenimenti sono altresì parte della nostra storia patria: molti furono difatti i gesuiti italiani che s’impegnarono in un’opera di missione che si avviò a partire dalla primavera del 1841 nella sterminata, bella ma impervia e inospitale area delle Montagne Rocciose e riguardò etnie come i Teste Piatte, i Nasi Forati, i Cœur d’Alène e i Kalispel. La prima vera e propria missione cattolica in quell’area fu quella di Saint Mary nel Montana, così chiamata in onore della Vergine e di una ragazzina indiana di tredici anni ch’era morta in quel luogo e che, battezzata dai già cattolici irochesi, aveva assunto il nome cristiano di Mary. Essa, morendo, aveva misteriosamente previsto la nascita in quel luogo di una missione.
Noi li chiamiamo "pellerossa", secondo l’uso dei coloni americani che definivano redskins quella gente abituata a tingersi il corpo d’ocra quando scendevano sul "sentiero di guerra"; ma i missionari preferivano rimaner fedeli al termine indians, che nell’America settentrionale traduceva alla lettera quello indios applicato fin dal Cinquecento dagli spagnoli a coloro che, con espressione politically correct, andrebbero definiti nativi americani. Convertiti a varie confessioni cristiano-riformate, ma anche ingannati da patti che il governo statunitense stipulava con loro e che venivano regolarmente disattesi, devastati dalla diffusione dell’alcol, decimati da malattie contagiose in alcuni casi diffuse premeditatamente (le celebri coperte contaminate dal bacillo del vaiolo), i nativi a mericani avevano già da tempo ormai iniziato al loro via crucis che li avrebbe condotti alla semi-sparizione e al concentramento in poche riserve. Ma la Chiesa cattolica d’America aveva stabilito, nel sinodo plenario di Baltimora del 1833, che la conversione e la cura animarum degli indiani dovesse venir affidata alla Compagnia di Gesù, ch’era già piuttosto forte in Canada e presente nel Missouri.
L’impresa fu affidata a un gesuita fiammingo poco più che trentenne, Pierre Jean de Smeet, il quale era già entrato in contatto con i Teste Piatte, nemici storici dei Piedi Neri: già in contatto con gruppi di missionari protestanti ma non troppo soddisfatti dell’approccio, gli indiani della zona preferirono affidarsi agli "abiti neri". De Smeet avrebbe avuto modo anche d’incontrare storici e leggendari capi indiani, come Toro Seduto e Cavallo Pazzo. La missione del ’41 comprendeva, oltre a De Smeet, il vandeano Nicholas Point, l’alsaziano Joseph Specht, i belgi William Claessens e Charles Huet e l’italiano Gregorio Mengarini che sarebbe divenuto linguista esperto negli idiomi dei nativi americani.
Il titolo Mission che Poponessi ha scelto per il suo saggio non s’ispira arbitrariamente al celebre film dedicato alle reducciones gesuite del Guaranì, soppresse nel Settecento dal governo portoghese guidato dall’illuminista marchese di Pombal e difensore degli interessi degli schiavisti della regione di San Paolo: quelle reduccionesfraintese e calunniate da personaggi come Voltaire e Moravia. Quei gesuiti attivi nel Nordovest statunitense in pieno Ottocento s’ispiravano infatti a un libro, il Cristianesimo felice del nostro grande Ludovico Antonio Muratori, il quale sui gesuiti del Guaranì ha detto cose ben più serie e veritiere di quelle che si leggono nel voltairiano Candido.
Non accadde: ma non si andò lontano dal vederlo accadere. Alla vigilia dell’aggressione, difatti, due capotribù della gente dei Cœur d’Alène, stanziata nel nordovest degli Stati Uniti, nell’area delle Montagne Rocciose, scrivevano generosamente al papa: non avevano grande esperienza di guerra, dicevano, ma avrebbero potuto essere utili in quel duro momento di prova, e si ritenevano «fortunati di poter versare il loro sangue e donare le loro vite per il nostro buon padre Pio IX». E qui non siamo più nella fantascienza: al contrario, da una trentina d’anni quella era storia, storia vera. Tanto della Chiesa, quanto dell’America e dei suoi popoli nativi, in quel momento minacciati da una sparizione che si sarebbe purtroppo di lì a poco largamente tradotta in uno dei più tremendi e dei meno noti genocidi della storia.
