LETTURE/
Senza Padre non c'è libertà.
La lezione di Maria Zambrano
***
sabato 5 febbraio 2011
Il
6 febbraio di vent’anni fa moriva Maria Zambrano. Il grande affetto che
la legò a suo padre costituisce uno dei fulcri del suo pensiero insieme
filosofico e poetico, capace di giungere al fondo della vita senza
perdere la concretezza dell’occasione in cui essa si manifesta. L’eco di
questo legame si avverte in un saggio intitolato Verso un sapere dell’anima:
“Niente è più decisivo in una vita delle proprie origini. Per questo il padre rappresenta molto di più di un uomo in carne e ossa che ci ha generati. Ci dà un nome. Finché la nostra vita individuale dura, sarà segnata da questo nome e grazie ad esso smettiamo di essere uno per essere qualcuno di ben definito. La nostra individualità, così concreta, è legata al nome che riceviamo da nostro padre, per noi sigillo, segno distintivo. Prima che esseri di ragione o di coscienza, d’istinto o di passione, siamo infatti figli, ed essere figlio significa dover rispondere, doversi giustificare di fronte a qualcosa di inappellabile. E’ anche fiducia, credere all’ombra di una forza protettrice, che offre un riparo di cui non si metta in dubbio forza e clemenza. È questa l’educazione fondamentale su cui deve fondarsi qualsiasi cultura successiva, è l’esperienza prima della vita, l’incontro originario e decisivo da cui proviene tutto il resto. È insostituibile.
È difficile abbandonarsi alla vita con fiducia, dar credito ad alcunché, credere, se non siamo cresciuti così, sentendoci guidati da una mano forte e delicata che sa misurare, sentendoci osservati da uno sguardo di fronte al quale non è possibile alcuna simulazione, sentendo la nostra fragilità connessa a un principio invulnerabile. Nessun terribile avvenimento successivo potrà aver ragione di questa educazione, se ha avuto luogo; nessuna catastrofe potrà portarsi via questa fiducia originaria, nessun rancore potrà cancellare nell’anima il peso della tenerezza venuta dall’alto. Nessuna ingiustizia potrà sradicare dall’anima la fiducia ingenua nella vita di chi viene guidato paternamente nei suoi primi passi”.
“Niente è più decisivo in una vita delle proprie origini. Per questo il padre rappresenta molto di più di un uomo in carne e ossa che ci ha generati. Ci dà un nome. Finché la nostra vita individuale dura, sarà segnata da questo nome e grazie ad esso smettiamo di essere uno per essere qualcuno di ben definito. La nostra individualità, così concreta, è legata al nome che riceviamo da nostro padre, per noi sigillo, segno distintivo. Prima che esseri di ragione o di coscienza, d’istinto o di passione, siamo infatti figli, ed essere figlio significa dover rispondere, doversi giustificare di fronte a qualcosa di inappellabile. E’ anche fiducia, credere all’ombra di una forza protettrice, che offre un riparo di cui non si metta in dubbio forza e clemenza. È questa l’educazione fondamentale su cui deve fondarsi qualsiasi cultura successiva, è l’esperienza prima della vita, l’incontro originario e decisivo da cui proviene tutto il resto. È insostituibile.
È difficile abbandonarsi alla vita con fiducia, dar credito ad alcunché, credere, se non siamo cresciuti così, sentendoci guidati da una mano forte e delicata che sa misurare, sentendoci osservati da uno sguardo di fronte al quale non è possibile alcuna simulazione, sentendo la nostra fragilità connessa a un principio invulnerabile. Nessun terribile avvenimento successivo potrà aver ragione di questa educazione, se ha avuto luogo; nessuna catastrofe potrà portarsi via questa fiducia originaria, nessun rancore potrà cancellare nell’anima il peso della tenerezza venuta dall’alto. Nessuna ingiustizia potrà sradicare dall’anima la fiducia ingenua nella vita di chi viene guidato paternamente nei suoi primi passi”.
Anche
Seneca è per Maria Zambrano una figura paterna, autore molto amato,
forse per la comune origine spagnola e per la persistenza dell’antico
filosofo nella cultura popolare della sua terra. Il profilo di Seneca da
lei tracciato è una vera riscoperta per il lettore italiano, che
conosce il maestro dello stoicismo, lo scrittore dallo stile spezzato,
spesso oscuro e difficile da tradurre, l’uomo a cui si rimprovera il
fallimento nell’educazione di Nerone e l’incoerenza tra i costumi e la
dottrina, a cui si riconosce la dignità di una vecchiaia appartata e la
fortezza nel suicidio.
