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morte, scola
A Milano si trova la fede... di Giacomino Poretti
***
Venerdì, 30 settembre 2011 - 16:00:55
Giacomino Poretti, detto Giacomo (Villa Cortese, 26 aprile 1956), è un attore, comico e regista italiano componente del noto trio comico Aldo, Giovanni & Giacomo. Durante l'incontro di Scola con il mondo della "cultura e della comunicazione sociale " Giacomo Poretti ha letto un discorso molto toccante, che Affaritaliani.it può pubblicare integralmente |
Discorso al Sindaco delle anime
A Milano si trova la fede
di Giacomo Poretti
Eminenza,
nel rivolgerle il mio più caloroso saluto le devo anche porgere le mie scuse perchè il mio non sarà un racconto fedele né tanto meno realistico sulla città, quanto piuttosto la confessione di un innamorato, spero quindi che Lei vorrà perdonare i sentimentalismi e gli eccessi di fantasia, ma forse l’amore e la fantasia, anzichè aggiungere e deformare la realtà, la denudano nella sua semplice bellezza.
Ecco l'I-Perr Reportage
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Tra me e Milano è stato un amore a prima vista. Con i preti invece...ci ho messo un pò di più.
La prima volta che sono venuto a Milano avevo 5 anni ed ero alto 90 cm, ero in compagnia del mio papà, che benchè ne avesse 30 di anni, superava di poco il metro; siamo entrati nello stadio di San Siro per vedere una partita di calcio e siccome all’epoca si stava in piedi ( era il 1960 !), né io né il mio papà riuscivamo a vedere niente, allora il papà mi ha messo sulle sue spalle ed io dovevo raccontargli che cosa succedeva, solo che non conoscevo le regole del gioco e nemmeno i nome dei giocatori, allora il papà mi ha preso in braccio e mi ha detto” va bene ci tornerai quando sarai più grande, ma almeno ti è piaciuto qualche cosa? “si, ho risposto, mi è piaciuta quella squadra con le maglie nere e azzurre”!
Quando siamo arrivati a casa il papà ha detto alla mamma “ oggi a Milano questo bambino ha scoperto la fede!”
Poi sentivo a tavola che i miei genitori dicevano che la fede andava coltivata, e per far questo mia madre mi mandava in chiesa e all’oratorio del paese, il mio papà invece mi portava a vedere l’Inter a San Siro.
All’oratorio ci andavo tutti i giorni, allo stadio una domenica sì e una no.
C’è stato un periodo che la mia squadra vinceva molti scudetti e allora il mio papà mi portava in piazza Duomo a festeggiare. Quando tornavamo a casa alla sera la mamma ci chiedeva dove eravamo stati, il papà diceva... siamo stati in Duomo perchè il bimbo voleva dire una preghiera di ringraziamento alla Madonnina...
la mamma commossa aggiungeva: vista la sua devozione questo bambino bisognerà mandarlo in seminario!
Non saprei dire se malauguratamente o per fortuna, la mia squadra a un certo punto ha smesso di vincere, io ci rimanevo male, ed anche la mamma non si dava pace di come io avevo smesso di pregare e ringraziare la Madonnina.
Nel
frattempo continuavo a frequentare l’oratorio del paese; un giorno il
prete, don Giancarlo, che amava Pirandello e Shakespeare, almeno quanto i
santi Pietro e Paolo, decise di allestire uno spettacolo teatrale e
siccome il cast prevedeva oltre agli adulti tre bambini, uno
grassissimo, uno altissimo e uno bassissimo, io saltai direttamente il
provino ed esordii a teatro come l’attore più basso che avesse mai
calcato le scene.
All’epoca ero affetto da un complesso di inferiorità per cui era una tragedia quando entravo in scena, mi collocavo di fianco al bimbo altissimo, e la gente rideva. Il prete mi disse che dovevo sfruttare i talenti che mi aveva regalato il Signore. A me sembrava crudele sia il Signore sia don Giancarlo. Ma il don insisteva: la tua bassezza ti regalerà un sacco di soddisfazioni. Che cosa!? quel corpicino che non si decideva a crescere? io intanto non mi fidavo del don e continuavo a chiedere nelle mie preghiere al Signore di portarmi un pallone di cuoio e di farmi diventare alto 1metro e 85. Lei lo confermerà Eminenza, il Signore ti ascolta sempre ed esaudisce tutte le cose che chiedi, solo che devi essere abile nel distinguere la differenza tra alto e grande..... finalmente un giorno ho capito, aveva ragione don Giancarlo, il teatro era il gioco più bello del mondo.
Mi ricordo di essermi detto: io voglio fare l’attore. Solo che per fare certi mestieri ti tocca venire a Milano: per fare l’attore e l’Arcivescovo bisogna venire a Milano.
Milano è molto diversa da quella degli anni 60 ma è pur sempre bellissima e stranissima. Per esempio è una città dove ci sono più semafori che alberi, più discoteche che licei classici, più ritrovi per happy hours che librerie, i telefonini invece sono pari con le automobili: 2 per ogni milanese; se per caso le capiterà di andare a fare un giro di sera per la città nei mesi invernali non le sarà difficile incontrare dei cani con il piumino e degli uomini in canottiera. Milano è strana.
All’epoca ero affetto da un complesso di inferiorità per cui era una tragedia quando entravo in scena, mi collocavo di fianco al bimbo altissimo, e la gente rideva. Il prete mi disse che dovevo sfruttare i talenti che mi aveva regalato il Signore. A me sembrava crudele sia il Signore sia don Giancarlo. Ma il don insisteva: la tua bassezza ti regalerà un sacco di soddisfazioni. Che cosa!? quel corpicino che non si decideva a crescere? io intanto non mi fidavo del don e continuavo a chiedere nelle mie preghiere al Signore di portarmi un pallone di cuoio e di farmi diventare alto 1metro e 85. Lei lo confermerà Eminenza, il Signore ti ascolta sempre ed esaudisce tutte le cose che chiedi, solo che devi essere abile nel distinguere la differenza tra alto e grande..... finalmente un giorno ho capito, aveva ragione don Giancarlo, il teatro era il gioco più bello del mondo.
Mi ricordo di essermi detto: io voglio fare l’attore. Solo che per fare certi mestieri ti tocca venire a Milano: per fare l’attore e l’Arcivescovo bisogna venire a Milano.
Milano è molto diversa da quella degli anni 60 ma è pur sempre bellissima e stranissima. Per esempio è una città dove ci sono più semafori che alberi, più discoteche che licei classici, più ritrovi per happy hours che librerie, i telefonini invece sono pari con le automobili: 2 per ogni milanese; se per caso le capiterà di andare a fare un giro di sera per la città nei mesi invernali non le sarà difficile incontrare dei cani con il piumino e degli uomini in canottiera. Milano è strana.
A Milano i parchi sono merce rara e perciò affollattissimi: nonni che accompagnano i nipotini, badanti che accompagnano i nonni, tate che accompagnano i nipotini, amiche delle tate che fanno compagnia alle badanti, insomma, senza contare i genitori che sono da qualche parte della città ad alzare il pil della nazione, ogni nucleo famigliare è composto da almeno 10 o12 elementi, questo spiega , forse, l’enorme impulso dell’edilizia che ha avuto la nostra città recentemente.
Milano è una città tutto sommato ordinata, non vedrà mai code, tranne che per i saldi in Via Montenapoleone o fuori dalla Caritas per il pane quotidiano, si rassicuri Eminenza c’è più gente in coda per il pane che non per il pret a portè, anche se a Milano, si tappi le orecchie,... si vendono più maglioni di cachemire che non copie della Bibbia......A Milano poi c’è un’aria particolare: invece dell’ossigeno noi a Milano abbiamo il pm10, i tecnici assicurano che a Milano l’aria è sempre stata così, probabilmente fin dai tempi del pleistocele...A parole tutti dicono che Milano è brutta e invivibile , che l’aria è irrespirabile, ma alla fine vengono tutti qua: han cominciato i barbari, gli spagnoli, i francesi, gli austriaci, i meridionali, adesso addirittura vengono da paesi lontanissimi con lingue e dialetti difficilissimi, ma alla fine mi creda se riamo riusciti a capire i pugliesi e quelli della basilicata riusciremo a comprendere anche quelli che vengono dalla Tunisia o dalle Filippine, dopotutto non credo che il cous cous sia più difficile da digerire della caponata con le melanzane fritte. L’unica pericolo è che stando a Milano si diventa un pò bauscia, ci si sente superiori rispetto agli altri. Mio papà quando mia sorella ha detto che aveva un fidanzato, lui le ha chiesto
“Sarà minga un terun?”, dopo una settimana di broncio gli è passata; ora ho saputo che mio cognato, il terun, quando sua figlia di 16 anni si è messa a frequentare un ragazzo, lui preoccupato le ha chiesto” sarà mica un extra comunitario?”, c’è sempre qualcuno più a sud di noi da farci sentire superiori; capita anche a quelli di Helsinki che considerano terroni quelli di Copenaghen, la stessa cosa capita tra quelli di Chiavenna e quelli di Malgrate. ( vero Eminenza?)