In un libretto non ampio, ma denso di fatti ben narrati e documentati, Mission. I gesuiti tra gli indiani del West, il giornalista e pubblico amministratore forlivese Paolo Poponessi, che da anni si occupa della storia della Compagnia di Gesù in America, ci fornisce una sintesi delle sue ricerche relative alla sconosciuta o quasi epopea degli "abiti neri" – come li chiamavano appunto i pellerossa – in un’area del Nordamerica di antica colonizzazione in parte francese, nella seconda metà dell’Ottocento. Scorrendo questa ricerca, ci si accorge che per noi italiani quegli avvenimenti sono altresì parte della nostra storia patria: molti furono difatti i gesuiti italiani che s’impegnarono in un’opera di missione che si avviò a partire dalla primavera del 1841 nella sterminata, bella ma impervia e inospitale area delle Montagne Rocciose e riguardò etnie come i Teste Piatte, i Nasi Forati, i Cœur d’Alène e i Kalispel. La prima vera e propria missione cattolica in quell’area fu quella di Saint Mary nel Montana, così chiamata in onore della Vergine e di una ragazzina indiana di tredici anni ch’era morta in quel luogo e che, battezzata dai già cattolici irochesi, aveva assunto il nome cristiano di Mary. Essa, morendo, aveva misteriosamente previsto la nascita in quel luogo di una missione.
Noi li chiamiamo "pellerossa", secondo l’uso dei coloni americani che definivano redskins quella gente abituata a tingersi il corpo d’ocra quando scendevano sul "sentiero di guerra"; ma i missionari preferivano rimaner fedeli al termine indians, che nell’America settentrionale traduceva alla lettera quello indios applicato fin dal Cinquecento dagli spagnoli a coloro che, con espressione politically correct, andrebbero definiti nativi americani. Convertiti a varie confessioni cristiano-riformate, ma anche ingannati da patti che il governo statunitense stipulava con loro e che venivano regolarmente disattesi, devastati dalla diffusione dell’alcol, decimati da malattie contagiose in alcuni casi diffuse premeditatamente (le celebri coperte contaminate dal bacillo del vaiolo), i nativi a mericani avevano già da tempo ormai iniziato al loro via crucis che li avrebbe condotti alla semi-sparizione e al concentramento in poche riserve. Ma la Chiesa cattolica d’America aveva stabilito, nel sinodo plenario di Baltimora del 1833, che la conversione e la cura animarum degli indiani dovesse venir affidata alla Compagnia di Gesù, ch’era già piuttosto forte in Canada e presente nel Missouri.
L’impresa fu affidata a un gesuita fiammingo poco più che trentenne, Pierre Jean de Smeet, il quale era già entrato in contatto con i Teste Piatte, nemici storici dei Piedi Neri: già in contatto con gruppi di missionari protestanti ma non troppo soddisfatti dell’approccio, gli indiani della zona preferirono affidarsi agli "abiti neri". De Smeet avrebbe avuto modo anche d’incontrare storici e leggendari capi indiani, come Toro Seduto e Cavallo Pazzo. La missione del ’41 comprendeva, oltre a De Smeet, il vandeano Nicholas Point, l’alsaziano Joseph Specht, i belgi William Claessens e Charles Huet e l’italiano Gregorio Mengarini che sarebbe divenuto linguista esperto negli idiomi dei nativi americani.
Il titolo Mission che Poponessi ha scelto per il suo saggio non s’ispira arbitrariamente al celebre film dedicato alle reducciones gesuite del Guaranì, soppresse nel Settecento dal governo portoghese guidato dall’illuminista marchese di Pombal e difensore degli interessi degli schiavisti della regione di San Paolo: quelle reduccionesfraintese e calunniate da personaggi come Voltaire e Moravia. Quei gesuiti attivi nel Nordovest statunitense in pieno Ottocento s’ispiravano infatti a un libro, il Cristianesimo felice del nostro grande Ludovico Antonio Muratori, il quale sui gesuiti del Guaranì ha detto cose ben più serie e veritiere di quelle che si leggono nel voltairiano Candido.
Franco Cardini
Postato da: giacabi a 21:00 |
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storia
Un vero amico degli indiani
Padre De Smet
A cura di Isabella SquillariPeter John De Smet, missionario, nato a Termonde, Belgio, il 31 dicembre 1801; morto a St. Louis, Missouri, nel maggio 1872.