Poco di tutto ciò nella corposa introduzione della Zambrano a una antologia che raccoglie brani della produzione di Seneca. La sua figura, più che nell’impensabile ignominia dei suoi tempi, è inserita nella lunga serie dei filosofi che a partire da Socrate regalano all’occidente il culto della ragione intera. Egli è un sapiente, “un padre molto virile e molto materno insieme”, che sostiene con la sua forza il ragionare piegato sulla complessità che anche la vita più semplice porta con sé. La sua paternità parte da una compassione per la fragile puerilità dell’uomo e si esercita nel portargli una consolazione che non è un semplice anestetico, ma la generazione di un’anima addolcita e per così dire rassegnata. Egli è il maestro di costumi più citato nel forbito linguaggio dei predicatori e dei sermoni andalusi. La sua morale parte dalla disillusione del tempo che fugge, dalla morte che sovrasta l’esistenza, ma non è una morale dell’inattività. La sua prima regola è il lavoro: non una azione precipitosa o un irrequieto andare e venire, ma un agire che modifica le cose, un atto che racchiude fede, volontà e amore.
Alcune delle sue massime racchiudono una saggezza che sembra quasi cristiana: “Ricerchiamo un bene che non sia apparente, ma solido e costante e bello d’interiore bellezza, e portiamolo alla luce. Non è lontano: basta soltanto sapere dove tendere la mano”.
Poco di tutto ciò nella corposa introduzione della Zambrano a una antologia che raccoglie brani della produzione di Seneca. La sua figura, più che nell’impensabile ignominia dei suoi tempi, è inserita nella lunga serie dei filosofi che a partire da Socrate regalano all’occidente il culto della ragione intera. Egli è un sapiente, “un padre molto virile e molto materno insieme”, che sostiene con la sua forza il ragionare piegato sulla complessità che anche la vita più semplice porta con sé. La sua paternità parte da una compassione per la fragile puerilità dell’uomo e si esercita nel portargli una consolazione che non è un semplice anestetico, ma la generazione di un’anima addolcita e per così dire rassegnata. Egli è il maestro di costumi più citato nel forbito linguaggio dei predicatori e dei sermoni andalusi. La sua morale parte dalla disillusione del tempo che fugge, dalla morte che sovrasta l’esistenza, ma non è una morale dell’inattività. La sua prima regola è il lavoro: non una azione precipitosa o un irrequieto andare e venire, ma un agire che modifica le cose, un atto che racchiude fede, volontà e amore.
Alcune delle sue massime racchiudono una saggezza che sembra quasi cristiana: “Ricerchiamo un bene che non sia apparente, ma solido e costante e bello d’interiore bellezza, e portiamolo alla luce. Non è lontano: basta soltanto sapere dove tendere la mano”.
Decisamente originale è la posizione della filosofa spagnola rispetto al femminismo. Nel 1928 firma per il giornale El Liberal una
rubrica titolata Donne. L’assenza delle donne dal contesto politico
spagnolo è allora totale e desolante e va imputata anche alla loro
volontaria resistenza al cambiamento.
“Nessuno può pensare che la donna abbia colmato la sua ansia liberatrice con la cosiddetta emancipazione economica. No, perché questa emancipazione è piuttosto un insuccesso del quale la donna si dovrà consolare con ben più alte realizzazioni. L’ideale femminista, per usare il vecchio termine, sta al di là della emancipazione economica, che non è altro che un primo passo tristemente necessario”.
E avverte:
“Di fronte a questo cambiamento femminile l’uomo si impaurisce ed avverte una nostalgia malinconica per quei tempi in cui le donne non avevano altra occupazione che quella di soddisfare le sue esigenze erotiche e domestiche. E’ stato così rapido il cambiamento della donna nelle sue esigenze che l’uomo, sconcertato, inadeguato, non è in grado o non vuole, in genere, soddisfarle”.
“Nessuno può pensare che la donna abbia colmato la sua ansia liberatrice con la cosiddetta emancipazione economica. No, perché questa emancipazione è piuttosto un insuccesso del quale la donna si dovrà consolare con ben più alte realizzazioni. L’ideale femminista, per usare il vecchio termine, sta al di là della emancipazione economica, che non è altro che un primo passo tristemente necessario”.
E avverte:
“Di fronte a questo cambiamento femminile l’uomo si impaurisce ed avverte una nostalgia malinconica per quei tempi in cui le donne non avevano altra occupazione che quella di soddisfare le sue esigenze erotiche e domestiche. E’ stato così rapido il cambiamento della donna nelle sue esigenze che l’uomo, sconcertato, inadeguato, non è in grado o non vuole, in genere, soddisfarle”.
Postato da: giacabi a 12:57 |
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seneca, zambrano
L'amicizia
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Non c'è nulla che possa rasserenarti l'animo quanto un amico fidato.
È un gran conforto poter disporre di una persona dal cuore così pieno
di affetto da potervi riversare tranquillamente ogni segreto, dalla coscienza così aperta da metterti a tuo agio più di quanto tu non ti senta con la tua, la cui voce lenisca le tue ansie, il
cui consiglio aiuti le tue decisioni e il cui buonumore disperda la tua
tristezza; una persona, insomma, la cui sola presenza ti rallegri e ti
rassicuri ***
(Seneca)
Postato da: giacabi a 19:55 |
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amicizia, seneca
Per essere felice
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“Non può vivere felice chi guarda esclusivamente a se stesso, chi volge ogni attenzione ai propri interessi: è importante vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso.”