A Milano chiude un cinema all’anno e ogni anno sorgono 10 sushi bar, anche i teatri non se la passano tanto bene: li abbattono per costruirci dei parcheggi o dei supermercati, poi prendono l’insegna e la mettono sopra un tendone di plastica, un teatro dentro un involucro di plastica si sente provvisorio, i teatri a Milano sono a rischio un po come la michetta, la nebbia e la caseula.......ma Lei lo sa Eminenza che nella sua enorme parrocchia, nei suoi oratori, ci sono circa 120 sale per proiettare film e fare spettacoli teatrali? Io le prometto di non perdere di vista Dio, ma Lei cerchi di non perdere di vista gli oratori, raccomandi ai suoi preti di avere a cuore sant’Ambrogio, san Carlo, ma anche Shakespeare, Pirandello, Dostoevskij, Clint Eastwood e Diego Milito, Lei non immagina che regalo che può fare ai ragazzi : uscire dall’oratorio con la consapevolezza di aver imparato i giochi più belli del mondo: il calcio, il cinema e il teatro!
E poi le do un consiglio: Milano è di una struggente bellezza o al mattino presto o la sera molto tardi, quando quasi tutti dormono; prenda, se può, una bicicletta,...( non ci scriva sopra proprietà dell’Arcivescovado, se no gliela fregano subito) una bici normale.... e vada in piazza dei Mercanti, si spinga fino nelle stradine del Carrobbio, passi davanto al palazzo degli Omenoni, continui fino davanti alla casa del Manzoni, faccia altre 2 pedalate fino piazza san Fedele, in quella Chiesa abbiamo battezzato nostro figlio, continui, continui a pedalare...e poi capirà perchè Milano ha affascinato Visconti, Olmi e perchè due tipi straordinari come Zavattini e De Sica hanno raccontato di un Miracolo a Milano, pedali e poi si fermi dietro al Duomo dove c’è quell’albero bellissimo, di fronte alla libreria san Paolo, si sieda per terra e legga pure un libro, le assicuro che in quel silenzio e in quella magica pace tante cose diventano comprensibili, persino i passaggi più oscuri di Heiddegger...e capirà che Milano le sarà entrata nel cuore.
Prima di rientrare a casa si ricordi di chiudere la bicicletta con il lucchetto.
E va bene noi cercheremo di non perdere di vista Dio, ma lei, che, se posso dirlo, è un po come il Sindaco delle anime, ci aiuti a non perder la strada per la Madonnina.
E che Dio non perda di vista il suo Vescovo e Milano!
da:
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testimonianza, scola
MEETING DI RIMINI/ “Desiderare Dio. Chiesa e post-modernità”, l’intervento del Patriarca
Ago 25, 2010 in Interventi and tagged angelo scola,
MEETING
DI RIMINI – Viene pubblicato qui di seguito il testo integrale
dell’intervento pronunciato dal Patriarca mercoledì 25 agosto al
XXXI Meeting di Rimini:
Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia
“DESIDERARE DIO. CHIESA E POST-MODERNITA’”
1. Desiderio di Dio e realtà
Molti
di voi avranno visto Matrix, il celebre film dei due fratelli polacchi
Wachowski. Il cinema è la lingua franca della nostra società. È un mezzo
formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra
esperienza in modo assai spesso più efficace di tanti discorsi e di
tanti libri.
Ad
ogni modo, in Matrix viene descritto il nostro mondo di tutti i giorni,
ma si fa l’ipotesi che sia solo un paravento per nascondere la realtà
vera. Quale sarebbe? L’umanità sopravvissuta dopo un disastroso evento
cosmico, per continuare ad esistere ha avuto bisogno di speciali
macchine. E queste hanno finito per prendere il sopravvento. E chi le
controlla ha preso il potere. L’umanità quindi vive nell’illusione. Gli
uomini non sono più liberi. Nessuno è a conoscenza del tempo che è
passato da quando il potente neurosimulatore matrix ha assegnato una
data fittizia allo scorrere della storia. Solo Neo, con l’aiuto del
pirata informatico Morfeo e della bella Trinity, può tentare di scoprire
la verità e far ritrovare agli uomini la libertà. In cosa consiste la
verità? Lo dice con chiarezza Morfeo accogliendo Neo sulla sua bislacca
nave in lotta per la libertà: “Benvenuto nel mondo reale”. Riflettiamo un istante su questa affermazione in cui sono presenti due elementi fondamentali.
Il primo è identificato dall’espressione mondo reale,
cioè le cose come veramente sono. Quelle che i miei sensi percepiscono –
questo bicchiere, il microfono, il cielo, il mare – e quelle di cui mi
offrono qualche indizio perché la mia intelligenza possa riconoscerli:
lo sguardo di chi ho di fronte, il sorriso dei figli, il volto
dell’amata, il gusto del lavoro, la sofferenza per il male fisico, il
dolore per quello morale, la paura della morte, l’angoscia annoiata del
vivere senza senso… Il mondo reale appunto!
Ma l’affermazione di Morfeo contiene anche un altro decisivo fattore, concentrato nella parola composta: “Benvenuto”. È bene che tu Neo sia entrato nel mondo reale: è bene per te, ed è bene per noi!
Non è forse questo il senso dei primi sorrisi di una madre al suo
bambino? Sorrisi che questi impara subito a ricambiare. Cosa significano
se non “è bello che tu sia venuto al mondo (reale), è bene per te, è bene per tutti”? Nessuno sfugge a questa esperienza.
Al
mondo reale io mi rapporto sempre e inevitabilmente secondo quella
dinamica, tipicamente umana, che possiamo identificare col termine desiderio.
Non si comprende la parola desiderio, tanto meno se si parla di
desiderio di Dio, se non la si concepisce come il tendere di tutto il
mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale.
Infatti, secondo la definizione semplice ma completa del vocabolario, desiderio è il “volgersi con affetto a qualcosa che non si possiede e che piace”.
Vedete che, come in una calamita, sono sempre presenti due poli. La
dinamica del desiderio implica sempre e inseparabilmente la cosa che non
si possiede e che piace e il volgersi ad essa con affetto. Sottolineo
“con affetto”, vale a dire con la mente, col cuore, con la totalità del
nostro io.
E Dio che c’entra?
Ve
lo dico con una citazione formidabile, tra le più potenti di tutta la
storia del pensiero, che si trova in un grande libro, ancora oggi, dopo
1600 anni, il più ristampato (se si toglie la Bibbia). «Tu ci hai creati per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te»
. Agostino usa la parola cuore per esprimere il desiderio nella sua
ampiezza totale costituita dai due poli prima identificati: l’io che
anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale. Viene subito in
mente la suggestiva etimologia della parola desiderio di don Giussani: de-sidera, dalle stelle.
Il
termine cuore è decisivo in tutta la Sacra Scrittura e perciò in tutta
la tradizione giudaica e cristiana. In particolare noi occidentali non
riusciamo a prescindere dall’impiegare il termine cuore secondo tutta
l’intensità che lo connota. Qual è? “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”.
Per dire il carattere necessario, imprescindibile del cuore don
Giussani scomoda una parola dura, oggi assai discussa, ma insuperabile: natura. Potremmo dire che la natura piena del desiderio è rivelata in ognuno di noi dal cuore.
E
cosa c’è di più grande di Dio? Quella realtà di cui non si può pensare
niente di più grande? A tal punto che non si trova pace (inquietum cor) fin che non si riposa in Lui. Desiderare Dio è la grande aspirazione dell’uomo: «Il tuo volto, Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 8-9).