Svolse i suoi studi nel seminario episcopale di Mechlin, ed è in questo periodo che sentì di voler dedicare sé stesso alla conversione degli indiani d’America. Quando il vescovo Nerinx visitò il Belgio in cerca di missionari, De Smet, insieme ad altri cinque studenti, si offrì volontario per accompagnarlo. Il governo diede ordine di fermarli ma essi riuscirono a sfuggire agli agenti che li cercavano e salparono da Amsterdam nel 1821.
Dopo una breve sosta a Philadelphia, De Smet entrò come novizio tra i Gesuiti a Whitemarsh, nel Maryland.
Una fotografia di Padre De Smet
Qui vestì l’abito dell’Ordine ma dopo due anni la missione venne chiusa; egli era quasi in procinto di ritornare in Belgio quando venne invitato dal vescovo Dubourg a Florissant, dove completò la sua educazione e prese i voti.
Nel 1828 si recò a St. Louis, dove prese parte alla fondazione dell’Università di St. Louis presso la quale divenne in seguito professore. Nel 1838 fu mandato a creare una missione a Sugar Creek, tra i Pottawattamie. Costruì una cappella con a fianco un capanno di tronchi per sé, padre Verreydt e un convertito. Costruì anche una scuola che si riempì subito di allievi, ed in breve tempo riuscì a evangelizzare la maggior parte della tribù.
Nel 1840 chiese al vescovo di St. Louis il permesso di recarsi tra i Flathead delle Rocky Mountains per portare avanti la sua opera. Quando gli venne fatto presente che non c’era denaro per una simile spedizione, egli rispose che i mezzi sufficienti sarebbero sicuramente arrivati dall’Europa. Il 30 aprile 1840 partì da Westport con la carovana annuale della American Fur Company, la cui destinazione era Green River.
Il 14 luglio raggiunse il campo di Peter Valley dove trovò circa 1.600 indiani riuniti ad aspettarlo. Essi avevano mantenuto le tradizioni e gli insegnamenti che i missionari francesi avevano portato in quel luogo due secoli prima, quindi padre De Smet non fece fatica a convertirli. Con l’aiuto di un interprete egli tradusse nella loro lingua il Padre Nostro, il Credo e i Comandamenti. Nell’arco di quindici giorni i Flathead impararono queste preghiere e i Comandamenti, che vennero spiegati loro in seguito.
Padre De Smet incontra gli indiani
Nella primavera del 1841 partì nuovamente, insieme ad altri due missionari e due conversi, tutti meccanici esperti. Dopo essere passati attraverso il territorio di diverse tribù, attraversarono il Platte, e a Fort Hall trovarono ad attenderli un gruppo di Flathead che avevano percorso 800 miglia proprio per prendere in consegna i missionari e servire loro da scorta.
Padre De Smet trasportato dagli indiani
Padre De Smet in viaggio su una slitta
Ancora De Smet in mezzo agli indiani
Padre De Smet, insieme a cinque Gesuiti e sei Sorelle, salpò da Antwerp nel dicembre 1843 e giunse a Fort Vancouver nell’agosto 1844. Qui gli venne offerto un appezzamento lungo il Willamette River per costruire una missione centrale, ed egli iniziò subito a preparare il terreno e ad erigere gli edifici necessari.
Un ritratto del Padre
Nel 1845 egli iniziò una serie di missioni tra gli Zingomene, i Sinpoll, gli Okenagane, i Flatbow e i Koetenay, tribù che si spingevano fino allo spartiacque del Saskatchewan e del Columbia, fino agli accampamenti delle tribù nomadi Assiniboin e Creek, e fino alle stazioni di Fort St. Anne e Bourassa. Si recò in Europa parecchie volte in cerca di aiuto per le sue missioni. In effetti, egli calcolò che i viaggi che aveva affrontato per terra e per mare fino al 1853 dovevano corrispondere a più di cinque volte la circonferenza della Terra.