Seneca Lettere morali a Lucilio
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Postato da: giacabi a 16:07 |
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seneca, felicità
L'educazione
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La via d’imparare è lunga se si va per regole, breve ed efficace se si procede per esempi.
Seneca
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Postato da: giacabi a 21:01 |
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educazione, seneca
La vera eredità
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Io ho quel che ho donato.
“Hoc habeo, quodcumque dedi.”
Seneca
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Postato da: giacabi a 20:49 |
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seneca
Il tempo
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Voi vivete come se doveste vivere sempre, non pensate mai alla vostra fragilità, non volete considerare quanto del vostro tempo è già trascorso; buttate via il tempo come se lo attingeste da una fonte inesauribile: mentre, forse, quel giorno che voi regalate a una persona o a un affare, è l'ultimo per voi. Avete paura di tutto perché vi sapete immortali. Molte volte si sente dire: "A cinquant'anni mi ritirerò a vita privata, coi sessanta abbandonerò ogni impegno". Ma chi ti garantisce che vivrai ancora? Come puoi essere sicuro che tutto andrà nel modo previsto? E poi non ti vergogni di riservare a te solo gli avanzi della tua vita, di dedicare al tuo equilibrio interiore solo il tempo che ormai non può essere impiegato per nessuna attività? E' troppo tardi cominciare a vivere quando ormai è ora di smettere.
Seneca
Tutti
sono avari quando si tratta di tenersi ben stretto il patrimonio, ma
sono generosissimi nel buttar via il tempo: e pensare che questa è
l'unica cosa di cui sarebbe molto decoroso essere avari!
Seneca
Cerchiamo che ogni momento ci appartenga: ma non sarà possibile, se, prima, non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.
Seneca
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Postato da: giacabi a 15:24 |
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seneca
Il tempo che scorre
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«Dammi
retta, Lucilio, dedicati un po’ a te stesso e tieni da conto, tutto per
te, il tempo che finora ti lasciavi portar via, in un modo o
nell’altro, o, comunque, perdevi. È proprio così, credimi: il tempo ci viene tolto o sottratto, quasi a nostra insaputa, oppure ci sfugge non si sa come. E la cosa più indecorosa è perderlo per trascurata leggerezza. Prova a pensarci: gran
parte della vita ci scappa via mentre agiamo in modo sbagliato, la
maggior parte mentre stiamo senza far niente, e l’intera esistenza
trascorre in occupazioni inutili e che non ci riguardano veramente.
Trovami, se sei capace, uno che dia al tempo il giusto valore, che
capisca quanto può essere importante una giornata, che si renda conto
che noi moriamo un po’ ogni giorno! Perché questo è il punto: noi
pensiamo alla morte come a qualcosa che sta davanti a noi, mentre in
gran parte è già alle nostre spalle: tutta l’esistenza trascorsa è già
in suo potere. Allora, caro Lucilio, fa’ come mi scrivi: tieni stretto il tuo tempo ora per ora; dipenderai meno dal futuro, se avrai in pugno il presente. Mentre rimandiamo le nostre scadenze, il tempo passa. Tutto ci è estraneo, Lucilio, solo
il tempo è veramente nostro: l’unica cosa di cui la natura ci ha fatto
padroni; ma è passeggera e instabile, e chiunque può estrometterci da
questa proprietà. Che sciocchi gli uomini! Quando ottengono da
qualcuno delle inezie di nessun valore, facili da rimpiazzare, sono
pronti a farsele mettere in conto; ma non
c’è nessuno che si senta in debito, se gli si concede del tempo; eppure
questa è l’unica cosa che non si può restituire, nemmeno se si prova
grande riconoscenza.»
Seneca, Epist. Ad Luc. I^
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Postato da: giacabi a 17:01 |
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seneca
La sete di infinito
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Questo malessere spirituale è più grave quando l'uomo, insoddisfatto di una operosità infelice, si rifugia nella tranquillità e nello studio privato; ma neppure questo riesce a sopportare l'animo umano, fatto per la vita pubblica, bramoso d'agire e inquieto per natura, in quanto ha scarso conforto in se stesso;
perciò, abbandonate le soddisfazioni che l'impegno offre a chi non si
risparmia, l'uomo non sopporta la casa, la solitudine, le mura:
malvolentieri si accorge di essere abbandonato a se stesso. "
Di qui nasce la noia e l'insoddisfazione di sé e la volubilità dell'
anima che non trova pace, e la sopportazione amara e penosa della
propria inazione, soprattutto quando ci vergogniamo di
ammettere le cause e il rispetto umano ci costringe a tener dentro i
tormenti: le brame, chiuse senza sbocco in spazio angusto, si soffocano
da sole. Di qui la tristezza e il languore e l'ondeggiare della mente incerta.
(Seneca, La tranquillità dell'anima, 2, ,,6 s)
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Postato da: giacabi a 21:11 |
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tristezza, seneca, senso religioso
La grandezza dell’uomo
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È grande l'anima che si abbandona al destino: ma
è meschina e vile se lotta contro di esso e disprezza l'ordine
dell'universo e preferisce correggere gli dèi piuttosto che se stessa.Seneca |
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