Come
ha affermato uno dei più grandi filosofi viventi, il tedesco Robert
Spaemann: anche se in tutti i tempi qualcuno o molti pensano,
teoricamente o praticamente, che Dio sia morto, perché allora la diceria
di Dio è immortale? Perché non si riesce a metterla a tacere? Perché la
natura del cuore, cioè il desiderio profondo di ogni uomo e di ogni
donna, si porta dentro, come un quotidiano, ineliminabile rumore di
fondo, questa presenza? La risposta si impone in qualche modo da sé:
senza questa presenza alla fine nessuno potrebbe dirti: “Benvenuto nel mondo reale”!
Infatti,
ogni uomo identifica con questo vocabolo il termine ultimo del proprio
desiderio: ciò per cui vale la pena fino in fondo vivere, anche solo
cinque minuti, ciò per cui la vita nel mondo reale è un bene e non un
male.
2. Come riconoscere Dio che ci parla?
Fino
a quindici anni fa circa si parlava dell’eclissi di Dio, giungendo
anche ad affermare che la sfera religiosa sarebbe del tutto sparita
dalla società. Oggi, se si eccettuano taluni tentativi di elaborare un
“nuovo ateismo , giudicati dai critici come più stravaganti che
oggettivamente pertinenti, siamo di fronte ad una grossa sorpresa: Dio è
tornato. Anzi, osserva il sociologo Casanova, «le religioni di tutto il mondo», quelle tradizionali piuttosto che i «nuovi movimenti religiosi», «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica»
e partecipano alle lotte per la ridefinizione dei confini tra sfera
pubblica e privata, tra sistema e mondo vitale, tra legalità e moralità,
ecc .
Quella
che era la questione centrale della fine dell’epoca moderna, il binomio
eclissi/ritorno di Dio assume, nella post-modernità, un’altra, forse
più adeguata, formulazione (utilizziamo la parola post-modernità nel suo
significato più semplice, per indicare il nuovo mondo che si sta
spalancando davanti a noi dopo la caduta dei muri (1989), un mondo che
presenta una forte discontinuità con il precedente, cioè con la
modernità). Oggi la domanda cruciale non è più: “Esiste Dio?”, ma piuttosto: “Come aver notizia di Dio?”
E quindi: “Come Dio si comunica a noi così che si possa narrare Dio, e
comunicarlo in quanto Dio vivo all’uomo reale che vive nel mondo reale?
Come nominare questo Dio perché l’uomo post-moderno -cioè ciascuno di
noi – lo percepisca significativo e quindi conveniente?” .
Nell’ottica occidentale, influenzata radicalmente dal giudaismo e dal cristianesimo, Dio è Colui che viene nel mondo.
Se viene nel mondo è distinto da esso, ma questo non esclude la
possibilità che gli uomini lo colgano come familiare. Allora per parlare
di Dio all’uomo post-moderno, «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso che viene nel mondo ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare»
. È necessario domandarsi prima se c’è una familiarità tra Dio e l’uomo
ed interrogarsi su di essa perché Dio possa essere veramente
conosciuto. Un problema di sempre, è divenuto particolarmente acuto
nella post-modernità che non è interessata ai discorsi sui massimi
sistemi, sulle mondovisioni, ma è sempre più presa dai problemi del
vivere quotidiano. Per l’uomo di oggi la questione non è tanto se esiste
Dio, ma se esiste cosa ha a che fare con me ogni giorno. Mi è
familiare?
Ebbene
la convinzione che Dio si è fatto conoscere e si è reso familiare
perché si è compromesso con la storia degli uomini è nel DNA della
mentalità occidentale .
Se
le cose stanno così – e al di là di tutte le apparenze che sembrano
contraddire questa affermazione, stanno veramente così – allora
cerchiamo di scoprire come la presenza di Dio ci diventa quotidianamente
familiare, giungendo a colmare, in modo del tutto gratuito, il
desiderio in senso pieno, sciogliendo l’inquietudine di cui parlava
Agostino, rinnovando per me, per te e per tutti gli uomini, in ogni
circostanza ed in ogni rapporto, l’invitante saluto: “Benvenuto nel mondo reale”.
In questo modo la parola desiderio acquista tutto il suo spessore, che
non si lascia ridurre, come quasi sempre noi rischiamo di fare, ad una
pura aspirazione soggettiva, ma vive nella sua pienezza bipolare, come
il tendere con tutte le nostre forze al reale, il cui orizzonte ultimo è
l’infinito e propriamente parlando Dio stesso.
3. La familiarità di Dio all’uomo
La
possibilità di aver notizia di Dio e di narrare di Lui sta nell’ascolto
di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E conviene dire
subito che la comunicazione gratuita e piena del Dio Invisibile ha un
nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio.
Il Vangelo di Giovanni lo dice fin dall’inizio a chiare lettere: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18).
In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von Balthasar ricorda che «Dio ha reso breve la sua Parola (Verbo, Figlio, l’ha abbreviata» (Is 10,23; Rom 9,28). Il Figlio stesso che è «il Logos eterno si è fatto piccolo… Si è fatto bambino, affinché diventi per noi afferrabile»
. In caso contrario sarebbe stato impossibile andare al di là della
conoscenza, anche questa confusa e non senza errori, della Sua
esistenza.
Per
dire Dio occorre, quindi, approfondire la lingua (in senso forte) della
creatura che il Verbo incarnato ha voluto liberamente assumere. È
necessario comprenderne, per così dire, la grammatica. Quella grammatica
che è capace di narrarci il Divino.
Così,
non solo il cristiano sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e
Dio, ma ogni uomo, anche colui che si dice non credente, lo potrà
riconoscere. Almeno nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani , quando, parlando di Abramo, dice: «Come
sta scritto: “Ti ho costituito padre di molti popoli”; (è nostro padre)
davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama
all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17).
Con questa stupenda espressione Dio è descritto, nello stesso tempo,
come creatore ed operatore di salvezza. E l’Apostolo sa bene Chi è il
Dio di cui vuol parlare. Dio è «colui che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono». Infatti, nel primo capitolo della stessa Lettera ai Romani, l’apostolo aveva ammonito che non ha alcuna scusa chi non riconosce «ciò
che di Dio si può conoscere… perché Dio stesso lo ha manifestato.
Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e
divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per
le opere da Lui compiute» (Rm 1, 19-20). Ciò che di Dio si
può conoscere, dice Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere tutto, ma
quel che di Dio si può conoscere lo possono conoscere tutti.
La notitia Dei,
cioè accogliere ed ascoltare Dio che è tra noi e comunicarLo, continua
ad essere possibile ed è del tutto pertinente anche alla condizione
dell’uomo post-moderno . Si tratta per questo di imparare la grammatica
della lingua con cui Dio ci parla, cioè di considerare quali siano i
luoghi essenziali dell’umano in cui continuamente si attua il Suo
rapporto con noi. Quei luoghi che Egli ha assunto per dirsi all’uomo.
Sono quelli attraverso i quali ogni uomo, se ne renda conto o meno,
cerca di soddisfare la natura profonda del proprio cuore, di colmare il
suo autentico desiderio. Ci limitiamo ad indicarne tre che ci sembrano
fondamentali.
Riflettiamo
sul desiderio non in astratto riducendolo alle nostre aspirazioni
soggettive, ma lo esaminiamo nel suo concreto attuarsi nella nostra
realtà quotidiana.
a) L’esperienza umana nella sua semplicità
Memento
è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan. In esso Leonard
Shelby, tentando di salvare la moglie da due malviventi, rimane
gravemente ferito alla testa. Tale trauma gli causa l’impossibilità di
accumulare nuovi ricordi. Tutti i contenuti recenti ed immediati della
sua memoria svaniscono dalla sua mente pochi minuti dopo averli
accumulati. Si ricorda solo quel che gli è successo prima
dell’incidente. Sa da dove viene e come affrontare la vita di ogni
giorno: come mangiare, come guidare, come scrivere, ma non appena si
mette al volante non sa più perché è salito in auto, quando entra in un
ristorante non si ricorda perché ci è andato, se incontra una persona
conosciuta da poco non riesce più a ricordare di averla già incontrata.
Siccome dal momento dell’incidente, che resta anche l’ultimo ricordo
fissato nella sua memoria, l’unico scopo nella sua vita è trovare e
punire l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, determinato e
consapevole del suo problema, Leonard prende ossessivamente appunti,
fino a farsene tatuaggi, e fotografa con la Polaroid tutto quello che
gli può essere utile perché ormai sa che lo dimenticherà dopo pochi
minuti.