La mappa disegnata da Padre De Smet per spiegare il trattato del 1851
Padre De Smet venne fatto Cavaliere dell’Ordine di Leopoldo dal re del Belgio. I suoi scritti più conosciuti sono “The Oregon Missions and Travels over the Rocky Mountains”, “Indian Letters and Sketches”, “Western Missions and Missionaries” e “New Indian Sketches”, tutti tradotti in lingua inglese
Postato da: giacabi a 20:56 |
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storia
IPAZIA/
Attenti ai falsi, non è stata la Chiesa a far fuori l’"illuminista" del V secolo…
venerdì 7 maggio 2010
Ipazia,
singolare figura di donna che si occupa di filosofia e di scienze,
tenendo testa in modo autorevole ai leader culturali del suo tempo, e
che incontra una morte tragica e cruenta a motivo delle sue idee e per
avere osato, lei donna, mettersi sullo stesso piano degli uomini. Vi
sono tutti gli elementi per fare di un personaggio del genere un
simbolo, e non a caso a Ipazia sono stati dedicati libri, racconti,
opere teatrali, anche da nomi illustri (come Mario Luzi col suo Libro di Ipazia).
Ma qual è in realtà il rapporto tra l’Ipazia della storia e questa
Ipazia idealizzata dalla letteratura e divulgata dai media?
Precisiamo
innanzitutto che le notizie su Ipazia sono scarsissime. Abbiamo
un’unica fonte storica contemporanea, Socrate Scolastico, e pochi altri
riferimenti giungono da autori contemporanei o di poco posteriori. Ne
emerge una figura di donna sicuramente dotata di grande cultura e di
carisma, affascinante e ricca di temperamento, single per scelta. Figlia
di un grande scienziato di Alessandria, Teone, nacque attorno al 370.
Fu versata nella scienza dell’astronomia e della geometria e scrisse
vari libri di commenti (tutti perduti) ad alcuni trattati fondamentali
di quelle discipline e si occupò di filosofia, con insegnamenti pubblici
e privati che attiravano un pubblico numeroso. Fu probabilmente seguace
delle dottrine neoplatoniche allora molto diffuse, ma non può essere
definita un filosofo nel senso stretto del termine. Rispetto a un
filosofo suo contemporaneo, Isidoro di Pelusio, Ipazia era differente
non «come un uomo è differente da una donna, ma come un matematico è
differente da un vero filosofo», dice un autore antico (Damascio)
negandole la qualifica di “filosofo”.
La sua vita ebbe una fine cruenta e crudele nel 415. L’episodio è descritto da Socrate Scolastico (Storia Ecclesiastica VII 15), la cui narrazione vale la pena riportare per esteso: «C’era
una donna in Alessandria, di nome Ipazia: era la figlia del filosofo
Teone. Questa progredì a un livello così elevato di cultura, da
misurarsi coi filosofi del suo tempo e da poter essere considerata
l’erede della filosofia platonica dopo Plotino e da spiegare tutte le
scienze filosofiche a chi lo desiderava: perciò tutti quelli che amavano
la filosofia convenivano da lei. Per la splendida capacità di parlare
che le proveniva dalla sua cultura si presentava in modo assennato anche
alle autorità, e non aveva alcuna remora a stare anche in mezzo a
uomini: tutti la rispettavano per la sua scienza superiore e ne erano
colpiti. Questo fece sorgere la gelosia. Poiché infatti era in
confidenza con Oreste [il prefetto di Alessandria], si produsse nella
gente della Chiesa contro di lei una calunnia, che fosse lei la causa
per cui Oreste non poteva avere buoni rapporti col vescovo. E allora
concordemente degli uomini esaltati, guidati da un certo Pietro il lettore, un
giorno aspettarono la donna mentre tornava a casa e, tiratala giù dal
carro, la trascinarono nella chiesa detta Cesareo, e strappatele le
vesti la uccisero con dei cocci: e dopo averla fatta a pezzi presero le
membra, le portarono al cosiddetto Cinarone e le bruciarono».
Le motivazioni dell’omicidio non sono chiare. Un filosofo vissuto un secolo dopo, Damascio,
che aveva tutti i suoi buoni motivi per avere risentimenti verso il
cristianesimo (era stato l’ultimo rettore dell’Accademia, la scuola
filosofica di Atene quando questa era stata chiusa dall’imperatore
Giustiniano, e aveva dovuto riparare in Persia), afferma che l’uccisione era stata ordinata dal vescovo della città, Cirillo: «Accadde che il vescovo Cirillo,
passando davanti alla casa di Ipazia, vide che c’era molta folla presso
la porta, con gente che entrava e usciva e alcuni che si fermavano.