Questo
film mi sembra descrivere efficacemente un tratto rilevante dello stile
di vita di noi uomini post-moderni. Uno stile di vita spesso confuso
nel suo desiderio di soddisfare la conoscenza del mondo reale che ha il
suo vertice nel desiderio di Dio. Come il Leonard di Memento
noi viviamo frammentati nella miriade di informazioni, conoscenze e
saperi a tal punto che quando affrontiamo un aspetto della nostra vita è
come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non
esistessero.
Facciamo riferimento a logiche (esperienze) autonome fra loro
praticamente non comunicanti, perché non integrate in un sistema di
valori onnicomprensivo. Ci comportiamo come se non avessimo un’ipotesi
esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente il reale.
Siamo ossessivamente attaccati ad ogni particolare, fino a tatuarcelo
sul cuore. E per questo ci appoggiamo all’enorme potenza di memoria
quantitativa nei nuovi media, ma a ben vedere questa non è la vera
memoria, quella dell’uomo che li usa. Siamo dominati di
volta in volta da una “logica etica” (in genere collocata nel piano di
una coscienza che non ammette tribunali), da una “logica economica” (il
più delle volte totalmente sganciata da quella del bene umano), una
“logica tecnica” (in cui la sofisticazione e la complessità sono beni in
sé indipendentemente dalla loro utilità), una “logica artistica” (ars gratia artis),
una “logica politica” (del potere per il potere) e così via. Non
possiamo ovviamente negare che, in Occidente, l’espansione di queste
logiche particolari ha favorito un’enorme efficienza di tutti i processi
di sviluppo. Ma ciò che è tipico della variante “post-moderna” mi pare
il fatto che sia venuto a mancare qualsiasi quadro di riferimento
onnicomprensivo, almeno ampiamente condiviso, nel quale le diverse
logiche possano trovare contrappesi e reciproche compensazioni. Vale di
fatto il contraddittorio principio: “tutto differente, tutto uguale”. Forse è soprattutto in questo senso che la “fine delle grandi narrazioni” produce un effetto diretto e immediato nei modi di vita delle persone.
Eppure
anche questa pratica di vita, che diventa poi teoria, deve fare i conti
con il riaffiorare nel reale dell’inaffondabile grammatica dell’umano,
attraverso la quale il Dio che si è coinvolto con la storia continua
instancabile a darci notizia della sua presenza tra noi.
Non a caso alla fine del film Leonard Shelby giunge ad affermare: “Devo
credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie
azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo
convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad
esserci… Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi
siamo, io non sono diverso…”.
Sì,
anche tenendo conto di tutte le obiezioni possibili, derivanti dalla
complessità di vita propria dell’uomo post-moderno, si deve concludere
con Karol Wojtyła: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato
esperienza comune dell’uomo» , di ciascun uomo. Essa ne attesta
anzitutto l’integralità e l’elementarità, cioè la sua indistruttibile
semplicità. Infatti, «questa esperienza nella sua sostanziale semplicità
supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità» .
Troviamo
qui una significativa convergenza con la dottrina cattolica sull’uomo
secondo la quale l’umana natura, pur ferita dal peccato originale, non
si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali, né mai si
potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha
“scaricato” né il mondo, né gli uomini. Al contrario, come insegna la
Bibbia, ravvisando nell’arcobaleno il segno di un’alleanza imperitura di
Dio nei confronti degli uomini e di tutti i viventi dopo il diluvio, ai
tempi di Noè (cfr. Gn 9, 9-17), la condizione creaturale non è stata e non sarà mai distrutta per iniziativa divina, a castigo per i nostri peccati.
Perciò
ad uno sguardo limpido e leale sarà sempre possibile riconoscere ed
indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria
semplicità costituisce la prima comunicazione di Dio ed apre la
possibilità di narrare Dio al “fratello uomo”, perché tale esperienza
universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha
voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La
permanenza di questa condizione creaturale è, di per se stessa,
“testimonianza” che Dio rende a Sé stesso e, quindi, via sicura per
riconoscere che Egli è nel mondo reale. Egli è il Dio con noi.
Qual
è il contenuto sostanziale di questa esperienza? In cosa consiste
questo primo elemento della grammatica propria della lingua con cui Dio e
l’uomo si parlano?
Innanzitutto
nella stessa ragione (uso qui il termine in senso generale), con la sua
capacità (trascendentale) di ospitare il reale che pertanto si rivela
come intelligibile : L’uomo, con la sua ragione, è capace di attingere
il vero che sempre fa tutt’uno con il bene ed il bello. Ma va subito
aggiunto che la ragione comprende il reale restando in connessione
inscindibile con la volontà. È questa, a ben vedere, la natura del
cuore. In esso si uniscono conoscenza e affettività. Mediante questa
struttura comune a tutti uomini il mondo reale si offre come fonte di
stupore e di meraviglia e rinvia oltre le “cose” che appaiono
(differenza ontologica) aprendo la strada al riconoscimento che Dio ci
parla. Si intravvede in tal modo quanto sia letteralmente vero che Dio
costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana.
Questa
è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua
radicalità che permette ad ogni uomo di ricominciare ogni mattina,
affrontando circostanze e rapporti in modo costruttivo. Il memento,
cioè la memoria, non è l’ossessivo prodotto della nuova forma di
scrittura, che consiste nella pretesa di trattenere tutto attraverso
l’ingigantirsi dell’archivio dei files dei computers, vivendo nel
contempo, come Leonard, frantumati e dimentichi, di volta in volta,
dell’uno o dell’altro aspetto essenziale della nostra esistenza. La
memoria è quel legame tra passato e futuro reso possibile da un io che,
spalancandosi completamente. sempre può incontrare il mondo reale se
ascolta fino in fondo il suo cuore.
Questa
esperienza comune ad ogni uomo – questo primo e fondamentale luogo
della comunicazione e della narrazione di Dio – possiede due
implicazioni di radicale importanza.
In
primo luogo la coscienza che Dio non è “altrove” rispetto alla realtà,
ma è “dentro” la realtà. E questo nel senso preciso che la costituisce
qui ed ora, la crea facendola partecipare del Suo stesso essere: «Il mondo è stato fatto per mezzo di Lui» (Gv
1,10). Un Dio fuori dalla realtà sarebbe un puro prodotto della nostra
immaginazione. Sarebbe un nome vuoto, come spesso affermano gli uomini
di oggi quando, interrogati, non negano l’esistenza di Dio. Sarebbe un Quid incomunicabile, non suscettibile di essere conosciuto da tutti gli uomini.
In
secondo luogo, se Dio è “dentro” la realtà, se Egli costituisce
l’implicazione ultima di ogni esperienza umana, allora nessun uomo è
lontano da Dio, né, lo voglia o meno, può minimamente allontanarsi da
Lui. Ovviamente non perché la bestemmia non resti sempre una tragica
opzione, bensì perché la negazione di Dio implicherà sempre la censura o
il rifiuto della propria esperienza umana integrale ed elementare.
Su
questa base di esperienza umana comune, nel descrivere l’intervento
gratuito della rivelazione in Cristo, San Giovanni può dire con verità «venne fra i suoi» (Gv 1, 11).
b) Io-in-relazione
La
grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la
creatura ha però altre articolazioni essenziali. Farò ora brevemente
riferimento ad un dato che con facilità ognuno di noi si trova in
qualche modo addosso, perché fa parte dell’esperienza comune ad ogni
uomo. Se ben riflette egli scopre di essere uno – per questo si può dire io -, ma sempre e solo nella dualità
di anima-corpo, di uomo-donna e di persona-comunità. L’unità dell’uomo è
quindi segnata da un’insopprimibile tensione drammatica – come la
tensione tra i due poli di una calamita – che mette sempre in gioco la
libertà del singolo in ogni suo atto. Ebbene anche attraverso questo
dato antropologico essenziale Dio narra Se stesso.
Ed
è per questo che nella manifestazione della corrispondenza, per grazia,
tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento
dell’auto-comunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo si
illumina il percorso di ogni uomo.
Per ovvii motivi di tempo ho scelto di soffermarmi solo sull’ultima delle tre polarità costitutive, quella di persona-comunità,
proprio perché la nostra epoca è contraddistinta da un individualismo
psicologico e sociale di vasta portata. Esso rende fragili i rapporti
umani, specialmente la trasmissione del significato della vita tra le
generazioni. Questo non è più vissuto come un ovvio patrimonio
dell’umanità.
Nel
post-moderno l’individualismo prende forme inedite e più radicali. È
inteso anzitutto in senso neutro, non sarebbe né buono né cattivo, è
meccanica ed ossessiva attenzione al valore singolare della persona.
Anche in questo caso si tratta di un processo iniziato nell’età moderna,
che però ha avuto il suo culmine nell’età contemporanea grazie
all’estesa possibilità di controllo delle nascite che ha prodotto quello
che un celebre sociologo francese ha chiamato l’arretramento della
morte . Il fatto che in Occidente l’età della morte si sia elevata di
molto in breve tempo ha prodotto come effetto clamoroso, tra gli altri,
il dato che il figlio sia diventato, nei fatti e nell’immaginario
collettivo, fondamentalmente un individuo prodotto di una riduttiva
aspirazione soggettiva (desiderio in senso restrittivo). La grave
conseguenza di questo fatto è la seguente: ha gradualmente riformulato
la percezione che le persone hanno di se stesse: non si sentono più
anzitutto chiamate a far parte della catena delle generazioni, ma
anzitutto a realizzare la propria autonomia; non si considerano più
anzitutto responsabilmente inserite in un tessuto di compiti e doveri,
ma piuttosto in una trama di voglie e aspirazioni (desideri puramente
soggettivi), che considerano indiscutibili quanto si pretende
indiscutibile il desiderio riduttivo che ha portato alla loro esistenza .
Le
conseguenze combinate di tutto ciò sono particolarmente rilevanti
soprattutto sul piano educativo. Da una parte, un insieme di logiche
sconnesse rende impossibile la trasmissione di punti di riferimento
coerenti (da accettare, discutere, migliorare, eventualmente
respingere). Dall’altra, la frammentazione dei legami generazionali e
tradizionali finisce per svuotare, riducendola a caricatura, la
conquista moderna del concetto di “diritti dell’uomo”, mette in
questione la stessa liceità delle dinamiche educative, almeno nella
misura inevitabile in cui esse sono di natura limitativa e costrittiva.
Come efficacemente sintetizza Yonnet, ogni atto educativo viene sempre
ipotecato dal sottinteso rimprovero: «Se io sono solo un prodotto dei vostri desideri (desiderio in senso riduttivo), perché io non dovrei fare ciò che a mia volta desidero, ciò di cui ho voglia?» .
Se
nel post-moderno il vuoto lasciato dal crollo dagli assoluti mondani
scopre e rende più evidente il vuoto dell’individualismo, sarà
soprattutto su questo terreno che prenderà forma l’invocazione del
ritorno di Dio: esso non potrà fiorire a partire da programmi culturali
astratti, tanto meno sulla base di automatismi sociali, ma solo grazie
alla paziente ricostruzione di relazioni buone (da quelle più intime e
spontanee a quelle più istituzionalizzate e indirette) nelle quali
imparare a vivere e a compiere il bene attraverso pratiche virtuose. Per
educare non è sufficiente proclamare i valori ma è necessario far fare
l’esperienza dei valori .
E
questo – ecco che emerge di nuovo la testimonianza che Dio rende di Se
stesso nell’esperienza dell’uomo – è possibile anche nel mondo
frammentato ed esasperatamente individualista di oggi. Ancora una volta
possiamo far ricorso ad un bel film per averne un’idea. Mi riferisco al
divertente capolavoro Fratello, dove sei? Nei titoli viene
spiegato che l’ispirazione è l’Odissea. Tre galeotti evadono alla
ricerca di un grosso bottino nascosto e danno così vita ad una grande
avventura on the road. Ulisse-Everett, Delmar e Pete incontrano
un vecchio cieco che prevede che la loro ricerca, che non avrà come
esito il milione di dollari sperato, finirà quando vedranno una mucca su
un tetto. Sulla strada, simbolo del cammino della vita, scoprono i
diversi tratti dell’umano, incarnati, di volta in volta, da un gruppo di
fedeli che vengono battezzati in un fiume; da un nero che ha venduto
l’anima al diavolo per suonare la chitarra; poi incidono una canzone su
un disco rudimentale. Partecipano a una rapina con un pazzo gangster
Faccia d’angelo, si fanno derubare da un venditore di bibbie.
Sconvolgono una manifestazione del Ku Klux Klan. Cedono alla seduzione
di tre sirene canterine. Sono coinvolti nella campagna elettorale del
solito politicante disonesto in una variegata rassegna di volti e di
situazioni.
Alla
fine, però Ulisse ritrova l’ex moglie, Penelope (con le sei figlie),
sul punto di sposarsi con un altro… Vengono ripresi dalle guardie che li
hanno sempre inseguiti, stanno per essere impiccati, ma si salvano
perché la valle viene sommersa dal fiume, per via di una centrale
elettrica che tutto trasformerà. Ed ecco apparire la famosa mucca sul
tetto. Nel frattempo erano all’oscuro dell’enorme successo del loro
disco: I’m A Man of Constant Sorrow. Sì, in qualche modo va
tutto a posto. E così il chiacchierone Ulisse-Clooney ha efficacemente
spiegato all’America della depressione, la stupidità, il desiderio, la
speranza. Si concretizzano nell’esperienza comune: una bella famiglia
con qualche amico sincero, con la libertà carica di dignità e di
rispetto, al di là della fragilità. Lo sbilenco Ulisse dei fratelli Coen
cerca risposte. E le risposte le dà solo qualcuno, un volto presente
che interloquisce con te. Qui, al di là delle mille contraddizioni, si
vede bene che l’unità duale tra anima-corpo, uomo-donna e
persona-società è un elemento insopprimibile della grammatica
dell’umano. E che il vero nome del nostro io è io-in-relazione.
Voglio
osservare che almeno un frammento di questa semplice esperienza umana
resiste in ogni situazione. E a partire da esso si può sempre ritrovarla
nella sua integralità e semplicità. Questo suggerisce il film Fratello dove sei?
Non si potrà mai abbandonare questo linguaggio perché è quello che Dio,
venuto nel mondo per essere la via alla verità e alla vita, continua ad
indicarci come la lingua attraverso la quale il Creatore ci parla. Ma
ogni desiderio che tesse la trama quotidiana dell’umana esperienza – il
desiderio di avere la vita salva, di amare e di essere amato, di
edificare la città – rinvia “più in là”, oltre il suo contenuto
particolare, perché ogni circostanza ed ogni rapporto costituiscono per
l’uomo che vive il reale un richiamo, sono un passo che riaccende il cor inquietum,
lo tende a Dio. Del resto Omero non dice nell’Odissea: “Tutti gli
uomini hanno bisogno degli dei”? Questa è la ragione per cui la Chiesa
considera i desideri autentici dell’uomo validi alleati per l’annuncio
di Gesù Cristo che non a caso ha promesso felicità e piena libertà (cfr.
Mt 19,21; Gv 8,36b). Genialmente Gómez Dávila, forse il più grande autore di aforismi, ha scritto: «Non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione» .
c) Domanda di salvezza e di redenzione
In
terzo luogo è opportuno affrontare la questione da sempre collegata
alla domanda su Dio e la Sua presenza nel mondo. Si tratta, della
domanda circa la fragilità umana e soprattutto circa il male, in
particolare circa il peccato, il male compiuto da me. Esso, con il suo
seguito di sofferenza, di dolore e di morte ha l’inconfondibile marchio
della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge,
rompe, come ha mostrato la storia del XX° secolo con le sue tragiche
utopie che hanno infittito il buio dell’eclissi di Dio fino al suo grado
più tenebroso .
Ma
il dato da cui troppo spesso si prescinde è che l’esperienza umana
della fragilità, della sofferenza e del male è sempre attraversata – e
non può non esserlo – dalla domanda di salvezza e di redenzione. Non
importa la modalità con cui questa redenzione venga immaginata o
descritta. Taluni, con erronea ingenuità, continuano a concepirla come
frutto delle proprie forze, come autosoteria in senso prometeico. Altri,
ascoltando le sirene di certe vulgate dell’estremo Oriente, la
identificano con la “fuga dalla realtà”. Né mancano coloro che tentano di convincerci che “si vive e basta”, che in verità il problema della salvezza e della redenzione non esiste. Eppure, il loro desiderio si ripropone sempre.