Chiese che cosa fosse quella folla e il motivo della confusione intorno
alla casa, e venne a sapere dal suo séguito che c’era un discorso della
filosofa Ipazia e che quella era la sua casa. Appreso questo il suo
animo fu così contrariato, da ordire immediatamente la sua uccisione,
più orrenda di tutte le uccisioni».
Il
motivo del coinvolgimento del vescovo viene poi ripetuto acriticamente
in tutte le riprese successive. Ma se si esaminano i fatti storici
reali, basandoci unicamente sui documenti, si conclude che non vi è
nessuna prova di questa affermazione. La morte di Ipazia si colloca nel
quadro di un’età e di una zona in cui la confusione e le turbolenze sono
al massimo grado e investono tanto l’autorità civile quanto la comunità
cristiana. È un mondo di grandi contrasti l’Egitto di quell’epoca. Un
mondo in cui si hanno documenti di sincretismo religioso quasi
impensabili per noi e tensioni al limite dell’esplosione, fra ortodossi
ed eretici, fra cristiani e pagani, fra cristiani e gnostici (lo
gnosticismo aveva molti adepti in questa fase: e poiché gli gnostici
amavano celebrare le loro festività nei giorni dedicati alle festività
cristiane, i Cristiani intervennero perché si ponesse fine a questa
indebita appropriazione). Più ancora che i testi degli storici, sono gli
atti delle vita quotidiana (iscrizioni, papiri) a darci un quadro
realistico di questa confusione. A ciò si aggiunga, come ricordano le
fonti antiche, il temperamento
naturalmente appassionato e veemente della popolazione in quel
microcosmo multietnico e multiculturale che era la Alessandria
dell’epoca.
Quando
Ipazia fu uccisa, era vescovo da tre anni Cirillo, un personaggio di
grande cultura ma di condotta tutt’altro che accorta nel reggere la sede
vescovile, tanto da venire in contrasto con l’autorità civile (il
prefetto Oreste), col Papa Celestino I, con altri vescovi e personalità
dell’Oriente cristiano. Il racconto di Damascio è in ogni caso
inverosimile quando presuppone che Cirillo non conoscesse la fama di
Ipazia e fosse spinto da un impulso improvviso di gelosia. Neppure
l’argomento femminista è ragionevole: anche nella comunità cristiana vi
erano donne di elevata cultura e di grande operosità, quindi la condotta
di Ipazia non era scandalosa da questo punto di vista. Anche il motivo
religioso è da respingere. Per quel poco che sappiamo, Ipazia
aderiva alle tesi neoplatoniche, che affascinarono molti pensatori
cristiani e diedero un’ispirazione positiva a loro opere. Il suo
discepolo Sinesio poté essere vescovo di Cirene e manifestare nelle sue
lettere simpatia e devozione per la sua venerata maestra, definita theophilés, “amata da Dio”.
Più
probabile il motivo politico: Ipazia venne identificata (a ragione o
torto) come la causa principale dell’attrito tra autorità religiosa e
autorità politica, e dei fanatici pensarono di eliminare alla radice la
causa del dissidio: alcuni moderni chiamano in causa i parabolani, una
confraternita di infermieri-becchini che anche in altre occasioni si era
arrogata il compito di intervenire in controversie ecclesiastiche in
modo rozzo e violento. Una loro responsabilità peraltro non risulta da
alcuna fonte. Un anno dopo l’uccisione di Ipazia un decreto imperiale
limitava il numero dei parabolani a 500 in tutta Alessandria. Mancano
tuttavia connessioni esplicite fra l’uccisione di Ipazia e questo
decreto. Un altro motivo appare in una Cronaca tarda scritta da Giovanni
di Nicea (VII secolo): Ipazia è presentata come una incantatrice che
aveva affascinato con le sue arti magiche Oreste e lo aveva allontanato
dalla Chiesa. Sullo sfondo di questa narrazione stanno gli interessi
astronomici di Ipazia: astronomia e astrologia avevano allora confini
non bene definiti e la scienza degli astri era utilizzata per ricavare
oroscopi e predizioni che creavano scandalo ai fedeli cristiani.
Comunque
stessero le cose, l’uccisione crudele ed efferata di una donna è
comunque evento da condannare, e questa condanna fu espressa chiaramente
dalla comunità cristiana, come c’informa ancora lo storico Socrate
bizantino:
«Questo evento recò non poco biasimo a Cirillo e alla Chiesa di
Alessandria: infatti sono atti del tutto estranei a chi professa i
principi cristiani le uccisioni e le battaglie e azioni del genere».