Forse
la domanda di salvezza e di redenzione è il luogo dove si identifica in
modo più evidente il suo essere frutto di un dono, la sua gratuità. Per
questo, risulta decisivo riconoscere la possibilità del perdono e della
misericordia, unica sorgente dell’unità della persona e dell’unità tra
le persone.
Il
luogo per eccellenza della manifestazione della salvezza e della
redenzione è il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al
Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con
Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma l’Alleanza di Dio
con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento.
Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo
Testamento è la documentazione e l’annuncio, parlano. Precisi sono i
segni che li rendono presenti: dal Crocifisso fino all’azione del
memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di
testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza. Nel
perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità
perduta a cui tutti, in vario modo anelano, come vediamo nelle
multiformi espressioni culturali ed artistiche di ogni civiltà. Guardare
Cristo, guardare il Crocifisso glorioso è l’invito conveniente da
riproporre a noi stessi e ad ogni nostro fratello uomo.
Anche
chi non vive la fede in Cristo si porta dentro questo desiderio
indistruttibile di salvezza e di redenzione. Anch’esso è parte della
grammatica della lingua in cui Dio e l’uomo comunicano. L’esperienza
della misericordia piena, il Crocifisso glorioso, costituisce, per così
dire, il vertice dell’esperienza che ogni uomo può fare. Infatti,
proprio in forza dell’essere perdonato l’uomo non si vede costretto
all’autogiustificazione attraverso la negazione del male compiuto: il
male è tale e nulla può giustificarlo. Eppure, il peccato, la cui
potenza distruttiva non sfugge a nessuno, non è più l’ultima parola
sull’uomo se lo si riconosce e se ne domanda il perdono. L’uomo non è
ultimamente definito dall’evidenzadisperante del suo male, ma dal suo
desiderio di salvezza,
Questo
implica la sconfitta di ogni tentazione utopica e totalitaria.
Innanzitutto perché ci aiuta a comprendere che non si dà il male
assoluto: ogni giudizio definitivo viene lasciato all’unico Giudice
della storia, il Crocifisso Risorto. E poi perché permette di cogliere
che la redenzione è sempre un dono, mai l’esito della presunzione da
parte dell’uomo di costruire sistemi così perfetti che più nessuno
avrebbe bisogno di essere buono .
4. La via della testimonianza
Il
percorso compiuto ha voluto delineare le condizioni per il re-incontro
tra la domanda religiosa post-moderna e Dio, che alla fine è il Dio di
Gesù Cristo. Di tali condizioni sono decisivi tanto i contenuti, quanto
il metodo.
Di contenuti, purtroppo sinteticamente presentati, ne abbiamo individuati tre:
1.
l’uomo (ragione-libertà) è capace di conoscere e accogliere la verità
perché il reale è intelligibile e noi possiamo ospitarlo. In ogni atto
umano possiamo costatare e toccare con mano il desiderio del bene, del
vero, dell’uno e del bello, desiderio che muove la libertà. Questa nella
sua semplicità è l’esperienza umana integrale ed elementare comune a
tutti gli uomini;
2.
la natura del soggetto è relazionale: l’io-in-relazione è il soggetto
umano in senso pieno; perché l’io nella sua insopprimibile unità è
sempre unito di due: anima-corpo, uomo-donna, persona-comunità.
3.
l’unità dell’io, fragile per natura e minata alla radice
dall’esperienza del male, grida il bisogno di salvezza e di redenzione, a
cui risponde pienamente il perdono che, per misericordia, ricostituisce
l’unità dell’io con Dio, con se stesso e con gli altri.
Queste
tre condizioni dell’umana esistenza ci aiutano a guardare la Persona
del Verbo incarnato come Persona salvifica e redentrice. Egli ci conduce
al Padre, Padre Suo e Padre nostro, affinché il nostro cuore di
creature passi progressivamente dall’inquietudine al riposo compiuto del
cielo che già si anticipa quaggiù. Questa è la ragione della venuta di
Dio nel mondo. Perciò essa giustifica l’interesse per la persona storica
di Gesù Cristo agli occhi dell’uomo contemporaneo. Seguendolo si impara
quella ginnastica del desiderio (Agostino) che conduce a Dio.
Perché? Perché in Gesù Cristo il desiderio integrale dell’uomo, cioè il
suo cuore, incontra piena soddisfazione. Emerge così l’interesse per
l’uomo nuovo – senza il quale l’interesse per Cristo resta nominale – e,
nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo, senza il quale
l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto. La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia
di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è
sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la
preziosità, né l’impegno che richiede alla fede.
Nel
nostro percorso abbiamo però anche seguito un metodo su cui ora intendo
dire un’ultima parola. Domandiamoci qual è il metodo inaugurato dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? Si chiama Gesù Cristo, testimone degno di fede (cfr. Ap 1, 5), Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo.
Se
Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca
dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte
alla sempre risorgente pretesa di «incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» . Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare» . Continua a tener desto per il nostro bene l’Inquietum cor.
Per questo l’in-contro con il fratello uomo non potrà mai evitare il contro,
vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di
addomesticare la presenza reale di Dio nella famiglia umana e nella sua
storia. Della compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto
se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo
al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza
specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal
modo l’insopprimibile desiderio di Dio che si manifesta, magari in modo
confuso e contraddittorio, nel linguaggio antropologico di cui
abbiamo portato tre esempi e che ogni creatura non può, in ogni
circostanza ed in ogni rapporto, non continuare a parlare. Il desiderio
di Dio, infatti, è come la fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri.
Lo rivelano le parole finali con cui la protagonista del film Il Concerto
(di Radu Mihailenau, 2009) confessa la propria sofferta, ma indomabile
ricerca del volto dei suoi genitori naturali che le era sempre stato
tenuto nascosto. Il racconto coinvolge profondamente, come solo la
passione per il destino umano sa fare, in una prospettiva di rinascita e
redenzione che soltanto l’apertura all’infinito (qui potentemente
evocata dalla bellezza della musica) riesce ad esaltare. Anne Marie
Jacquet, divenuta ormai una violinista di fama mondiale, afferma: “Cerco
lo sguardo dei miei genitori da quando ero bambina, per strada,
ovunque. Quando suono vorrei sentirmi addosso il loro sguardo, per un
istante, solo un istante”. Perché ho fatto ricorso a questa
citazione? Per dire che il desiderio di Dio, che non è pura aspirazione
soggettiva a un Dio astrattamente inteso, ma si esprime sempre in
concreto nei suoi due poli – incontro tra tutto l’io con tutto il reale a
cui tende -, attraverso il linguaggio dell’esperienza comune,
dell’io-in-relazione e del bisogno di salvezza e redenzione, è sempre
riscontrabile, almeno in suo frammento, in ogni persona. Nessuno può
parlare altra lingua che questa. E questa è l’elementare forma del
desiderio Dio nel quotidiano. Abita da sempre e per sempre il cuore
dell’uomo. Nel caso della protagonista del Concerto si esprime
nell’insopprimibile, dolorosa ricerca della figliolanza-paternità. Il
dono della fede in Gesù Cristo conferma il desiderio naturale di Dio,
nel momento stesso in cui, per pura grazia, trova la via maestra al suo
compimento.
Questa
fede ci viene donata nella Chiesa. Volutamente il nostro titolo parla
di Chiesa e post-modernità, e non di “cristianesimo”. Vuole richiamare
ad una dimensione più concreta e storica.
La
Chiesa viva è sempre santa al di là dei peccati, talora terribili, del
suo personale, come lo chiamava Maritain. La Chiesa come soggetto
cristiano personale e comunitario. Quella che, per dirla con Guardini,
avviene nelle anime (persone). Ed è santa perché nasce permanentemente
dal dono della redenzione: santa perché redenta. Questo soggetto può
proporre – senza pretese egemoniche, lo ripeto -, anche in una società
plurale e complessa come la nostra, l’avvenimento di Cristo in tutte le
sue implicazioni – necessarie e contingenti, certe ed opinabili –
antropologiche, sociali e cosmologiche. Cristo è dentro, è il
Dio incarnato nel nostro quotidiano. E, a partire da queste implicazioni
– ne abbiamo descritte tre di natura antropologica – ogni uomo può, in
grazia e libertà, giungere fino al riconoscimento esplicito di Gesù
Cristo, via alla verità e alla vita (Agostino).
Questo
però domanda testimoni. La grammatica del narrare Dio può essere solo
testimoniale. Chiede qui ed ora un cambiamento radicale di mentalità
nella pratica e nella concezione della vita, secondo la geniale
intuizione di Massimo il Confessore: «Io penso che abbia
l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso
tutte le cose» . Amare Dio, ma in ogni cosa e sopra ogni cosa: questo è
il punto. Perché tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di
Dio (1Cor 3, 22).
Diventa
allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante
ipoteca moralista che la opprime riducendola, per lo più, alla coerenza
di un soggetto ultimamente autoreferenziale. La testimonianza brilla,
invece, in tutta la sua integrità, come metodo, cioè pratica di conoscenza e di comunicazione della verità.
Così intesa essa rappresenta il terreno base da cui fiorisce ogni altra
forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica,
teologica, artistica, ecc .
In
concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva
sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerLo di fronte al mondo,
come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato. Così fecero il
vecchio Simeone, Giovanni il Battista, gli Apostoli e, soprattutto, come
fece Sua Madre custodendo «ogni cosa nel suo cuore» (cfr. Lc 2, 51) e accogliendoLo, pietà elargita a tutto il genere umano, cadavere tra le sue braccia per poi salutarLo risorto.
Solo
la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo
invita efficacemente alla decisione. Si diventa testimoni – ha ricordato
efficacemente Benedetto XVI – quando «attraverso le nostre azioni,
parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica»; nella
testimonianza «la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella
storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale»;
in essa «Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà
dell’uomo» .
La
Chiesa, in modo diretto o indiretto, diventa condizione indispensabile
per desiderare Dio, perché Essa è il luogo umano, il popolo che rende
possibile la testimonianza come esperienza quotidiana. «Vieni e vedi».
Che cosa? L’uomo nuovo: l’io-in-relazione, non un io ridotto al puro
esperimento di se stesso. Come lo imparo? Anzitutto attraverso
l’Eucaristia e la liturgia, luogo primario dell’amore familiare di Dio,
esperienza di un sàpere, gusto, che diventa sapere. Luogo in cui è
permanentemente generato il popolo nuovo, il popolo del Signore in cui
ognuno è chiamato a dire non son più io che vivo (gratuità), perché ormai ho gli stessi sentimenti di Cristo (il pensiero di Cristo).
La Chiesa che ogni mattina, con il semplice segno di croce, mi ripete il saluto carico di speranza: “Benvenuto nel mondo reale!”.
Questa Chiesa che ci permette la più esaltante delle esperienze umane:
desiderare Dio. Questa esperienza non si può fare in solitaria come
un’avventura estrema sull’impervia parete rocciosa della vita o solcando
l’oceano periglioso dell’esistenza. Né si può farla in pienezza vivendo
comunità che restano di fatto riferite solo a se stesse. Questa
esperienza si fa solo e sempre in solidale compagnia con il “nostro fratello uomo”
(Karl Barth) che, nei mille modi dell’esistenza, viene al nostro
incontro. Qui si vede chi è il testimone. Colui che, condividendo di
persona anche l’ultimo frammento del desiderio che permane sempre in
ogni uomo, ridesta nel suo cuore la nostalgia del desiderio di Dio, cioè
del compimento della propria felicità. Questa nostalgia ha un nome
semplice e luminoso. Si chiama santità.
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scola
GIUSSANI/ 1. Scola:
la convenienza umana del cristianesimo
***
lunedì 22 febbraio 2010
«Sono
persuaso che a proposito del fatto religioso in genere, e del
cristianesimo in particolare, tutti crediamo già di sapere. Invece non
è impossibile, riaffrontandolo, approdare a qualche aspetto di
conoscenza nuova».
L’intento, del tutto positivo, di Luigi Giussani è stato sempre quello di mostrare la cum-venientia del fatto cristiano con quell’«insopprimibile senso religioso con cui la ricerca del destino dell’uomo coincide». Per
riformulare la proposta cristiana egli ha esaminato i fattori che
caratterizzano la vicenda culturale e sociale moderna e contemporanea.
Mi
sembra particolarmente illuminante in proposito rileggere oggi un
rilievo di Giussani sulla situazione del cristianesimo in Italia
all’inizio degli anni Cinquanta: «Una
situazione che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla
vita pubblica, dalla cultura, dalle realtà popolari, fra gli
incoraggianti applausi e il cordiale consenso delle forze politiche e
culturali che miravano a sostituirli sulla scena del nostro paese».
Quando
il mondo cattolico sembrava ancora occupare in modo imponente la
società, Giussani percepisce con lucidità l’ondata di secolarizzazione
che si sta per abbattere sull’Italia cattolica, i cui effetti saranno
visibili, macroscopicamente, a partire dal 1968.
Da
dove poteva nascere un simile, profetico giudizio? Dalla percezione
che tale presenza massiccia non era che l’eredità inerziale di un
passato: «Mi
apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza
umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel
fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a
comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale».
Ma questa
dignità culturale è impossibile se non a partire dall’esperienza di
un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti
ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e
senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo.
In
Giussani è lo stesso dinamismo che regge l’insorgere e lo svilupparsi
dell’esperienza e del pensiero. Una conferma questa del fatto che l’esperienza, quando è autentica, contiene il suo logos, non lo riceve dall’esterno, e a sua volta il pensiero, quando è integrale, non può che “rendere” la realtà in quanto tale.
In quest’ottica non sfugge come l’opera di Giussani superi
di schianto ogni dicotomia e ogni estrinsecismo nel considerare il
rapporto tra ragione e fede, tra natura e soprannaturale, tra umano e
cristiano.
Sono i due polmoni della riflessione di Giussani. Nel suo appassionato insegnamento e nei suoi scritti, il sacerdote milanese non cessa di porre
attenzione al frangente storico e culturale per comunicare
un’esperienza/pensiero alla libertà del suo interlocutore. Una libertà
che è sempre drammaticamente situata.
Realtà
(quindi storia e cultura) e conoscenza (perciò ragione e fede) fanno
l’esperienza dell’uomo aperto alla verità e desideroso di comunicarla.
La verità infatti non è veramente conosciuta fin tanto che non è
comunicata.
Non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di “ soggetto” come implicato nel dono stesso dell’essere.
Giussani
era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la
conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un
confronto a tutto campo: «Se
la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è
nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa
evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera
dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità
della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni».
Dell’autore Angelo Scola sta per uscire la nuova edizione del libro Un pensiero sorgivo. Luigi Giussani, Edizioni Marietti 1820.
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Postato da: giacabi a 09:35 |
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scola, giussani, cl
Da vagabondo a pellegrino
***
Eravamo precipitati nella figura del vagabondo comodo, ma la gente si ribella, vuole
diventare un consapevole pellegrino, vuol sapere da dove viene e
dove va, vuol conoscere il bello ed il buono, il giusto ed il vero della
vita, il senso del nascere e del morire.
Per questo si cammina, perchè
il pellegrinaggio è la più straordinaria metafora, il segno più concreto della vita dell'Uomo.