La
beatificazione laica di Ipazia comincia nel XVIII secolo, quando il
filosofo razionalista irlandese John Toland pubblica un libello
anticristiano intitolato Ipazia, e prosegue incessantemente fino ad
oggi, annoverando titoli come quello di A. Agabiti (Ipazia: La prima martire della libertà di Pensiero, 1914). Ovvero, come fare passare per storia quello che storia non è.
da :ilsussidiario.net
Postato da: giacabi a 14:27 |
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storia
Il crocifisso del samurai
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Postato da: giacabi a 23:24 |
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storia
Galileo Galilei
***
Il
caso Galileo Galilei stando ai fatti: i suoi guai, più che da parte
"clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi
universitari. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa
dall'Università.
"Eppur si muove": storia di un falso
Stando
a un'inchiesta dei Consiglio d'Europa tra gli studenti di scienze in
tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che
Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi
totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato
sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in
grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come
frase "sicuramente storica", un suo "Eppur
si muove!", fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della
sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con
gli anatemi teologici. Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno
dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter
datare esattamente almeno quest'ultimo falso: la "frase storica" fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.
Il 22 giugno del 1633,
nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai
domenicani, udita la sentenza, il Galileo "vero" (non quello del mito)
sembra
mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali
avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della pena.
Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il
tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i
quali c'erano uomini di scienza non inferiore alla sua -
assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una
approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in
realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere. Di più: nei
quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la
Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era
sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo
"scuotimento" delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile,
alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un'altra che Galileo
giudicava "da imbecilli": era, invece, quella giusta. L'alzarsi e
l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta all'attrazione della
Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.
Altri
argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul
moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe
portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio non si opponeva affatto
all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La
prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è
del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione,
bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro
a Umberto Eco. In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico
(Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano
difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano
che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove
decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per
il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero.
Del
resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già
era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618,
erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati
appunto alla sua "scommessa" copernicana, si era ostinato a dire che
si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli
astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente -
sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si
sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della
Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è
in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.
Niente
frasi "titaniche" (il troppo celebre "Eppur si muove!") comunque,
se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi
Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un "caso" che faceva (e fa
ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare
l'incompatibilità tra scienza e fede.
La condanna: continuare il suo lavoro
Torture?
carceri dell'Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti
europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un
solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica.
Anzi, convocato
a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede),
in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e
cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida
villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come
ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti
ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e
incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò
nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il
gioiello".
Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non
gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne
approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze
- che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di
ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa passarono a
discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di
muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo:
quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali.
Questa "pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo tre anni,
ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che
per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e
che, ben lungi dall'ergersi come difensore della ragione contro
l'oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté
scrivere con verità alla fine della vita:
"In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di
cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".
Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell'indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era
l'8 gennaio 1642, nove anni dopo la "condanna" e dopo 78 di vita. Una
delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: "Gesù!".
I
suoi guai, del resto, più che da parte "clericale" gli erano sempre
venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari, cioè, che per
invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia,
fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La
difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.
Vittorio Messori, da Uomini, storia, fede (BUR 2001)
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Postato da: giacabi a 21:29 |
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scienza - articoli, storia
Il segreto dei Mille
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di Vittorio Messori [Da "Pensare la storia", San Paolo, Milano 1992]Messori documenta il ruolo chiave del denaro straniero nella spedizione dei Mille contro il Regno delle Due Sicilie
Per
alcuni è ancora una tradizione passare a Caprera la prima domenica di
giugno, giorno in cui si celebra la festa della Repubblica. Caprera,
si sa, vuoi dire Garibaldi: per un giorno, nei quindici chilometri
quadrati di quell’isola, si medita su colui che qualcuno ancora chiama
"l’Eroe dei Due Mondi".