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Angelo Scola, Patriarca di Venezia
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Postato da: giacabi a 15:26 |
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scola
Scola: quella tecnoscienza che illude l’uomo
***
28-11-2007da : http://edicola.avvenire.it/ee/avvenire/default.php?pSetup=avvenire
DA PADOVA FRANCESCO DAL MAS
È proprio vero che la tecnoscienza libera e rende felice l’uomo? Il patriarca di Venezia, Angelo Scola, ha qualche dubbio. E ieri sera hanno dimostrato di averlo anche quanti hanno affollato l’aula magna della più storica università italiana, quella di Padova, per ascoltare il cardinale sul tema 'Il cuore e la grazia', che riassumeva dieci anni di convegni sull’attualità di sant’Agostino organizzati dall’associazione Rosmini, dalla Pastorale universitaria diocesana di Padova e da una decina di collegi ed istituti. Nell’occasione, don Giacomo Tantardini ha presentato il volume Il cuore e la grazia in sant’Agostino, e specifici contributi sono stati portati dal rettore Vincenzo Milanesi e dal procuratore Pietro Calogero. Dopo essersi soffermato sull’umiltà come la via maestra, passaggio obbligato del magistero di Sant’Agostino, e dopo aver ricordato la lectio agostiniana – specie in De libero arbitrio – sulla volontà e la grazia, il patriarca ha sottolineato che proprio questo testo mette in campo due questioni fondamentali per il cosiddetto uomo postmoderno. La felicità e la libertà. «Così come le domande di verità e di giustizia sono state le più dibattute dall’uomo moderno (fino alla caduta dei muri, per intenderci), oggi le domande di felicità e di libertà sono diventate l’emblema principe del postmoderno », ha sottolineato Scola. Le risolve la tecnoscienza? Evidentemente no, secondo il patriarca. Anzi. «Non possiamo negare che il dominio della tecnoscienza sulla nostra esistenza personale e sociale è divenuto assai rilevante nelle democrazie avanzate, soprattutto dell’Occidente. La tecnoscienza – ha ribadito Scola – sembra sostituire nella mentalità corrente le religioni o le filosofie nel dirci che cosa è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere, il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l’Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza». Tecnoscienza che sembra dare all’uomo il potere di esser felice. «Non solo di volere la felicità ma di poterla realizzare da se stesso, direttamente, senza in alcun modo riceverla come un dono». Si esprime così la pretesa di una libertà incondizionata. Una libertà che ha in suo potere tutto: «Posso, perciò devo», questo è l’imperativo categorico della tecnoscienza. Il potere del sapere scientifico – come spiega Scola – si documenta, da una parte, nel suo universalismo teorico e pratico (in antitesi alla molteplicità e conflittualità delle religioni), dall’altra nell’enorme incremento di possibilità che la scienza, attraverso la tecnica, mette a disposizione del mondo. «Così la tecnoscienza - non ha dubbi in proposito il patriarca - incentiva di fatto la rinuncia della ragione a porre le domande sui fondamenti ('Ed io chi sono? Chi alla fine mi assicura, oltre la morte, col suo amore?'). E sospinge la libertà a impegnarsi quasi esclusivamente nelle realizzazioni affidate ad una tecnicità sempre più potente e perciò alla fine sempre più autogiustificantesi. Si intravede qui una forma post-moderna di utopia non priva di pesanti conseguenze a livello sociale. Infatti tutto ciò che non rientra nell’ottica di questa sorta di 'universalismo scientifico' viene tutt’al più relegato in una specie di riserva indiana, che non può aspirare ad assumere rilevanza pubblica universale». È una mentalità crescente, alla quale non basta, tuttavia, contrapporre il lamento e la ricerca del colpevole. Ma la fede intesa come risposta umanamente compiuta, cioè laddove «gli uomini e le donne del nostro tempo si incontrino concretamente – dove si trovano ad amare e a lavorare, cioè nella loro vita reale – con comunità cristiane in cui sia praticabile l’esperienza del dono». Il patriarca di Venezia, al convegno sull’attualità di Sant’Agostino, ha parlato della nuova utopia odierna che sostituisce religioni e filosofie: «Dà la sensazione di aver raggiunto una libertà totale: posso, perciò devo» |
Postato da: giacabi a 19:17 |
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scola, scienza - articoli
“Qualcuno, alla fine, mi ama?"
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Questa è la domanda che, volenti o nolenti, ognuno di noi si porta dentro. Rispunta, per quanto rimossa sia, con insopprimibile pressione ogni mattina, dopo la strana parentesi del sonno. Il destino del mio io è strutturalmente legato alla possibilità di trovare una risposta esauriente a questa domanda. Del
resto chi di noi non è in ogni atto determinato dal bisogno-desiderio
di essere definitivamente amato e di amare definitivamente? Nella definitività di quest'amore sta dunque il mio destino di uomo.
Card. Angelo Scola, patriarca di Venezia
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Postato da: giacabi a 22:30 |
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amicizia, scola
LIBERTÀ DI EDUCAZIONE
S.E. REV.MA CARD. ANGELO SCOLA - 17/07/2006
"Educare nella società in transizione": discorso del Patriarca in occasione della Festa del SS. Redentore (Venezia, 16 luglio 2006)
"Educare nella società in transizione": discorso del Patriarca in occasione della Festa del SS. Redentore (Venezia, 16 luglio 2006)
Stralcio dell'omelia:
…….Educare: relazione consapevole della persona con la realtà
Sarebbe illusorio parlare di educazione senza chiamare espressamente in causa tre categorie fondamentali: persona, realtà, libertà. Poiché
è manifestazione sublime di cura, forma piena di “governo”,
l’educazione nasce e vive di rapporti interpersonali. Non vi è cura
senza farsi carico di tutta la persona. E la persona, a differenza del semplice individuo, mette in campo la relazione. Relazione con gli altri secondo una gerarchia di prossimità che, iniziando dai genitori, si dilata alla famiglia, ai vicini, alla scuola, all’università, al variegato mondo del lavoro. Relazione poi con le “cose” ed il cosmo, con le “circostanze” e la storia.
L’educazione è, in sintesi, la capacità di mettere consapevolmente in relazione la persona con la realtà. Tutta la persona e tutta la realtà sono in gioco nel rapporto costitutivo - interpersonale, ma sempre immerso in comunità - tra educatore ed educando. L’educazione è nello stesso tempo questione personalissima ed affare di popolo. Si può ben capire che non vi possa essere educazione senza libertà. Se educare
è “prendersi cura” dell’altro, allora questo significa pro-vocare la
sua libertà ad ospitare la realtà, in un confronto appassionato, a 360
gradi. In questo senso l’educazione esige da tutti gli attori in campo auto-esposizione e testimonianza.
Come afferma suggestivamente la sociologa Margaret Archer «ciò di cui ci prendiamo maggiormente cura» nasce da un «processo attivo di riflessione che avviene in un dialogo interiore». Il processo educativo del “prendersi cura” evidenzia cioè, le «nostre premure fondamentali» (ultimate concerns) le quali sono «ciò che ci rende esseri morali»
6. Libertà di educazione, misura della democrazia
La solenne azione liturgica che stiamo celebrando è evento paradigmatico di educazione. L’Eucaristia, infatti, si attua nella traditio
che Cristo ha voluto fosse permanente frutto della Sua
auto-esposizione, cioè del sacrificio redentivo della croce che vince la
morte a nostro favore. In quella cena pasquale, presi il pane ed il
vino, li trasformò nel Corpo e Sangue del Suo anticipato sacrificio e
diede ai Suoi l’ordine di fare la stessa cosa in Sua perenne memoria.
Gli Apostoli ed i ministri loro successori ancora oggi continuano a
compiere questo gesto sublime di traditio. Paolo lo descrive in modo incomparabile: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1Cor 11,
23): una definizione perfetta, e non solo per i cristiani, della
dinamica educativa. Prendersi reciprocamente cura dell’altro e del
legame con lui, dando vita ad un corpo generativo, in grado a sua volta
di prendersi cura dei figli propri e più in generale delle nuove
generazioni consente la realizzazione di una caring society.
Una traditio aperta all’ad-ventura (al futuro), poggiata sulla testimonianza, tesa a che la libertà dell’educando vada incontro al reale con umile curiositas, ne assapori la pienezza, non si blocchi di fronte alla contraddizione e al male suo e degli altri: a questo deve tendere con il contributo della intera comunità di appartenenza ogni comunicazione di sapere. Da quella più elementare e decisiva, che inizia in seno alla vita della famiglia, fino a quella scolastica ed universitaria, via via per tutto il corso della vita.
Se
l’aver cura richiesto ad ogni educazione domanda la capacità di
coniugare libertà - personale e comunitaria - e realtà, allora si
capisce come la libertà di educazione sia un irrinunciabile carattere distintivo di una società veramente libera. Il grado
di civiltà di una società si giudica soprattutto a partire dal peso e
dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle Istituzioni che
sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo.
La libertà di educazione misura la natura autenticamente democratica e popolare di una società. Di conseguenza giudica
anche la capacità dello Stato di svolgere la sua funzione di promotore e
garante di una società civile in cui le persone e tutti i
corpi intermedi – anzitutto i genitori e le famiglie – in piena libertà
possano esercitare, tra gli altri, il diritto fondamentale primario di
istruzione e di insegnamento. Ma quest’ultimo
resterebbe velleitario se non fosse accompagnato dal diritto di
costituire delle associazioni e di intraprendere delle attività sociali,
culturali ed economiche.
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