Eroe dei Due Milioni In realtà, la polemica cattolica aveva storpiato quel nome, trasformandolo in "Eroe dei Due Milioni", alludendo alla pingue rendita assegnatagli dallo Stato italiano. Non mancarono, in effetti, polemiche sulla "povertà" di colui che (stando a quanto si leggeva nei libri edificanti) "donò un Regno ai Savoia senza nulla chiedere per sé". Ma, proprio adesso, nuove ricerche, con relativi documenti sinora sconosciuti, gettano una luce inquietante sul mito "francescano" del Nizzardo (o, meglio, fatta salva la sua personale integrità, su quello dei suoi collaboratori diretti), e possono aprire nuove prospettive sui retroscena dell’epopea risorgimentale. Ci sono brutte novità, insomma, per i superstiti devoti dell’Eroe in capelli biondi, camicia rossa e poncho bianco. I risultati di una ricerca per un convegno massonico La sconcertante rivelazione viene dal convegno "La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria", organizzato a Torino nel settembre del 1988 dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, con l’appoggio di tutte le Logge italiane. Di recente sono stati pubblicati gli Atti, a cura dell’editrice ufficiosa dei massoni. Una fonte sicura dunque, visto il culto dei "fratelli" per quel Garibaldi che fu loro Gran Capo. Un breve intervento - poco più di due paginette, ma esplosive - a firma di uno studioso, Giulio Di Vita, porta il titolo Finanziamento della spedizione dei Mille. Già: chi pagò? Come riconosce lo stesso massone autore della ricerca: "Una certa ritrosia ha inibito indagini su questa materia, quasi temendo che potessero offuscare il Mito. Quanto viene solitamente riferito è un modesto versamento - circa 25.000 lire fatto da Nino Bixio a Garibaldi in persona all’atto dell’imbarco da Quarto". Tre milioni di franchi francesi per “alleggerire” la resistenza borbonica E invece, lavorando in archivi inglesi, l’insospettabile Di Vita ha scoperto che, in quei giorni, a Garibaldi fu segretamente versata l’enorme somma di tre milioni di franchi francesi, cioè (chiarisce lo studioso) "molti milioni di dollari di oggi". Il versamento avvenne in piastre d’oro turche: una moneta molto apprezzata in tutto il Mediterraneo. A che servì quell’autentico tesoro? Sentiamo il nostro ricercatore: "È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall’oro". Anche perché ai finanziamenti segreti se ne aggiunsero molti altri (e notevolissimi, palesi) frutto di collette tra tutti i "democratici" di Europa e America, del Nord come del Sud. La resa di Palermo – mille contro centomila - diventa meno inspiegabile Sarebbero così confermate quelle che, sinora, erano semplici voci: come, ad esempio, che la resa di Palermo (inspiegabile sul piano militare) sia stata ottenuta non con le gesta delle camicie rosse ma con le "piastre d’oro" versate al generale napoletano, Ferdinando Lanza. Con la prova dei molti miliardi di cui disponeva Garibaldi si può forse valutare meglio un’impresa come quella dei Mille che mise in fuga un esercito di centomila uomini (tra i quali migliaia di solidi bavaresi e svizzeri), al prezzo di soli 78 morti tra i volontari iniziali. La sparizione della documentazione sui fondi Ma c’è di più: il poeta Ippolito Nievo se ne tornava da Palermo a Napoli al termine della spedizione. Il piroscafo su cui viaggiava, l"’Ercole", affondò per una esplosione nelle caldaie e tutti annegarono. Si sospettò subito un sabotaggio ma l’inchiesta fu sollecitamente insabbiata. Le cose possono ora chiarirsi, visto che il Nievo, come capo dell’intendenza, amministrava i fondi segreti e aveva dunque con sé la documentazione sull’impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi. Qualcuno evidentemente non gradiva che le prove del pagamento giungessero a Napoli: non si dimentichi che recenti esplorazioni subacquee hanno confermato che il naufragio della nave del poeta fu davvero dovuto a un atto doloso. Lo sponsor fu il governo inglese Si cominciava bene, dunque, con quella "Nuova Italia" che i garibaldini dicevano di volere portare anche laggiù: una bella storia di corruzioni e di attentati Ma Nievo portava, pare, solo ricevute: dove finirono i miliardi rimasti, e dei quali solo pochissimi capi dei Mille erano a conoscenza? In ogni caso, era una somma che solo un governo poteva pagare. E, in effetti, la fonte del denaro era il governo inglese (non a caso lo sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel porto di Palermo fu firmata la resa dell’isola). Il piano britannico Come riconosce il "fratello" Di Vita, lo scopo della Gran Bretagna era quello già ben noto: aiutare Garibaldi per "colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico". Le monarchiche isole pagarono cioè il repubblicano Eroe perché distruggesse un Regno, quello millenario delle Due Sicilie, purché anche l’Italia, "tenebroso antro papista", fosse liberata dal cattolicesimo. |
Postato da: giacabi a 14:59 |
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messori, storia
L’uguaglianza delle ideologie
nazi-comuniste
"Quando ci guardiamo in faccia l'un l'altro, noi guardiamo uno specchio. Questa è la tragedia dell'epoca. Forse che voi in noi non riconoscete voi stessi, la vostra volontà? Forse che per voi il mondo non è la vostra stessa volontà, qualcosa forse può farvi esitare o fermare? [...] Non c'è nessun abisso tra di noi! [...] siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno Stato di partito"
VASILIJ GROSSMAN da: VITA E DESTINO – dialogo in cui il comandante Liss, un ufficiale delle SS responsabile del lager nazista, dice al vecchio bolscevico Mostovksoj, suo prigioniero
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Postato da: giacabi a 11:55 |
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comunismo, ideologia, storia
Nemmeno i nazisti erano negazionisti
***
«
Ho 46 anni e sono membro del NSDAP dal 1922; membro delle SS dal 1934, e
SS-Waffen dal 1939. Fui membro della Unità di Guardia delle SS,
conosciuta come SS-Totenkopfverbände dal 1º dicembre 1934. Fui
amministratore dei campi di concentramento dal 1934, servendo a Dachau
fino al 1938. Assistente a Sachsenhausen dal 1938 agli inizi del 1940,
fui poi promosso Comandante ad Auschwitz. »
« Rimasi
nel campo di Auschwitz fino al 1º dicembre 1943 e stimo che minimo 2,5
milioni di vittime siano state giustiziate e pertanto avvelenate con il
gas e poi bruciate, e un minimo di 500 mila morirono di stenti, per un
totale di circa 3 milioni di morti... Questa
cifra rappresenta all'incirca il 70 o 80% di tutti i prigionieri che
passarono per Auschwitz, i rimanenti venivano selezionati e usati per i
lavori delle industrie dei campi di concentramento; includendo la morte
di circa 20.000 russi, prigionieri di guerra internati a Auschwitz dagli
ufficiali della Wehrmacht. Le vittime restanti includono circa 10.000
ebrei tedeschi e un gran numero di cittadini, per lo più ebrei,
provenienti da Olanda, Francia, Belgio, Polonia, Ungheria,
Cecoslovacchia, Grecia e da altri paesi. Noi giustiziammo circa 400.000
ebrei ungheresi ad Auschwitz nell'estate del 1944. »
«
Le esecuzioni di massa con il gas ebbero inizio agli inizi del 1941 e
continuarono fino al 1944. Visionai personalmente queste esecuzioni fino
a dicembre del 1943 e questo al servizio delle mie funzioni alla
sovrintendenza dei campi di concentramento della WVHA; tutte le
gasazioni avvenivano per ordine diretto del
RSHA(Reichssicherheitshauptamt), quindi a totale sua responsabilità.
Pertanto gli ordini di genocidio li ricevetti dal RSHA. »
dalla testimonianza di Rudolf Wöss comandante del campo di sterminio di Auschwitz, al processo di Norimberga,15 Aprile 1946,fu impiccato
|
Postato da: giacabi a 22:28 |
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storia
Per Garibaldi tre milioni dalla massoneria
***
◆ Nella spedizione dei Mille il ruolo della massoneria inglese fu determinante. «Il finanziamento di tre milioni di franchi – ha detto Aldo M.
Mola, storico della massoneria e del Risorgimento – proveniva
da un fondo di presbiteriani scozzesi e fu erogato con l’impegno di non
fermarsi a Napoli, ma di arrivare a Roma per eliminare lo Stato
pontificio. Tutta
la spedizione garibaldina fu monitorata dalla massoneria britannica,
che aveva l’obiettivo di eliminare il potere temporale dei Papi. Anche gli Stati Uniti, che non avevano rapporti diplomatici con il Vaticano, diedero il loro sostegno. I
fondi della massoneria servirono a Garibaldi per acquistare a Genova i
fucili di precisione, senza i quali non avrebbe potuto affrontare
l’esercito borbonico
e avrebbe fatto la fine di Carlo Pisacane e dei fratelli Bandiera.
L’affiliazione alla massoneria garantì inoltre a Garibaldi l’appoggio
della stampa internazionale».
Da : http://www.avvenire.it/ 07-07-09
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